Skip to main content

La rapidità della caduta dell’Afghanistan ha sconcertato tutti. Ma come è potuta maturare questa tragedia, dopo vent’anni di occupazione americana?

Quando, tra 1994 e 1996, i Talebani prima sorsero a Kandahar e poi presero il potere in quasi tutto il Paese, alcuni in Occidente videro con favore una possibile stabilizzazione del turbolento quadrante afghano, in preda a una sanguinosa guerra civile fin dal ritiro dell’Armata Rossa nel 1989. I Talebani erano appoggiati dall’ISI, il servizio segreto pakistano, ed avversati dall’Iran, che era nemico degli Stati Uniti, dimodoché in un primo tempo l’amministrazione Clinton pensò di poterci lavorare assieme, ed invitò addirittura negli Usa alcuni esponenti del regime. Ben presto, però, ci si rese conto del fanatismo di questa fazione, e della difficoltà di difendere di fronte alla propria opinione pubblica il trattamento inflitto alle donne; nel frattempo, i Talebani offrirono asilo ad Al Qaeda, che, dietro pressione americana, era stata cacciata dal Sudan.

Il coinvolgimento militare americano in Afghanistan risale all’indomani della tragedia dell’11 settembre 2001. Dopo gli attentati di Al Qaeda, la Nato, per la prima volta nella sua storia, aveva invocato l’Articolo 5 del Trattato dell’Atlantico del Nord: il casus foederis, ossia la clausola in base a cui un attacco contro uno dei membri dell’alleanza costituisce un attacco a tutti i membri; ma, di fatto, gli Stati Uniti, il 7 ottobre, attaccarono l’Afghanistan solo insieme agli alleati più stretti, Regno Unito, Australia e Canada, oltre ai mujaheddin afghani dell’Alleanza del Nord. Solo in seguito, durante la fase dell’occupazione, fu coinvolta la Nato, nelle missioni ISAF e, dal 2014, Resolute Support.

Per assurdo, delle due guerre di George W. Bush nel Grande Medio, ossia la guerra in Afghanistan e la guerra in Iraq, è fallita proprio la guerra considerata da molti (più) giusta, quella che si fondava su un reale casus belli. A suo tempo, un solo membro del Congresso americano, la deputata progressista afroamericana della California Barbara Lee, votò contro l’autorizzazione all’uso della forza contro i responsabili degli attacchi agli Stati Uniti. Gli Usa, che non erano preparati a una lunga occupazione dell’Afghanistan, si trovarono così per vent’anni in un Paese lontano, dal quale oggi fuggono in un modo surreale.

All’inizio, l’operazione militare americana era stata intitolata “Infinite Justice”, ma si rinunciò presto a quel nome, considerato offensivo da molti musulmani, poiché, si disse, la giustizia infinita appartiene solo a Dio (a chi scrive vien da pensare che la giustizia è piuttosto un rapporto, che una quantità: come tale più passibile di esser perfetta che di essere infinita); quindi la missione si chiamò “Enduring Freedom”, un nome a sua volta non riuscitissimo, dal momento che, a seconda che “Freedom” fosse inteso come soggetto o complemento oggetto, poteva essere interpretato sia come “Libertà che perdura”, sia anche come “Sopportare la libertà”.

Dapprincipio la missione parve un successo travolgente. Dopo l’attacco americano del 7 ottobre, nel giro di un mese e mezzo i Talebani sembravano definitivamente sconfitti. Addirittura, una settimana dopo l’inizio delle operazioni, il regime talebano si era offerto, dietro dimostrazione delle prove a suo carico, di consegnare Osama Bin Laden a un Paese terzo, che potesse giudicarlo con imparzialità, ma l’amministrazione Bush considerò l’offerta come insufficiente e tardiva e dunque la campagna di bombardamenti continuò.

Tuttavia, di lì a pochi anni, “distratta” dalla parallela occupazione irachena, Washington cominciò a “perdere” l’Afghanistan. La corruzione e il commercio di oppio continuarono a tenere a galla i Talebani anche durante gli anni dell’occupazione americana. I soldi degli occupanti, pur devoluti a progetti di sviluppo, finivano spesso nelle tasche dei Talebani, che controllavano molte province e pretendevano provvigioni. Nello stesso tempo, il governo appoggiato dagli americani, corrotto e inefficiente, non riuscì mai a legittimarsi fino in fondo presso la popolazione.

Barack Obama, dopo esser entrato in carica nel 2009, aveva promesso di ritirare le truppe dall’Afghanistan entro il 2011. Tuttavia, anche lui dovette attuare un “surge” (termine ormai preferito alla politicamente sconveniente “escalation”, che rimandava alla guerra del Vietnam, per indicare il dislocamento di più soldati), come Bush in Iraq negli ultimi due anni della propria presidenza. Obama in realtà concesse ai generali circa la metà delle truppe aggiuntive che essi gli chiedevano: 17.000 contro i 30.000 uomini in più voluti dal capo della missione ISAF David McKiernan; ma, in tutto, il contingente multinazionale dell’ISAF arrivò a contare circa 130.000 effettivi. Biden già allora fu contrario.

Joe Biden, infatti, già nel 2009-10, da vicepresidente di Obama, si era schierato a favore di un ritiro dall’Afghanistan. Secondo fonti anonime, Obama, pur desideroso di accantonare il dossier afghano, avrebbe detto una volta a Biden, con esasperazione, che sarebbe stato curioso di vedere come avrebbe fatto Biden, se fosse stato presidente per cinque minuti, a uscire dal pantano afghano. Non sorprende quindi che a nulla sia valso, una volta diventato presidente nel 2021, il parere contrario a un ritiro immediato da parte dell’intelligence e del suo stesso segretario alla Difesa Lloyd Austin.

Anche Obama, però, in realtà, non si era mai proposto di sconfiggere definitivamente i Talebani, bensì “solo” di battere Al Qaeda, che si era riformata nella zona di confine tra Afghanistan e Pakistan. Semplicemente, come testimoniato da Ben Rhodes, consigliere di Obama, il motivo per cui non fu mai attuato un ritiro completo è che, dopo aver molto temporeggiato, si prevedeva esattamente il tipo di vuoto di potere verificatosi oggi, che Obama, una volta giunto al termine del secondo mandato, non voleva lasciare in eredità al proprio successore.

All’inizio della sua presidenza, nel 2017, Donald Trump aveva sostenuto che fosse un errore stabilire una data di ritiro che consentisse al nemico di mettere in atto una strategia attendista.  I Talebani hanno lungamente detto: «Gli americani hanno gli orologi; noi abbiamo il tempo». Ma poi, con l’incalzare delle presidenziali del 2020 e pressato dalla stanchezza dell’opinione pubblica americana per quella che era stata bollata una “forever war” (o “guerra eterna”), Trump dette il via libera agli Accordi di Doha del 29 febbraio 2020.

Il capodelegazione americano Zalmay Khalilzad, egli stesso di origine afghana ed ex ambasciatore Usa nel Paese “liberato” dai Talebani ai tempi dell’amministrazione Bush, trattò con gli stessi Talebani cui gli americani avevano per anni dato la caccia. Come è ormai ampiamente noto, il corrotto e inefficace governo ufficiale fu del tutto escluso dai negoziati. Grazie agli Accordi di Doha i Talebani cessarono ogni attacco alle forze di occupazione americane o loro alleate, e il conflitto diventò essenzialmente una guerra civile afghana.

Biden, dopo aver rimandato il ritiro dal 1° maggio (come pattuito da Trump) al 31 agosto anche col fine di tornare a casa subito prima del ventennale dell’11 settembre, a fronte del crollo dello Stato afghano dinnanzi all’offensiva talebana, ha giustificato la decisione dicendo che gli statunitensi non sono disposti a morire per una causa per cui gli afghani stessi non vogliono morire. Tuttavia, dal 2013, le truppe americane hanno avuto solo più un ruolo di coordinamento e di appoggio aereo, non di combattimento attivo sul terreno, e, di fatto, dal 2014 le perdite da parte dei militari americani (ed alleati Nato) sono state contenute, gravando in misura preponderante sull’esercito e sulla polizia afghani. I governativi afghani, peraltro, hanno contato negli ultimi vent’anni circa 66.000 caduti tra soldati dell’esercito afghano e poliziotti, a fronte dei 2.448 morti ufficiali tra i militari americani prima dell’attentato del 26 agosto 2021 all’aeroporto di Kabul (cui vanno aggiunti gli oltre 3.000 caduti tra i contractor, che però non sono tutti americani). Il non detto è che la spesa degli americani in vent’anni di guerra ed occupazione è stata superiore a duemila miliardi di dollari, che ammontano a oltre 6.000 dollari ad americano.

Certo è paradossale che un ritiro voluto con l’espressa giustificazione di non sacrificare più vite americane, abbia portato, anche per l’avventato abbandono della base aerea di Bagram il 1° luglio – da molti considerata meglio difendibile dell’aeroporto di Kabul –, al numero più alto di perdite americane, 13, in un solo incidente, dal 2011. Indubbiamente una goccia nel mare rispetto alle decine (o forse centinaia) di migliaia di morti in vent’anni di guerra, ma comunque uno smacco atroce per chi sperava di tornare a casa in sicurezza.

Ancora l’8 luglio, Biden garantiva pubblicamente che non ci sarebbero state scene disordinate di elicotteri che decollavano dal tetto dell’ambasciata americana, come a Saigon nel 1975. Purtroppo, è esattamente ciò che è accaduto, e, per la presidenza Biden, questa débâcle rischia di rivelarsi esiziale come lo fu la caduta di Saigon per Ford o la crisi degli ostaggi nell’ambasciata di Teheran per Carter.

Soprattutto rischia di risentirne la credibilità degli Usa nel mondo multipolare a venire. Cina e Russia, oltre che l’Iran, stanno comprensibilmente già trattando con il regime talebano per gestire i trasporti, i commerci e i flussi di energia, oltre che l’inevitabile ondata di profughi, mentre il Pakistan considera i Talebani una propria emanazione diretta. Cina e Russia vogliono bensì evitare che il contagio islamista si espanda alle proprie cospicue minoranze musulmane, mentre il regime iraniano, sciita, è tradizionalmente diffidente dell’integralismo sunnita dei Talebani; ma tutti e tre questi Paesi si sono convinti che il modo migliore di arginare il pericolo è, oggi, trattare con l’Emirato islamico dell’Afghanistan, anziché ostracizzarlo.

In questo quadro, l’influenza americana scema fin quasi a scomparire. L’intento di Biden di controllare la situazione in Afghanistan dalle basi americane nel Golfo Persico, con interventi “over the horizon” (oltre l’orizzonte), affidati principalmente a droni, deve fare i conti, oltre che con l’ingente distanza, con la necessità di sorvolare lo spazio aereo di due nazioni non precisamente amiche come Iran e Pakistan (in questo periodo distante da Washington come non mai). Soprattutto, a temere il disimpegno americano, sono quelle nazioni che più dipendono dallo scudo a stelle e strisce per la loro sicurezza: Paesi Baltici, Corea del Sud, e, prima fra tutte, Taiwan.

Senza parlare dell’indebolimento che Biden subirà sul “fronte interno”, dove la sua popolarità è in picchiata e l’opposizione repubblicana lo attende col fucile puntato. Per ricostruire la credibilità americana, e sua personale, non è detto bastino i tre anni e mezzo di mandato che rimangono all’inquilino della Casa Bianca.

© Sintesi Dialettica – riproduzione riservata