Che cosa succede quando siamo di fronte ad un’opera d’ arte? Da spettatori mediamente attenti, e magari anche un po’ appassionati, ci fermiamo qualche istante a osservare le forme, i colori, lo stile dell’autore per cercare di cogliere il significato o semplicemente per provare delle emozioni.
Che cosa succede quando siamo di fronte ad un’opera d’ arte ? Da spettatori mediamente attenti, e magari anche un po’ appassionati, ci fermiamo qualche istante a osservare le forme, i colori, lo stile dell’autore per cercare di cogliere il significato o semplicemente per provare delle emozioni. Questo processo così ordinario, che può essere descritto senza difficoltà con il linguaggio della psicologia del senso comune, ha una base profonda nell’attività cerebrale. Per esempio esiste una corrispondenza tra le emozioni che proviamo di fronte all’opera e le aree del cervello che presiedono alle emozioni stesse, dalla paura alla gioia, dall’orrore alla tenerezza. Il tutto senza dimenticare che l’incontro con l’arte avviene attraverso il canale obbligato della percezione estetica, perché vediamo, tocchiamo o ascoltiamo un’opera attraverso i nostri occhi o le nostre orecchie. Non diversamente percepiamo tutto il resto del mondo dell’esperienza, composto dalla natura o comunque dagli infiniti oggetti che non definiamo artistici.
L’idea che le neuroscienze, dalla neurobiologia alla psicologia evoluzionistica, possano dire qualcosa di utile su quello strano oggetto che, non senza problemi e slittamenti semantico-culturali, definiamo opera d’ arte , è il tema del volume Immagini della mente. Curato dal neurologo Giovanni Lucignani e dall’estetologo Andrea Pinotti, il volume presenta contributi di filosofi, neurologi, biologi, storici dell’ arte e neuropsicologi del calibro di Edoardo Boncinelli, Lamberto Maffei o Giulio Giorello, solo per citare i più noti nel panorama italiano. Va detto a merito del libro che un simile sforzo interdisciplinare si concretizza per la prima volta nel nostro paese.
La tematizzazione del rapporto tra arte e cervello è relativamente recente. Solo nel 1994 la rivista inglese Brain pubblica un articolo dal titolo “The neurology of kinetik art”, firmato da Semir Zeki, fino ad allora noto come esperto di neuroanatomia. Il contributo dello studioso inglese è tanto più importante quanto più si precisa nell’idea che le arti figurative obbediscono alle leggi standard del cervello visivo e dunque sono un caso nemmeno troppo particolare del fare esperienza delle cose. Tale consapevolezza permette di battezzare, intorno al 2001 la disciplina che lo stesso Zeki denomina neuroestetica. Si tratta di un termine probabilmente infelice in italiano, ma non ancora sostituito con qualcosa di meno ambiguo, come forse quello di “estetica neurologica”.
Un secondo contributo alla considerazione neuroscientifica dell’ arte proviene da una direzione solo apparentemente eccentrica rispetto al dibattito estetologico. Intorno agli inizi degli anni Novanta, Giacomo Rizzolatti e la sua équipe di Parma hanno scoperto che nel nostro cervello esistono particolari neuroni di tipo sensorio-motorio dotati della sorprendente proprietà di attivarsi sia quando noi stessi compiamo un’azione, sia quanto sono altri soggetti a compierla. Grazie a questi neuroni specchio siamo in grado di comprendere il significato di un’azione intenzionale già a livello immediato, ovvero prima che intervenga il pensiero concettuale e linguistico. Di conseguenza, il nostro cervello può essere coinvolto empaticamente oltre che da azioni realmente attuate, anche da azioni solo rappresentate, come avviene nel caso delle arti figurative (come sottolineano Boncinelli e Giorello). Sulla base di queste evidenze sperimentali siamo pronti ad accettare che la struttura anatomo-funzionale del cervello sia la base materiale della teoria estetica, e concludere che nessuno di noi è passivo di fronte all’opera, ma la comprende interagendo con essa proprio grazie alla presenza dei neuroni specchio.
Quello che le neuroscienze dimostrano oggi non è estraneo al paradigma proposto dall’estetica moderna, nata dal clima razionalistico del XVIII secolo. Fin dal nome (aisthesis vuol dire percezione in greco antico), l’estetica suggerisce come proprio nell’esperire si faccia fronte a un oggetto speciale, pensato da un creatore, l’artista, che sottopone poi l’opera al giudizio del pubblico. Da qui alla naturalizzazione proposta da Zeki, la storia è lunga, ma il passo in fondo è breve. Se l’estetica prende vita per ipotesi come p artespeciale della teoria della percezione, perché non usare gli strumenti della moderna neurobiologia per indagarne le ragioni?
Non pochi sono tuttavia i caveat nei cofronti dell’estetica che flirta con le scienze della mente. In generale, e ancora una volta per antica querelle, vi si oppongono tutti i teorici di ascendenza romantica, post-romantica e nichilista. Il loro compito, consiste nel difendere le scienze umane dalla minaccia del programma riduzionistico. Di solito la disamina spetta, chissà perché, un po’ ai filosofi, un po’ agli psicanalisti. D’altronde, se si finisse a considerare l’ arte come la risultante della sola attività di neuroni e sinapsi, come si potrebbe dar torto ai loro argomenti?
La neuroestetica, tuttavia, non pretende affatto di ricondurre l’ arte alla dimensione di fenomeno cerebrale, ma ha solo il coraggio di provare a togliere qualche ombra di troppo. Prendiamo il caso delle disfunzioni riguardo alla percezione dello schema corporeo, come potrebbero essere il vedere il corpo troppo sottile o troppo grasso rispetto a quello che realmente è, il deformarlo mostruosamente, come anche lo spostare arti o teste dal loro sito naturale a dove invece non dovrebbero stare. Tali disfunzioni sono alla base dei processi audacemente creativi messi in atto, ad esempio, da Giacometti, Botero, Bacon, Picasso o Henry Moore (si veda in proposito il saggio di Roberto Cappa). Per questo possiamo affermare con Zeki che l’artista si comporta come un “ neurologo sui generis”. O se si preferisce, l’artista si comporta come un neurologo ingenuo sì, ma anche naturalmente esperto delle svariate risorse che i meccanismi della percezione visiva offrono alla sua creatività.
La produzione artistica, in particolare nell’orizzonte dell’arte contemporanea, amplia la possibilità di conoscere il reale, ponendoci sotto gli occhi il limite dell’esperienza sensibile. Lo fa spingendosi talvolta verso il confine estremo, rappresentato in qualche caso dalle alterazioni patologiche della percezione. È così che l’ arte astratta grazie all’apporto delle neuroscienze diventa probabilmente più comprensibile. La danza di Jackson Pollock sulla tela, selvaggia e ritmata come se l’artista nell’atto di depositare il colore fosse posseduto da un’entità a lui estranea, evocata nel prezioso saggio di Lamberto Maffei, invita a considerare il rispetto di profonde leggi cerebrali. Questa ancestralità può suonare scandalosa per nostre menti raffinate. Persino l’arte , che un tempo veniva definita una delle espressioni più alte dello spirito, è almeno in parte un prodotto della natura.
G. Lucignani, A. Pinotti (a cura di), Immagini della mente. Neurologia, arte. Filosofia. Cortina, Milano 2007, €26,80.
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