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La lingua, come ogni altra componente della cultura materiale e intellettuale di un popolo, è un bene fragile, continuamente esposto a forme di contaminazione, arricchimento o progressivo impoverimento.

Se la democrazia letteraria è garantita da un’unica lingua nazionale, la democrazia reale deve essere garantita dai dialetti. Ora, se da un lato ci sono l’italiano nazionale e i dialetti, dall’altro si fa prepotentemente avanti una deriva dell’uno e degli altri: chiarerei “antilingua” tale deriva.

Una questione, quella dell’antilingua, che probabilmente prende avvio a partire dall’unità d’Italia e che negli ultimi decenni ha preso notevole campo.

La nostra è una lingua viva, in continuo cambiamento. Anche come lingua degli immigrati cambia con la mobilità delle persone. L’antilingua interpella il reale rapporto tra l’Italia e la sua lingua, tra la lingua, in particolare parlata, e l’idea di unità nazionale. Dovremmo ancora chiederci, infatti, se oggi più di ieri il concetto di unità nazionale non sia totalmente estraneo al popolo.

La lingua italiana è stata all’origine dell’identità nazionale ma può essere causa ugualmente della sua disintegrazione. Oggi potrebbe anche essere intesa come la lingua di due o tre Italie separate.

Non sono rari i tentativi di minare il potere della lingua come specchio dell’identità nazionale. Oggi l’antilingua potremmo interpretarla come ribellione verso il senso estetico, per esigenze di un concetto corrotto di comunicazione. Certe derive espressive hanno progressivamente contaminato il linguaggio, anche della comunicazione ufficiale, trovando “cittadinanza” anche fra coloro che hanno responsabilità pubbliche. Si assiste quindi a un generale degrado, a un abbassamento dell’attenzione verso la correttezza linguistica nella stampa, ma anche in tanta produzione letteraria caratterizzata anch’essa da una scrittura povera, espressione di un pensiero privo di spessore e di sfumature, di coraggio e senso della responsabilità. Se la spinta verso l’antilingua continua a dilagare, l’italiano scomparirà dalla carta linguistica d’Europa come strumento inservibile. La scuola, in questo, assume la sua più grave colpa, non insegna più a parlare e a scrivere correttamente. Inoltre, troppe parole ed espressioni inglesi si insinuano dappertutto, nell’orale e nello scritto, peraltro senza poi conoscere bene la lingua inglese. Significativa, per esempio, è l’espressione “smart working”, che usiamo solo noi, e che gli inglesi non sanno neanche cosa significhi. Siamo comici, ridicoli, provinciali o ignoranti? O le quattro cose insieme? Possiamo e dobbiamo opporci alla deriva della lingua italiana, difendere la sua comprensibilità e bellezza, evitando di cedere al pressapochismo che ignora la sua storia. Questa urgenza interpella le classi dirigenti tutte, non solo politiche, di questo nostro faticoso Paese. L’antilingua colpisce, infatti, la nostra libertà, la nostra umanità.

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