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Da uno studio statistico del 2013 curato dalla Camera dei deputati si apprende che l’Afganistan aveva un indice di disuguaglianza di genere (salute riproduttiva, crescita individuale e sociale, lavoro) che lo collocava al 147° posto nel mondo, e che l’analfabetismo femminile si attestava intorno all’87,4%.

Oggi, a causa del perdurare inesorabile della discriminazione contro le donne, si raccolgono due comportamenti antitetici ma psicologicamente noti nelle situazioni di pericolo. C’è chi tenta la fuga e per fortuna ci riesce: è il caso della regista Shahrbando Sadat che ad agosto 2021 ha raggiunto con un volo Parigi, mettendosi in salvo con i suoi cari presso un centro di accoglienza della capitale francese; ma è anche quello di duecento cicliste costrette a lasciare il Paese, questa volta a settembre dello stesso anno, ree di praticare sport e di non essere più vergini. Poi c’è chi resiste in loco, sfidando il potere a viso aperto: è il caso di un gruppo di donne che hanno affrontato il governo talebano in pubblica piazza, prima nella città di Herat il 2 settembre, e poi a Kabul il 7 dello stesso mese. Proprio questi ultimi fatti offrono alcuni spunti per porre sotto la lente d’ingrandimento i fermenti afghani in corso.

Un tratto del “nuovo governo” talebano insediatosi a Kabul a metà agosto 2021 è quello di impegnarsi ad accreditarsi sul piano internazionale, rimarcando la differenza con la precedente gestione politica risalente agli anni Novanta, quando alle donne afghane era affibbiato un mahram, cioè un tutore maschile con il compito di sorvegliarle nelle uscite fuori di casa. Un segnale, in questo senso, è proprio l’ostentata intenzione dell’attuale compagine di potere di rispettare i diritti delle donne ma – è fondamentale specificarlo – nel rispetto della sharia, della legge islamica. Ed è qui che si annida una strategia subdola che non ha nulla a che fare con la tutela dei diritti, bensì con un cinico imbellettamento a favore di una ragion di stato che sancisca lo status quo, ad esempio continuando a tenere separati uomini e donne non solo nelle aule di università, ma anche sui mezzi di trasporto, dove ad oggi vige il divieto per le donne di non guardare il conducente maschio grazie all’occultamento di una tenda. Un obiettivo perseguito dal mondo occidentale è la piena realizzazione dell’obiettivo 5 dell’agenda ONU 2030, consistente nel raggiungimento dell’uguaglianza di genere, nonché l’autodeterminazione di tutte le donne e di tutte le ragazze, per cui l’interrogativo di fondo è: il rispetto dei diritti delle donne che i talebani pretenderebbero di realizzare all’interno della legge islamica risponde ai modelli culturali di riferimento del suddetto obiettivo? In parole povere, esiste incompatibilità fra la sharia e l’uguaglianza di genere così come è intesa negli ordinamenti giuridici occidentali? Sicché, risultano argute le considerazioni espresse dalla giurista Sara Occhipinti che, oltre a far notare che la sharia sancisce sul piano dei principi la supremazia dell’uomo sulla donna, pone l’accento appunto sul fatto che la legge islamica vincoli ogni musulmano a prescindere dal territorio dove si trova, con la conseguenza problematica della coesistenza con precetti normativi da essa difformi. Ma soprattutto – osserva Occhipinti – c’è un aspetto ancora più intricato all’interno della sharia stessa, perché essa non è codificata in maniera univoca, sfuggendo così ad un controllo dello Stato di diritto sul piano, ad esempio, di un’applicazione uniforme della legge. Dunque, facendo un esempio concreto, il reato di adulterio potrebbe tranquillamente essere sanzionato tanto con una lapidazione mortifera, quanto con una pena molto più blanda, ma sempre all’interno dell’immutabile condizione di subalternità contraria a qualsiasi parità di diritti. Insomma, una matassa da sbrogliare per qualunque maxioperazione diplomatica volta anche solo alla pura interlocuzione con un governo – come quello talebano – che propugna l’indiscutibilità della legge islamica.

Per queste ragioni, le proteste di questi piccoli ma irriducibili manipoli di donne appaiono come un monito per lo stesso Occidente, non solo per monitorare con scrupolo d’inchiesta le cronache afghane in generale e in particolare quelle relative alla condizione femminile, ma anche per vigilare su quegli aspetti culturali che segnano nel profondo la società afghana, al fine di evitare sia le soluzioni esclusivamente militari, sia le narrazioni mistificatrici di neonati governi teocratici. Ecco perché quelle proteste di piazza sembrano suggerire al mondo occidentale che – al di là di compromessi da Realpolitik – l’attenzione si deve tenere desta, soprattutto lì dove da troppi anni si attende un’autentica, tangibile prova di rispetto e di difesa dei diritti. Infine, gli stessi organi istituzionali dei Paesi che si proclamano civili dovrebbero raccogliere questo grido di dolore delle donne afghane, promuovendo azioni concrete a loro sostegno e facendo conoscere nei loro Paesi i movimenti ancora oggi attivi in Afganistan che operano per i diritti delle donne. In questo modo si possono sollevare questioni di respiro internazionale che potrebbero indurre i talebani a smussare non poche delle loro posizioni, affinché non si parli più di donne disperate e fuggiasche ma di emancipate cacciatrici di aquiloni.

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