«Un’Italia che non cresce, col debito post-Covid al 160 % del Pil, ha davanti a sé un sentiero molto impervio». La premessa è già nelle prime pagine di questo saggio che alcuni leggeranno condividendone ogni frase, altri troveranno provocatorio e non del tutto convincente seppur estremamente intelligente.

Lo ha scritto Roger Abravanel, ingegnere, consulente d’azienda e di fondi private equity, già direttore di McKinsey, editorialista del «Corriere della Sera», membro di numerosi consigli di amministrazione. Un invito alla riflessione, un’opera attraverso quale l’autore – nato in Libia da famiglia ebraica emigrata in Italia negli anni Sessanta – spara a zero ma propone anche soluzioni per i gangli critici di questo Paese: l’impresa, l’università, lo Stato. Vertici di un triangolo diabolico, legati – a suo dire – da decenni di tentativi falliti, analisi errate, premesse sbagliate.
L’apertura, un eccellente riassunto della storia industriale ed economica italiana dal dopoguerra ad oggi, ci infligge la sensazione, voluta, di correre in picchiata verso un presente difficile dove scarsa fiducia nel merito e nella concorrenza, familismi imprenditoriali e politiche pensate senza avere consapevolezza di quale gara stiamo correndo e che cosa ci sia davvero in gioco, compongono la base da cui dover ripartire. Le cause dell’impasse sono storiche, culturali e di sistema: in sintesi, dagli anni Ottanta abbiamo fallito il passaggio da società industriale a post-industriale con conseguenze sull’ulteriore trasformazione, nei primi anni duemila, in un nuovo capitalismo centrato sull’economia della conoscenza in cui innovazione, tecnologia e ricerca costituiscono le risorse più preziose per la crescita di un Paese. Cosa serve per ripartire?
L’elemento meritocratico, fonte di eque opportunità, riassunto nel 1958 nella formula del sociologo inglese Michael Young I+E=M ovvero intelligence (intelligenza) + effort (impegno) = meritocracy (merito). Una meritocrazia tuttavia fortemente contrastata nel tempo dalla comunità accademica americana (tra tutti, il saggio di Michael Sandel, professore di filosofia politica ad Harvard «The tiranny of merit») ma anche dal suo stesso creatore, nel 2002. La colpa, dopo anni di esaltazione, sarebbe stata paradossalmente quella di aver creato una nuova élite della conoscenza o “aristocrazia del talento”, che tramanda ai propri figli i posti nelle migliori università del mondo e di conseguenza i lavori con le paghe più alte offerti dalle migliori grandi aziende.
Da noi, l’assenza della meritocrazia – motivata dal mancato amore verso la competizione e l’ambizione – viene raccontata attraverso quadri raffiguranti imprese tramandate per generazioni a figli immeritevoli piuttosto che a manager competenti e abituati a sgomitare nell’oceano della concorrenza; il ritratto impietoso della Fiat in cui viene salvato solo Sergio Marchionne, quello delle vicende Benetton e la descrizione dei salotti e convegni creati da Mediobanca e Confindustria a vantaggio di figure mediocri sono passaggi di una schiettezza notevole. C’è anche l’Università, tra gli artefici della grande sabbia mobile italiana, rea di non incentivare il ritorno economico della laurea e di aver nutrito assieme alla classe politica (di sinistra) un conflitto ideologico tra guadagno e cultura. E se sono condivisibili le critiche al sabotaggio voluto da sempre dalla maggior parte dei docenti accademici verso processi imparziali di valutazione e ranking per un evidente mantenimento dei privilegi, è onestamente difficile simpatizzare tout court con l’idea di università fabbrica di valore primariamente orientata all’inserimento di talenti nelle grandi aziende e in startup di successo, finanziata in primis da soggetti privati, che privilegia corsi in inglese e che vive sulla base della domanda di mercato. Ha ragione, Abravanel, a sostenere che su questo punto ci sono freni culturali forti; sarebbe interessante approfondire meglio per capire quale equilibrio sia quello giusto. Alla stessa conclusione si arriva quando viene affrontato il terzo pilastro, lo Stato. I temi toccati sono molti: l’inefficienza della burocrazia (il paragone con la selezione degli amministratori pubblici in Cina non risulta però il migliore possibile), la paralisi decisionale per i ricorsi continui alla giustizia amministrativa, il groviglio indecifrabile del codice degli appalti (e su questo è impossibile ribattere). Il tema della giustizia, dei suoi tempi e della sua organizzazione, viene affrontato alla fine, quasi con tono ascendente, come ultimo ma irrimediabile problema. Un tema onestamente troppo complesso e tecnico per poter essere trattato sostenendo ad esempio che: «tutti questi gradi di giudizio hanno tempi lunghissimi, e quindi chi cerca di ottenere qualcosa in fretta (sia egli un privato cittadino o un procuratore della Repubblica) ricorre alle misure cautelari, cioè chiede ai giudici di intervenire bloccando un’attività o arrestando qualcuno prima che si facciano (a suo dire) ulteriori danni».
Si esce dalla lettura come dopo una discussione accesa con un amico; con la sensazione di avere un’idea su quale tipo di Italia ciascuno di noi vorrebbe, su cosa salvare e cosa lasciar andare. E con dei dubbi. E questo non è affatto male.
R. Abravanel, Aristocrazia 2.0. Una nuova élite per salvare l’Italia, Solferino, Milano 2021, pp. 339, 17 euro.
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