Nascere donna in India può essere una maledizione. Tra i mille contrasti della società indiana, dove il divario sociale serpeggia tra caste e religioni, il rapporto fra generi affonda le sue radici in un lontano passato, in un terreno in cui il seme dell’emancipazione femminile fatica a germogliare.
Soprusi, umiliazioni e stupri a danno di bambine e adulte sono tristemente frequenti e si uniscono alla colpevole lentezza del sistema giudiziario, presso il quale il numero di condanne in rapporto alle denunce per violenza sessuale è spaventosamente basso. Non c’è da stupirsi, allora, se in questo mosaico si incastra perfettamente anche il tassello dei matrimoni prematuri forzati, una piaga che sembra quasi impossibile da risanare.
Le origini della pratica risiedono – ancora una volta – in una commistione di tradizione e consuetudine.
Per comprendere il fenomeno dobbiamo concentrarci sul fatto che, nel tessuto sociale indiano, l’impronta patriarcale si mantiene solida e permeante e si unisce all’esigenza di conservazione dell’onore familiare.
Una figlia rappresenta, un po’ come nel contesto africano, prima di tutto un mezzo di scambio, di guadagno, tenuto conto delle condizioni di povertà che caratterizzano la stragrande maggioranza della popolazione. Infatti, senza inoltrarci in complesse e particolari distinzioni tra classi, caste e credi, è sufficiente dire che sia nel caso di famiglie di religione induista che musulmana è necessario che le nozze avvengano quanto prima, per due ragioni essenziali. La prima, prettamente pecuniaria, riguarda la dote, che aumenta con l’età della sposa: in altre parole, più sarà matura, più sarà cospicua, quindi cara, l’entità della dote. La seconda è connessa alla conservazione della verginità, un elemento tanto fondamentale da essere il perno di tutta la “trattativa”: il padre deve essere garante della purezza della figlia, di cui diverrà responsabile il coniuge dopo le nozze che, di fatto, sono un mero passaggio di proprietà.
Solitamente accade che il matrimonio venga celebrato in età infantile, quando la ragazza – ma non è così raro che entrambi gli sposi siano molto piccoli – ha pochi anni. Si tratta di una sorta di promessa di cui le interessate spesso non hanno nemmeno memoria, almeno finché la famiglia del marito non reclama la sposa perché si trasferisca presso la nuova casa e renda effettiva l’unione con la consumazione delle nozze. Così, mentre una preadolescente italiana si avvia verso la scuola “media”, dall’altra parte del mondo per una dodicenne indiana inizia la vita coniugale, con tutti gli effetti che porta con sé: abusi, sottomissione, abbandono di eventuali studi e di ogni altra speranza per un futuro indipendente.
Nel 2006, con il Prohibition of Child Marriage Act (PCMA), si è cercato di porre un limite al fenomeno, fissando un’età minima per contrarre matrimonio – diciotto anni per le donne, ventuno per gli uomini – ma con scarsi risultati. Tuttavia, la legge non dichiara illegali i matrimoni precoci, ma li rende semplicemente invalidabili: un risultato che sarebbe minimamente soddisfacente se le giovani indiane – per la gran parte relegate nell’ignoranza del mondo rurale – conoscessero davvero l’esistenza di questa possibilità e se, una volta perseguita – comunque entro e non oltre i vent’anni di età – non fossero emarginate dalla società intera.
Fortunatamente, però, la speranza è l’ultima a morire. Kriti Bharti lo sa bene. Psicologa e attivista per i diritti dell’infanzia, con la ONG Saarthi Trust da lei fondata, è riuscita ad annullare un buon numero di matrimoni forzati, battendosi affinché il PCMA fosse finalmente conosciuto e applicato dai tribunali indiani. Una goccia nell’oceano della giustizia che, parafrasando Madre Teresa di Calcutta, adesso si è fatto un po’ più grande.
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