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La violenta rivolta antigovernativa scoppiata all’inizio dell’anno in Kazakhstan, e durata all’incirca fino all’11 gennaio, ha lasciato sul terreno almeno 200 manifestanti e una ventina tra soldati e poliziotti. Da un punto di vista geopolitico, ha terremotato l’assetto istituzionale, finendo, per assurdo, per rafforzare l’attuale presidente a discapito del suo ingombrante predecessore.

Le proteste in Kazakhstan si sono scatenate per la revoca dei sussidi a inizio 2022, con il conseguente raddoppio del prezzo del GPL. Il gas di petrolio liquefatto era stato, infatti, fino ad allora, abbondantemente sovvenzionato, essendo il Kazakhstan il dodicesimo produttore di petrolio al mondo (pur non facendo parte dell’OPEC, come del resto la Russia). In breve tempo, tali proteste sono degenerate in violenze, soprattutto nella principale città Almaty e nella nuova (dal 1997) capitale Astana, già ribattezzata Nur-Sultan («Sultano di Luce») in onore dell’ex padre-padrone del Kazakhstan Nursultan Nazarbaev dopo le sue dimissioni nel 2019.

Nazarbaev, classe 1940, vecchio apparatčik del Partito comunista sovietico e presidente kazako dal 1990 (ossia da prima dell’indipendenza) era, assieme al tagiko Emomali Rahmon, l’ultimo sopravvissuto al potere tra i leader post-sovietici che avevano accompagnato i loro Paesi dal vassallaggio verso Mosca al nuovo autoritarismo centroasiatico. Pur avendo evitato finora gli scontri di piazza e le «rivoluzioni colorate» che avevano interessato altri regimi post-sovietici, il Kazakhstan non si era certo distinto per rispetto dei diritti umani, aggiudicandosi, nella classifica di «Reporter senza frontiere» relativa alla libertà di stampa, il 161° posto su 180 Paesi.

Nazarbaev, che era rimasto presidente del Consiglio di Sicurezza, sembrava finora il burattinaio del nuovo regime. Il nuovo presidente Qassym-Jomart Toqaev, scelto da Nazarbaev per succedergli nel marzo 2019, era stato confermato alla presidenza in elezioni-farsa il successivo 9 giugno, con «appena» il 71% dei suffragi al primo turno (una vera débâcle per un presidente in carica, almeno secondo gli standard kazaki): forse per non far ombra al suo predecessore.

Il Kazakhstan, tra le repubbliche ex sovietiche, è la seconda per estensione dopo la Russia, ed è il nono Paese al mondo per superficie, arrivando a 2.700.000 km.² circa – ossia nove volte l’Italia. A fronte di tale vastità, la densità abitativa è relativamente ridotta, essendo la popolazione inferiore ai 20 milioni d’abitanti, poco più della metà del vicino Uzbekistan.

Nonostante il Kazakhstan rientri culturalmente nel vasto Turkestan, l’enorme bacino culturale dei popoli di lingua e cultura turca, su cui la Turchia di Erdoğan cerca da sempre di esercitare il suo «soft power», non si può sottovalutare la duratura influenza dell’Impero russo-sovietico, che, oltre al perdurante uso del cirillico nella scrittura della lingua kazaka (la transizione all’alfabeto latino è prevista per il 2025), si appoggia su una minoranza di circa il 20% della popolazione di lingua e cultura russa, che può farsi forte di un confine tra le due repubbliche della lunghezza di ben 7.644 km. Il Kazakhstan è poi strategico per la Russia anche per il fatto di ospitare il cosmodromo di Baikonur, in concessione a Mosca fino al 2050, da cui partono tutte le missioni spaziali russe.

Lo stesso presidente Toqaev è, secondo molti, più a suo agio nel parlare russo che kazako, essendo stato un diplomatico sovietico prima della fine dell’Urss. Tale esperienza lo ha, inoltre, esposto alla sfera culturale della terza grande potenza che si contende l’influenza sul Kazakhstan dopo Russia e Turchia, e cioè la Cina, avendone studiato la lingua a Pechino e avendovi poi prestato servizio diplomatico negli anni Ottanta e primi anni Novanta, fino alla dissoluzione dell’Urss. Un incarico che si rivelerà, a posteriori, cruciale.

Per la sua posizione geografica, il Kazakhstan è infatti un inaggirabile snodo della parte terrestre della Belt and Road Initiative, o «Nuove Vie della Seta», il progetto infrastrutturale e commerciale di portata intercontinentale di Pechino, annunciato dal presidente Xi Jinping proprio durante una visita in Kazakhstan nel settembre 2013. Per evitare fratture con il proprio (secondo) ingombrante vicino, il Kazakhstan è costretto a non prendere posizione pubblica sulla persecuzione degli uiguri, la minoranza turcofona che abita la provincia cinese dello Xinjiang.

Il Kazakhstan è poi importante, oltre che per i giacimenti di gas e petrolio, anche per le ingenti riserve di uranio, di cui è primo produttore mondiale, coprendo oltre un terzo del fabbisogno globale (le centrali nucleari francesi, per esempio, sono alimentate principalmente da uranio kazako). Ma la cosa curiosa, che sembra aver giocato un ruolo importante nel vertiginoso aumento del costo dei carburanti una volta ritirati i sussidi governativi, è che il Kazakhstan è il secondo Paese al mondo per stoccaggio di bitcoin. Tale moneta elettronica si basa su potenti elaboratori elettronici, il cui consumo energetico parrebbe aver fatto lievitare la domanda di energia elettrica e, conseguentemente, il prezzo del carburante.

Toqaev, per restare al potere, ha dovuto chiedere l’intervento delle truppe dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, una sorta di contro-Nato organizzata dalla Russia fra le repubbliche ex sovietiche rimaste nell’orbita di Mosca: sono stati inviati circa 5.000 uomini da Russia, Armenia, Tagikistan, Kirghizistan e Bielorussia, per sedare la rivolta. La Russia, protettrice del regime kazako, intravede dietro gli scontri la mano di Washington. L’intervento delle truppe dell’OTSC è stato infatti giustificato in base all’articolo 4 del trattato, che prevede l’intervento collettivo in caso di attacco esterno a uno dei membri dell’organizzazione. In realtà non ci sono prove definitive di infiltrazione straniera nei movimenti di protesta contro il regime kazako, e gli americani, viste anche le tensioni crescenti intorno all’Ucraina, si guardano bene dall’intervenire, onde non acuire l’irritazione del malmostoso Orso russo. Lo scontento popolare, in effetti, sembra aver investito soprattutto le diseguaglianze presenti in un Paese ricco di materie prime e strategicamente posizionato, in cui le ricchezze sono però rimaste appannaggio di pochi adepti del regime, a partire dalle tre figlie di Nazarbaev, tutte eccellentemente posizionate nel mondo degli affari e della politica. Toqaev infatti, per tutelarsi, ha preso le distanze, almeno ufficiosamente, dal clan Nazarbaev, sostenendo che è ora di distribuire la ricchezza meritoriamente creata ai tempi dell’ex presidente e concentrata sinora nelle mani dei gestori di pochi conglomerati. Secondo voci sinora non confermate, l’ex satrapo, destituito da presidente del Consiglio di Sicurezza, sarebbe riparato all’estero assieme alla famiglia; il primo ministro Askar Mamin è stato sostituito; e il capo dell’intelligence Karim Masimov (giudicato uomo di Nazarbaev) è stato arrestato per alto tradimento. La radiotelevisione kazaka ha, frattanto, ricevuto ordine di riferirsi alla capitale con termine generico, senza cioè far riferimento al nome Nur-Sultan, evidentemente giudicato provocatorio in quanto reminiscente dell’antico dittatore. Che tutto ciò denoti un reale tramonto dell’influenza di Nazarbaev, o che si tratti di semplici misure cosmetiche per placare l’opinione pubblica, ciò che certamente non cambia è il fermo ancoraggio del Kazakhstan alla Russia, senza le cui truppe Toqaev non avrebbe in alcun modo potuto riprendere il controllo della situazione.

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