È nota la domanda che Albert Einstein pose a Sigmund Freud: «C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?». È una questione precisa che riguarda, non tanto se ci sarà la pace nel mondo, ma se essa continuerà a essere perseguita attraverso la guerra.
Se oggi vogliamo rispondere a quella domanda, occorre recuperare il significato delle parole. L’uso dei termini conflitto e guerra come sinonimi non aiuta a costruire un pensiero complesso.
Conflitto non è sinonimo di guerra. In inglese è più semplice capirlo perché war e conflict assumono significati diversi. Il conflitto è una condizione più ampia, di disarmonia tra posizioni diverse. La guerra è, invece, una condizione di scontro molto più specifica.
Il mondo sarà mai in pace? Dobbiamo avere il coraggio di dire di no. Gli uomini si libereranno dalla fatalità della guerra? Dobbiamo avere la ferma speranza di dire di sì.
Essere in conflitto non è un fatto negativo in assoluto. È lo stato naturale dell’umanità, ma anche dell’essere vivi, in una dinamica critica con l’esistente: è una forma di dialettica necessaria per il progresso. Il problema non è la pace, che è uno stato di armonia tra posizioni diverse, che permangono tali, armonia delle diversità e a volte degli opposti; il problema, quello vero, che ci riguarda tutti, è come risolvere lo stato del conflitto (disarmonia) che ci troviamo a vivere. Questa è la questione posta da Einstein: non ha chiesto se saremo in pace: ha chiesto se il mondo farà a meno della guerra. Questo è il vero problema.
La risposta diventa utile, diventa programma di vita. Esiste il conflitto generazionale, il conflitto adolescenziale, il conflitto tra genitori e figli. Certamente, i conflitti ci saranno e continueranno ad esserci. Ce l’abbiamo (quasi) fatta a trovare un’alternativa alla violenza per i conflitti di tipo generazionale o di genere. E comunque, quando non ce la facciamo, esistono le leggi, le normative che individuano un reato.
Conosciamo sin troppo bene la modalità della guerra: è un mezzo che ha come obiettivo l’eliminazione del nemico, visto come ostacolo primario al raggiungimento dello stato di pace. La guerra è un mezzo che prevede l’eliminazione di tutto ciò che ostacola il raggiungimento dell’obiettivo. Pertanto, se usiamo il termine conflitto come sinonimo di guerra, quest’ultima sembrerà un’ineluttabile legge della natura. Il conflitto è una condizione. Al contrario, la guerra, è un mezzo, antiquato, oppositivo, anche poco efficace. Confondere uno “stato” con un “mezzo” è rischioso per le alternative che cerchiamo. La pace è uno stato che risente moltissimo delle modalità con le quali viene raggiunta. Volere la pace, di per sé, non significa nulla. La violenza e il suo meccanismo devono essere sabotati, interrotti, non con maggiore violenza, ma inserendo meccanismi che vadano a bloccare il processo. Arrivare alla pace con la guerra significa rimanere nel medesimo schema dello scontro. Pensiamo ai conflitti che viviamo ogni giorno e domandiamoci: con quali mezzi li risolvo? Come ritrovo lo stato di pace quando sono immerso in uno stato di conflitto? Abbiamo avuto, in Italia, fino al 1981, il delitto d’onore. Poi tutto è cambiato, abbiamo scelto di superare quel mezzo per sostituirlo con un altro mezzo. Era pace ciò che raggiungevo con il delitto d’onore? E se lo era, risentiva del mezzo usato? Non c’entra quanta quota di ragione poteva esserci: si è stabilito che non si può risolvere il conflitto con quelle modalità. Non è stato abolito il conflitto, al contrario, si è scelto di viverlo appieno attraverso il diritto. La guerra non è l’opposto della pace, la guerra è l’opposto della legalità.
Nelle controversie internazionali abbiamo resistenze ad accettare la scomparsa della guerra, cioè la risoluzione non violenta dei conflitti. Non esisterà un mondo in pace, ma esisterà un mondo, dove i conflitti, personali, generazionali o tra Stati, potranno essere risolti in modo diverso e alternativo. Ecco la risposta che va data alla domanda di Einstein. Vincere la guerra superandola, come sosteneva il filosofo Jean-Marie Muller, è quanto deve assumere il nostro modo di pensare. Bisogna arricchire il pensiero, conoscere più parole possibili che ci permettano di leggere con maggiore chiarezza le cose e i fatti. Si tratta di pensare con la giusta terminologia, perché una mente con poche parole dà origine a un pensiero con poche scelte.
Siamo di fronte a un bivio: il pensiero con le sue articolazioni o la clava.
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