Molti ragazzi, anche per loro partecipazione diretta come pubblico danzante, conoscono la “Notte Della Taranta”, manifestazione musicale che ormai da molti anni si tiene nella cittadina di Melpignano nel Salento. Quasi nessuno però ne conosce l’origine, il significato e la affascinante storia che la precede: la storia, cioè, legata al culto del Mito del Morso del Ragno.
Per poter entrare nel mondo “magico” del tarantismo è indispensabile fare un passo indietro nel tempo. Atterrare in un’epoca in cui molti di noi ancora non erano nati. Immaginare di trovarsi in un territorio arcaico, rurale, contadino e generalmente tenuto fuori dalla grande storia, dai grandi processi politici, culturali e naturalmente economici, come per lungo tempo è stata la penisola salentina: l’attuale, vacanziero e fortunato Salento.
Dunque un microcosmo, un’enclave culturale, che per sopravvivere ha dovuto ancorarsi ad un “orizzonte mitologico” autoctono, ben solidificato nel corso dei secoli.
Là dove veniva a mancare ogni modalità del moderno arnesàrio, medico/psichiatrico con cui noi oggi cerchiamo (o solo ce ne illudiamo) di tenere a bada l’infelicità, l’infelicità esisteva, come da sempre, e mordeva forte i talloni: quell’infelicità che Ernesto De Martino ha definito “il negativo dell’esistenza”.
Ora, il “negativo” si presenta nella vita di ognuno di noi con forme e contenuti differenti a seconda delle circostanze. Dalle vere e proprie nevrosi e psicopatologie, interpretabili in chiave di malattia, fino a forme di carattere più esteso e che quasi sempre, indipendentemente dall’area culturale e storica in cui si manifestano, sono strettamente connesse con l’incapacità dei soggetti a vivere i ruoli sociali e comportamentali cui il contesto di appartenenza sembrerebbe averli destinati.
Personalmente non credo che, sotto questo aspetto, ci siano epoche della Storia migliori o peggiori di altre, o che abbiano offerto ed offrano agli individui maggiori garanzie di equilibrio. Credo invece che sempre noi appariamo nel mondo, quale che sia il contesto, e troviamo una serie fittissima di regole da seguire, di modelli da imitare, di tabù da non infrangere. Ma regole, modelli e tabù non li abbiamo costruiti noi ed è per questo che doverli rispettare e condividere diventa spesso fonte di frustrazione e sofferenza.
Nel corso dei secoli le comunità contadine nel Salento hanno elaborato un escamotage, un sistema ritualistico con funzione taumaturgica e salvifica, che aiuti a far defluire “il negativo, dai corpi e dalle esistenze”. Principalmente attraverso l’uso della musica e della danza ritualistica e liberatrice che la musica fa mettere in campo.
Nel Salento, le tarante (niente a che vedere con l’iconografia classica del grosso ragno peloso!) sono piccole, graziose e micidiali. Il loro nome scientifico è “latrodèctus tredecim guttàtus” per via delle tredici macchioline gialle che portano sul dorso, da non confondersi con il più micidiale “latrodectus màtans” che, molto più pericoloso, se la fa (per fortuna) dalle parti del Sudamerica. In realtà il latrodectus possiede un veleno che tende ad iniettare nelle persone che “pizzica”. Si tratta di un veleno leggero che può essere espulso dal corpo con una iniezione si canfora o altri metodi più moderni.
Le tarante, come le galline ed altri pennuti, vengono considerate infatti divinità psicopompe, animali cioè che hanno il compito di accompagnare i vivi ad attraversare la soglia che conduce al mondo dei morti. Per questo i nidi di ragno vengono considerati luogo di passaggio delle anime verso l’oltretomba.
Nel corso di questi passaggi ogni ragno entra in relazione con lo spirito di un defunto (ma si tratta quasi sempre di defunte) e se ne impossessa. Poi carico di tale spirito “pizzica” la tarantata (in genere alla caviglia) e con il veleno inietta anche lo spirito della donna morta che in quel momento sta trasportando. Così la pizzicata riceve dentro di sé, insieme al blando veleno del ragno, la ben più potente identità della sconosciuta defunta. In assenza di canfora o altri medicamenti, alla pizzicata non resta che espellere il veleno sudando. E il metodo più adoperato per sudare è il ballo.
Il ballo rituale si svolge generalmente a casa della pizzicata. Viene steso a terra un lenzuolo bianco, dei cuscini, immagini di San Paolo – che nell’indispensabile sincretismo tra cattolicesimo e sopravvivenze sciamaniche di antico conio pagano viene raffigurato mentre schiaccia con il bastone la testa di un serpente ed è dunque considerato il protettore degli avvelenati -, foglie di profumato rosmarino e fazzoletti dai colori sgargianti, perché pare che il colore forte aiuti la pizzicata danzatrice nella guarigione.
A questa cosiddetta terapia domiciliare poteva assistere chiunque mostrasse fede, rispetto e preoccupazione per le sorti dell’ammalata.
Naturalmente perché si ballasse ci volevano i suonatori. Costoro, mai dei professionisti, erano in genere il barbiere che per tradizione sapeva suonare il violino: il barbiere era di solito anche un flebòtomo, cioè colui che eseguiva salassi. Si noti la somiglianza nel gesto del tagliare l’interno del braccio per far defluire il sangue malato, con quello dell’archetto sulle corde per far defluire, con la musica, la malattia dell’anima. Poi il chitarrista, quello che suonava l’organetto ed infine lo strumento principe: il tamburo o tamburello. Questo era sempre suonato da mani femminili. La pelle del tamburo tesa era appartenuta alla più cara delle pecore del gregge di famiglia.
Quando i suonatori, accordati gli strumenti, individuano la melodia ed il ritmo che quel giorno serve all’ammalata per ballare, inizia la danza rituale. Questa può durare un solo giorno, una settimana o ventuno giorni, con brevi pause per il riposo generale.
Alla fine di questo che viene definito “ciclo coreutico”, l’ammalata crolla a terra sfinita dichiarando di essersi liberata di tutto il veleno.
Durante tutta la cura danzante ella si è comportata come se il mondo circostante, dunque giudicante, sparisse e il proprio dolore, il suo personalissimo dèmone ingaggiasse con lei una vera e propria lotta. In termini sincretici si può parlare di qualcosa che ricorda una discesa profonda giù nel dolore dello spirito, una discesa nel proprio inferno personale (adorcismo-ad-orcus) e poi una liberatoria risalita ex-orcus o esorcismo.
Durante i miei studi su questi argomenti mi sono convinta che spesso la musica viene mobilitata per curarci dagli effetti collaterali della “ragione”. L’uso eccessivo della razionalità, l’estrema fiducia nel rapporto di causa-effetto tra gli eventi, la distanza dal “caos”, stringono la nostra vita in una morsa intellettuale che ogni tanto va alleggerita.
Così in alcuni generi musicali, non mi riferisco più solo al tarantismo, una struttura ritmica ripetuta ossessivamente diventa metafora e rappresentazione di una struttura psichica forte. La griglia ritmica dentro cui il tarantato trova conforto durante la crisi, può essere letta come metafora di un costrutto interiore, un’architettura psichica solida su cui modellare e fermare i materiali incerti e fluttuanti dell’esperienza quotidiana.
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Immagine di copertina: Foto che ritrae Maria di Nardò, la più nota “tarantata”, tratta dal libro di Ernesto De Martino, Terra del rimorso, ed. Il Saggiatore, 1961.