La musica è parte essenziale della nostra cultura, ma, di contro, la figura dell’artista viene spesso sminuita come fosse un hobbista, e il pregiudizio che associa la musica a «roba per buffoni» (espressione coniata nel 1865 dall’allora ministro dell’Istruzione F. De Sanctis) continua a tramandarsi con i classici quanto involontari scivoloni rivolti a noi professionisti: “Ah, fai il musicista, bello, ma di lavoro?”.
La cosa paradossale è che proprio la musica di consumo che ci lega a una dimensione di svago, disimpegno, sottofondo ininfluente, è allo stesso tempo quella più ascoltata ed è fonte di maggiore aggregazione sociale.
Al contrario, la cosiddetta musica colta – inscrivo in essa contemporanea ed elettronica – anche ben inserita nel tempo attuale, viene snobbata da gran parte dei giovani che non ne hanno un’educazione all’ascolto, sebbene gli stessi ne rimangono sistematicamente incuriositi e affascinati le volte in cui vi entrano casualmente in contatto.
Le colpe di questa ignoranza, o meglio di non conoscenza, non sono quasi mai da imputare agli insegnanti, spesso volenterosi e preparati, piuttosto ad un generale disinteresse da parte dei governi: l’Italia non ha politiche specifiche o iniziative volte a dotare le scuole di risorse elettroniche usate per migliorare l’insegnamento delle materie artistiche. Abbiamo, di fatto, una didattica nelle scuole elementari e un paio di ore settimanali alle medie in cui gli insegnanti dovrebbero riuscire a formare classi numerose senza le attrezzature adeguate alla causa. Ciò perché non c’è concezione riguardo l’istruzione musicale né come una concreta possibilità di lavoro né come mezzo di espressione e creazione di alto valore culturale.
Nel corso del Novecento la musica non ha mai conquistato a tutti gli effetti un degno statuto disciplinare: considerata sempre in una accezione di svago o appannaggio soltanto di una cerchia di eletti e quindi relegata ad essere insegnata essenzialmente al di fuori dei contesti scolastici pubblici o in specifiche istituzioni come conservatori ed accademie.
Con la nascita dei licei musicali (2010) si è aperto, paradossalmente, un ulteriore divario derivato dalla prospettiva professionale che ha annullato la cultura musicale in tutti gli altri licei.
Reputo che la musica non trovi il giusto spazio nella scuola italiana perché nella società, cosiddetta di massa, essa viene completamente svuotata del suo portato culturale originario; da ciò si può immaginare quanto sia facile trattarla come materia subalterna e non fondamentale alla formazione, al contrario di letteratura, storia, matematica che invece (giustamente) ricoprono una parte indiscussa del piano didattico.
Alla musica non vengono evidentemente riconosciute – a livello più o meno conscio – delle importanti caratteristiche che sono manifeste a qualunque figura calata in una dimensione culturale media, prima fra tutte la capacità di sviluppare facoltà cognitive, comunicative ed estetiche che sarebbe inconcepibile trascurare in questa maniera. Come osserva il musicologo e critico Fedele D’Amico: «Una disciplina non acquista prestigio se prima ancora non lo acquisiscono i suoi oggetti d’indagine»; allo stesso modo si potrebbe parlare della situazione dell’arte visiva e plastica, che quantomeno nei licei sopravvive nella forma di Storia dell’arte, anch’essa, tuttavia, incredibilmente poco studiata.
«Non si deve insegnare la musica ai bambini per farli diventare grandi musicisti, ma perché imparino ad ascoltare e, di conseguenza, ad essere ascoltati», disse un giorno il maestro Claudio Abbado.
Oggi manca proprio questo ascolto, un ascolto di sé stessi – ripulito dal caos e dal bombardamento quotidiano fatto di costante rumoreggiare orientato al consumismo – e un ascolto del mondo vero, di ciò che pone un’attività come quella musicale su un piano differente rispetto al calcetto, alla piscina o alle altre mille attività a cui i bambini vengono iscritti “formativamente” o per riempire le loro giornate.
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