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Salsal e Shamama sono i nomi di due vittime cadute per mano dei talebani nella città afgana di Bamyan nel marzo del 2001. Non erano essere umani, bensì statue di pietra del VI secolo, raffiguranti il Buddha. All’epoca, la distruzione fu rivendicata dal mullah Omar in chiave anti-idolatrica, ma anche come atto di protesta contro la decisione di una delegazione occidentale di offrire denaro per la preservazione di tali statue, piuttosto che a favore della lotta alla fame.

A distanza di vent’anni, sempre a Bamyan, i talebani hanno disintegrato nel settembre 2021 la statua eretta a memoria dell’eroe sciita anti-talebano, Abdul Ali Mazar. Occorre, dunque, soffermarsi anche su questi atti criminosi, pregni di significato politico e culturale, alla luce dell’insediamento del governo provvisorio dei talebani proclamato il 7 settembre – con a capo il primo ministro, l’oltranzista mullah Muhammad Hassan – che vede la presenza di esponenti considerati terroristi sia dagli Stati Uniti che dall’Onu.

La deflagrazione di quelle statue si aggiunge alla lista di crimini dello stesso tenore compiuti in pochi anni anche dall’Isis. Questo scempio ha travolto nell’arco degli ultimi otto anni le antiche mura della città assira di Ninive, in Iraq, e le due statue leonine alle porte di Raqqa, in Siria; le opere del museo archeologico di Mosul, Iraq; l’antica città assira di Nimrud, nel nord dell’Iraq; le rovine assire di Dur-Sharrukin; la città di Hatra, in Iraq; il leone di al-Lat a Palmira, in Siria; le colonne a Palmira, sempre in Siria; la cosiddetta “porta di Dio” assira di Mosul, in Iraq; il sito archeologico dell’epoca assira Tal Ajaja, in Siria; i mausolei e monumenti islamici sufi a Timbuctù, in Mali;  tutte le chiese dei territori controllati dallo Stato Islamico (la Chiesa Verde a Tikrit, uno dei più antichi monumenti cristiani in Medio Oriente); il mausoleo sciita di Fathi al-Kahen a Mosul e la moschea di Al-Arbahin a Tikrit, celebre perché conteneva quaranta tombe dell’era omayyade risalenti all’VIII secolo.

A ciò, poi, si devono aggiungere: una delle presunte tombe del profeta Daniele, la tomba e moschea del profeta Giona, quella del profeta Jirjis e il santuario dell’Imam Awn al-Din; la moschea Khudr a Mosul;la moschea Al-Qubba Husseiniya a Mosul, la moschea Jawad Husseiniya e il mausoleo di Saad bin Aqil Husseiniya a Tal Afar; il mausoleo sufi di Ahmed al-Rifai e la cosiddetta Tomba della Fanciulla (Qabr al-Bint);i santuari sufi vicino a Tripoli, in Libia; la tomba di Muhammad bin Ali e del sepolcro di Shagaf a Palmira, in Siria; il monastero di Sant’Elian, a Qaryatain, in Siria e dei templi di Baal Shamin e di Bel a Palmira; il monastero di Sant’Elia a Mosul, il più antico in Iraq. Una mattanza architettonica che paradossalmente ha un “che” di ecumenico: tutte queste vittime erano simboli di civiltà e tradizioni religiose anche assai diverse fra loro, ma tragicamente accomunate da una colpa imperdonabile: quella di essere invise ad una visione teocratica avversa non solo alla sola esistenza fisica di testimonianze e di realtà diverse dalla propria, ma anche alla loro semplice allusione simbolica. Se, poi, s’intendesse ricordare che le matrici di questa furia devastatrice affondino le radici nelle vicende del cristianesimo, allora è doveroso ricordare quanto segue. Al di là di dense questioni teologiche non esauribili in poche righe, l’iconoclastia cristiana interessò solo le raffigurazioni pittoriche e non indiscriminatamente anche le statue e i luoghi di culto, ma soprattutto si esaurì all’interno del perimetro delle diatribe religiose che coinvolsero l’impero bizantino a partire dal 726 d.C. e – successivamente e con manifestazioni meno eclatanti – i luterani nella cornice della riforma protestante, senza che si traducessero – a differenza delle azioni talebane e del califfato islamico – nella devastazione di simboli di fedi religiose quali il buddismo, il confucianesimo o l’islam stesso. Lo stesso crollo delle Torri gemelle dell’11 settembre è una tragedia che dimostra l’estensione di quest’odio per i simboli architettonici ben al di là dei luoghi di culto o dell’arte sacra, perché quella coppia di edifici specchiati, squadrati e grigi, dove hanno perso la vita migliaia di persone, era il monumento più in vista della “mecca economica occidentale”. Ed è comprensibile che le prove di mediazione messe in campo dai Paesi che si riconoscono nei principi dell’Unesco con l’attuale governo di Kabul si preannuncino ardue, tenendo conto del retroterra culturale di chi – nella sua vocazione distruttrice – non fa distinzione fra edifici destinati a uffici e le statue del Buddha.

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