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C’era una volta il Maestro, quello con la M maiuscola. Rispettato dalla comunità tutta, istituzione sociale e pilastro del sistema scolastico, sinonimo di stabilità lavorativa ed economica, il maestro “vecchio stile” è oramai divenuto se non una creatura mitologica, quantomeno una figura in via d’estinzione, seguita soltanto da quella del Professore. 

Del resto, benché il “cuore” della professione non sia mutato nel tempo, conservandosi a dispetto dei tanti stravolgimenti sociali susseguitisi negli anni, è certamente il modo di approcciarsi a questo lavoro ad essere cambiato. Scegliere di imboccare la strada dell’insegnamento con l’obiettivo di un contratto a tempo indeterminato vuol dire, nel 2022, avviarsi lungo un sentiero irto di ostacoli, armandosi di tonnellate di pazienza e impegno. 

Quasi una vocazione, insomma, più che una semplice scelta, quella che spinge migliaia di coraggiosi nel Bel Paese ad impegnarsi per raggiungere il Sacro Graal degli insegnanti: il tanto agognato “ruolo”.

Ma la strada verso la meta è lunga e, di certo, non resa più agevole da uno Stato che – per parafrasare un celebre maestro televisivo – «Fa quel che può, quel che non può non fa», o meglio, non vuol fare.

Non è una novità che l’Italia goda di un primato decisamente non lusinghiero: i dati risalenti al marzo di quest’anno rivelano che più della metà del corpo docente ha più di 50 anni (per la precisione, arriviamo ad un 57,2 %), contro una media europea del 36%.

Quali sono, però, le cause dello scarso ricambio generazionale nelle aule italiane? Per orientarci, è sufficiente pronunciare una sola parola: concorsi. Proprio su questo argomento, negli ultimi tempi si è concentrata l’attenzione generale, compresa quella dei media. Solo pochi mesi, fa il “polverone” sollevato dal maxi-concorso a quiz per la scuola secondaria di primo grado (le vecchie “scuole medie”, per intenderci) si è rivelato la cartina tornasole delle svariate difficoltà che ancora oggi caratterizzano il percorso degli aspiranti insegnanti. Una quota pari al 90% di respinti, tra cui migliaia di persone anche con due lauree, specializzazioni e anni di esperienza da precario alle spalle, indignati di fronte a un sistema incapace di premiare la costanza e riconoscere il merito. È forse, potremmo dire, la richiesta eccessiva di competenze, in contrasto con l’inefficienza dei sistemi di scrematura, una delle principali falle dell’ingranaggio scolastico nazionale.

A questo punto, dare una risposta al quesito che ci siamo posti non è un compito complesso.

A venirci in aiuto, un’altra parola chiave: rassegnazione. La resignation, come direbbero gli anglosassoni, è divenuta parte integrante del mondo giovanile sia nella sua accezione di “dimissioni” – da qui il cosiddetto fenomeno della Great resignation – che in quella più letterale di “rassegnazione”. Un sentimento che aumenta esponenzialmente di fronte a stipendi statici, tra i più bassi in Europa, a procedure farraginose per la conquista dell’abilitazione professionale, unitamente alla assunzione di grandi responsabilità con pochissime garanzie in cambio, fattori che hanno l’inevitabile effetto di generare una migrazione verso altre professioni.

C’è allora una mancanza di interesse verso la carriera dell’insegnante? La risposta è un secco NO.

Per quanto il maestro, il professore detengano un compito tanto delicato e impegnativo, il nobile scopo di trasmettere strumenti di vita, più che semplici nozioni, è tuttora vivo e pulsante.   Il desiderio di contribuire a stimolare il pensiero, con la grande responsabilità di fornire solide fondamenta alla società del domani sopravvive radicato nel tempo, malgrado le difficoltà e l’inefficienza di uno Stato che avrebbe tutte le carte in regola per attivarsi, ma che, come il più classico degli alunni, non si applica.

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