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Auschwitz-Birkenau: i binari della memoria

Foto e riflessione di Cecilia Minuti, studentessa di Filosofia

Ho ventidue anni e sono una studentessa di filosofia quasi al terzo anno. A febbraio, finita la sessione, ho voluto dedicare il mio tempo ad un viaggio che mi consentisse di riflettere. Ho scelto la Polonia, per visitare Auschwitz di persona.

In cinque giorni, da Cracovia, ci sono tornata ben due volte, con un solo giorno di distanza fra una visita e l’altra.

In quel luogo faticavo a realizzare dove mi trovassi, ma subito ho capito quanto sia necessario andare lì di persona. Quel luogo cambia la vita.

Ad Auschwitz si respira un’aria viziata, si calpesta il terreno opprimente dell’orrore.

«Arbeit macht frei», si legge sopra l’ingresso, «Il lavoro rende liberi», lacerante contraddizione, la più cupa della storia, fin troppo semplice nel suo inganno.

Il cammino all’interno del campo rende via via lo strazio più presente: nel primo tratto, un altoparlante ricorda ai visitatori i nomi e i cognomi delle vittime del terrore nazista.

In uno dei Block di mattoni, un’imponente teca di vetro contiene settemila chili di capelli umani, dal Reich considerati materiale per realizzare suole per le scarpe e imbottiture di materassi.

Marchiati con numeri indelebili, i prigionieri sono bestie da soma che muovono passi affaticati nella neve dell’inverno polacco.

Ma anche nel baratro l’uomo riconosce cosa è giusto e cosa no.

L’opposizione alberga in gesti di velata rivolta: uno fra questi è la deliberata scelta di un fabbro ebreo di montare la lettera “b” di Arbeit al contrario.

Questi luoghi ci insegnano che non si deve e non si può smettere di lottare.

A cosa serve rivivere queste atrocità?

«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario»: Primo Levi, che sulla sua stessa carne ha visto incisi i numeri dell’orrore, indica come unico antidoto al fondo nero delle realizzazioni umane, il primato della memoria. Ricordare che l’inconcepibile è possibile.

«Come fotografo di guerra, spero di restare disoccupato fino alla fine della mia vita».

La mostra fotografica: «Robert Capa. Nella storia», al Museo delle Culture di Milano

di Rebecca Lavinia Baldin

Robert Capa, pseudonimo di Endre Ernő Friedmann

(Budapest, 22 ottobre 1913 – Thai Binh, Vietnam, 25 maggio 1954)

Le immagini di Robert Capa, il più grande fotografo di guerra del ’900, devono svegliare le nostre coscienze, ricordando a tutti noi – mentre infuria l’orrore della guerra in Ucraina – che la Seconda guerra mondiale dilaniava la nostra Europa appena qualche decennio fa. Considerando ciò che è stato e ciò che oggi accade, non possiamo perdere la coscienza del bene più prezioso, la pace, la quale va costruita ogni giorno e difesa così come la democrazia, la libertà, la giustizia.

Il «Mudec», Museo delle culture di Milano, con la recente mostra «Robert Capa. Nella Storia» (nov. 2022 – marzo 2023), ha reso omaggio al grande fotografo ungherese, in occasione dei 110 anni dalla nascita, il 22 ottobre 1913. Abbiamo selezionato e aggiunto anche altre immagini di Capa, tratte da «Magnum Photos».

1- MUDEC – Soldati tedeschi fatti prigionieri dalle forze americane. Bastogne, Belgio, 23-26 dic. 1944.

2- MUDEC – Persone lungo una strada fiancheggiata da edifici distrutti. Berlino, agosto 1945.

3- MUDEC – Un contadino indica a un militare americano la strada presa dai tedeschi. Troina, Sicilia, 4-5 agosto 1943.

4- MAGNUM PHOTOS – Sbarco di soldati americani a Omaha Beach. Normandia, 6 giugno 1944.

5- MAGNUM PHOTOS – Il generale Giuseppe Molinero (a destra), comandante della città di Palermo, si arrende al generale americano Geoffrey Keyes. Palermo, 1943.

6- MAGNUM PHOTOS – Un soldato americano con un prigioniero tedesco durante la battaglia delle Ardenne. Bastogne, Belgio, 23-26 dicembre 1944.

7- Allestimento della mostra del “MUDEC”

8 – Robert Capa

La Shoah in Ungheria

Foto e presentazione di Rebecca Lavinia Baldin

Holocaust Memorial Center (2004)
Budapest, Páva u. 39, 1094.
Sito web: https://hdke.hu/en/

Monumento Vivo (2014)
Piazza della Libertà (Szabadsag ter)
Budapest, 1054.

Scarpe sul Danubio (2005)
Budapest, Id. Antall József rkp., 1054.

Oggi la democrazia attraversa una profonda crisi. Non è retorico dire che occorre sempre fare memoria di ciò che è stato, per rinnovarla ogni giorno e difendere, lungo sempre nuove piste, la libertà e la giustizia.

«Sintesi Dialettica», per questo, è voluta andare in Ungheria, una nazione profondamente colpita dai totalitarismi e oggi critica, contraddittoria, di confine tra concezioni del mondo, per informare su uno più grandi abissi della storia dell’umanità.

Museo del Memoriale dell’Olocausto. La comunità ebraica di Budapest è una delle più grandi d’Europa ed ha contribuito attivamente allo sviluppo dell’Ungheria nei primi del Novecento. La mostra mette al centro il rapporto tra Stato e cittadino, ed il processo che, a partire dal 1938, ha gradualmente privato queste persone dei loro diritti fondamentali: proprietà, libertà, vita.

Scarpe in ferro lungo il Danubio. L’opera, concepita dal regista Can Togay e realizzata con lo scultore Gyula Pauer, ricorda il massacro di cittadini ebrei ad opera delle “croci frecciate”. I miliziani trascinavano fuori dal ghetto uomini, donne e bambini e li schieravano lungo il Danubio. Lì venivano legati a gruppi di tre e ne veniva ucciso uno con un colpo alla nuca che, cadendo nel fiume, trascinava con sé gli altri ancora vivi. La morte avveniva per affogamento nell’acqua gelida e i pochi che sopravvivevano venivano finiti dai miliziani che sparavano dalla riva.

Piazza della Libertà (Szabadsag ter): la comunità ebraica ha realizzato un anti-monumento ai piedi del monumento retrostante – un’aquila (la Germania) che minaccia l’Arcangelo Gabriele (l’Ungheria) – composto da oggetti reali: scarpe, valigie, foto e documenti contro il revisionismo che assolve il governo ungherese collaborazionista del marzo 1944 dai crimini commessi contro gli ebrei.

"Il bunker di Falcone e Borsellino"

foto di Federica Corsi

Questi locali furono allestiti nel Palazzo di Giustizia di Palermo. Qui, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – come si legge nel sito della Corte d’Appello di Palermo – «continuarono per alcuni anni il loro lavoro potendo fruire di una maggiore riservatezza e di qualche misura di protezione, come la porta blindata e le telecamere che consentivano di vedere dalla stanza di Giovanni chi intendeva accedere ai locali».

Oggi, il cosiddetto “bunkerino” è sede del Museo Falcone-Borsellino dedicato alla memoria dei due grandi magistrati uccisi da cosa nostra nel 1992.  Il 23 maggio 2022, per i trent’anni dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio, Federica Corsi ha realizzato questi scatti.

"Ai piedi di Auschwitz"

Opera di Loretto Ricci.
Tecnica mista (cemento, tessuti, pigmenti), per 105 cm di altezza, 160 cm di lunghezza, 15 cm di profondità.
Il progetto è a cura dell'”Associazione Cultura della Pace” (www.culturadellapace.org), Sansepolcro (Arezzo).
Le foto sono di Riccardo Lorenzi (www.riccardolorenzi.it)

«La Shoah ha rappresentato una volontà di annientamento. Le migliaia di scarpe ritrovate nel campo di sterminio di Auschwitz, rappresentate in quest’opera, ricordano ciò che si voleva eliminare: l’impronta dell’umanità.
Fare memoria di tale abominio, e respingerlo con tutte le nostre forze, ci permette di riaffermare una presenza che, proprio con la sua assenza, grida con forza il suo esserci manifestando la sua impronta nel mondo».