Quando l’ultima pietra del muro di Berlino si adagiò al suolo, si ebbe la sensazione che il modello capitalistico americano si fosse ormai imposto per sempre proprio per l’assenza di avversari all’indomani delle esequie del comunismo sovietico. Sul tetto del pianeta, insomma, svettava trionfante e incontrastata l’aquila statunitense a stelle e strisce, e gli altri dal basso a contemplarne l’egemonia. Suggestioni improponibili nel panorama internazionale attuale nel quale sono almeno tre i fattori che rivelano come il dragone cinese sia ormai il principale rivale della vecchia aquila americana: l’espansione dell’economia cinese anche nel periodo della pandemia da covid-19; il rafforzamento dell’asse russo-cinese sul piano militare; la questione di Taiwan all’indomani del ritiro americano da Kabul.
Il dato secondo il quale la Cina sia stata l’unica grande economia a crescere nel corso del 2020, con un aumento del 5% nel terzo trimestre del 2020, impone un’attenzione particolare alla sfera commerciale dove l’on-line cinese ha registrato proprio nei confronti degli Stati Uniti una bilancia estremamente favorevole. Un successo di prodotti, frutto di strategie raffinate quali l’ampliamento delle linee di produzione e l’esplorazione di nuovi mercati, ma anche di trovate degne di certa astuzia partenopea, come ha ricordato il consulente statunitense Zach Franklin, esperto di lungo corso che ha lavorato per anni con Amazon, il quale ha fatto osservare che gli imprenditori cinesi dell’e-commerce, per allargare il giro d’affari, hanno venduto (e vendono) lo stesso prodotto sul mercato usando nomi diversi, dando così l’illusione di una maggiore scelta, limitando gli “spazi vuoti” della domanda-offerta.
Alla luce di ciò si può comprendere la contesa diplomatica fra Stati Uniti e Cina a colpi di chiusura di consolati (il caso di Chengdu), e di riduzione di giornalisti autorizzati a lavorare all’estero, a cui si deve aggiungere la competizione militare segnata da una sempre maggiore collaborazione fra Cina e Russia. Quest’ultima sembra aver toccato recentemente un picco notevole con l’esercitazione congiunta “Sibu/Interaction 2021” concepita in chiave antiterroristica con il coinvolgimento di ben diecimila unità, un coordinamento militare risultato di esperimenti risalenti, fin dal 2005, al contesto della Shanghai Cooperation Organization. Ed è significativo che la Vostok-18, la più grande esercitazione militare russa dalla fine della Guerra fredda, tenutasi a settembre del 2018 nella Siberia Orientale, abbia coinvolto 3.200 soldati e 900 aeromobili cinesi più 300.000 soldati e 40.000 veicoli russi. Un fatto, questo, che sembra suggellare il consolidamento di una visione strategica organica fra i due paesi, soprattutto in uno scenario geopolitico dove il ritiro americano da Kabul comporta la difficile compensazione di un vuoto. Infine, la questione di Taiwan impone una vigilanza internazionale su quella che potrebbe rivelarsi una miccia esplosiva. L’intolleranza di Pechino verso l’idea che a meno di duecento chilometri dalle sue coste esista un modello politico alternativo ha trovato una chiara espressione nelle allusioni di Xi Jin Ping di fagocitare il vicino per realizzare “una sola Cina”, e foriere di attriti sono le 150 incursioni aeree che i jet militari cinesi hanno compiuto poco tempo fa nei cieli taiwanesi. Si tratta di comportamenti che hanno allertato gli Stati Uniti (la Cia reputa l’azione cinese come la “più grande minaccia geopolitica esistente”) per i quali un’ipotetica invasione cinese di Taiwan potrebbe segnare la fine del loro dominio nell’area indo-pacifica. Ed è abbastanza intuitivo che uno scontro militare fra l’Aquila e il Dragone non si risolverebbe in una contesa solitaria in chissà quale teatro della fantasia mitologica, ma purtroppo – qualora la diplomazia dovesse naufragare in tutte le sue provvidenziali piroette – potrebbe prefigurare i nefasti scenari di una nuova guerra mondiale.
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