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Insegno in carcere da settembre e la prima reazione che ho ricevuto si può sintetizzare così: «Stai attenta, non dare troppa confidenza». Non c’è stato, invece, un momento in cui abbia avuto paura dei detenuti. Sono consapevoli del lavoro che fai: stai offrendo loro un’occasione per riaffermarsi nella società. L’insegnamento è diverso dal normale. Insegni a gente adulta, e questo richiede una continua affermazione: devi essere autorevole, ma non troppo; devi essere incisiva, ma non troppo; devi essere empatica, ma non troppo; insomma, quella che ci vuole è la metriotes, la temperante umiltà, non facile da raggiungere, ma necessaria per sopravvivere.

Gli stimoli didattici sono pochi: i detenuti sono oberati di pensieri e hanno difficoltà nel leggere e nello scrivere. Per loro la scuola è un luogo dove relazionarsi con qualcuno che è “diverso” da loro in quanto viene dal mondo nel quale, forse, non rientreranno più. Gli insegnanti sono un ponte che collega l’interno con l’esterno, un continuum fisico e ideologico tra il dentro e il fuori.

È essenziale fornire loro gli strumenti di libertà per reintegrarli nella società: poesie, canzoni che stimolano la loro creatività e la loro immaginazione. Ciò crea un’atmosfera magica: ti lasciano entrare un po’ nel loro mondo, spesso fatto di dolore e sofferenza e tenuto segreto ai più. Il ruolo del docente è spiccatamente sociale e si crea un legame forte che fa comprendere il significato della parola compassione: cum patior, sopportare insieme, condividere il dolore prendendotene un po’ a carico.


© Sintesi Dialettica – riproduzione riservata

Credits Ph Emiliano Bar

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