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«Gli Stati parti si impegnano a proteggere il fanciullo contro ogni forma di sfruttamento sessuale e di violenza sessuale» così, l’articolo 34 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989.

In molti Stati dell’Africa, però, questo impegno sembra non esistere. Il continente, infatti, detiene un orribile primato: il fenomeno delle cosiddette “spose bambine”, un “business” perennemente florido, specie nelle zone centrali e occidentali.

Le ragazze, fin dal primo ciclo mestruale (o anche prima) divengono un oggetto di cui disfarsi, possibilmente con il più alto margine di profitto. Le alternative – cercare un lavoro, prostituirsi o mendicare – rappresentano opzioni che non garantiscono un guadagno certo alla famiglia, dunque l’unico “investimento” sicuro appare il matrimonio. Così avviene la vendita, per cifre anche esigue, al miglior offerente, che è generalmente un uomo molto più anziano.

In realtà, se la causa primaria dei matrimoni precoci risiede principalmente in tradizioni radicate come la conservazione della verginità e la tutela dell’onore familiare, l’indigenza economica pesa molto nella proliferazione del fenomeno. In Nigeria, ad esempio, nello stato del Cross River, presso la tribù Becheve esistono quelle che vengono chiamate “spose per soldi”: ragazze giovanissime, ma anche bambine di pochi anni, date in moglie in cambio di prestiti economici o cedute, magari insieme a qualche capo di bestiame, per estinguere debiti contratti in precedenza. Essere una “sposa per soldi” significa non solo perdere qualsiasi diritto residuo e divenire un oggetto alla completa disposizione del consorte, ma addirittura accrescere il prestigio di quest’ultimo all’interno della comunità: l’uomo, comprando una o più mogli, ha modo di ostentare la propria ricchezza, guadagnandosi rispetto e ammirazione.

Situazione non diversa in Ciad, Ghana, Malawi e in molti altri Paesi dell’Africa Subsahariana, dove nascere femmina e povera vuol dire venire alla luce in una condizione di estremo pericolo.

A questo punto, però, dobbiamo chiederci cosa vuol dire davvero essere bambina e sposa. Che si sia state consegnate al proprio “carnefice” direttamente dalla famiglia o rapite in strada mentre si cammina o si gioca, il destino di tantissime giovani e giovanissime è identico: una quotidianità di abusi, stupri, silenzio e impotenza. A ciò si aggiungono terrificanti conseguenze, quali molteplici gravidanze precoci, parti a rischio troppe volte fatali e malattie sessualmente trasmissibili – in primis, AIDS – che, in questa pratica, trovano un privilegiato canale di diffusione.

Un rapporto dell’UNICEF risalente al 2020 fotografa una situazione allarmante, quantificando in circa 650 milioni le donne sposate in età infantile. Un quadro all’interno del quale la legge finisce per avere un ruolo solamente simbolico. D’altronde, nonostante la Carta Africana sui diritti e il benessere del minore di Addis Abeba, in vigore dal 1999 e il Child Rights Act, adottato in Sierra Leone nel 2007 – più ulteriori provvedimenti susseguitisi negli anni – vietino il matrimonio con minori, le normative dei singoli Stati sono spesso ambigue e contrastanti, generando una situazione caotica in cui la disapplicazione prevale.

È chiara l’esigenza di un intervento radicale per affrontare concretamente il problema. Già nel 2014 l’Unione Africana ha avviato una campagna volta a incoraggiare misure governative per contrastare il fenomeno. Questo ha condotto all’approvazione, nell’anno successivo, dell’African Common Position on the African Union Campaign to end Child Marriage, con lo scopo di garantire l’assunzione, da parte dei firmatari – capi di Stato e di governo dell’Unione Africana – dell’impegno di modificare le legislazioni in questo senso.

Malgrado ciò, dopo due anni di pandemia si è registrato un sostanzioso incremento del numero di spose bambine, dato che suggerisce che la soluzione non può che risiedere in un mutamento di pensiero, nell’istruzione, nello sviluppo economico, nel lavoro, nell’indipendenza femminile.

Le bambine africane non sono, però, le sole a subire questo destino. Nel prossimo articolo vedremo cosa accade in India.

© Sintesi Dialettica – riproduzione riservata

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