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La minaccia jihadista è ancora presente in Iraq e Siria, ma lo sguardo va ora rivolto al continente africano, e in particolare al Sahel, da dove si va propagando ancora la retrotopia del Califfato con l’affermazione dell’ISWAP, il nuovo Stato Islamico della Provincia dell’Africa Occidentale. Ma anche il Mozambico da tre anni è preda delle insurrezioni di al-Shabaab e delle compagini ancora legate all’Isil.

Tra gli impegni di G7, G20 e i recenti vertici della Nato e del Consiglio Europeo, sembra essere passata in secondo piano la riunione plenaria della Coalizione anti-Daesh, che si è tenuta a Roma il 28 giugno scorso: un appuntamento che giunge a distanza di due anni dall’ultimo incontro del febbraio 2019.

Alla plenaria è intervenuto il segretario di Stato USA Antony Blinken, che ha co-presieduto l’incontro insieme al Paese ospitante, il segretario generale della NATO Stoltenberg e l’alto rappresentante UE Borrell, insieme ad almeno 40 delegati degli 83 Stati partecipanti alla coalizione. Ma stavolta c’è stato un segnale di novità, non di poco conto: sono stati convocati come osservatori anche alcuni Paesi africani, una scelta indicativa delle forti preoccupazioni sull’espansione delle propaggini jihadiste nel continente.

A dire il vero, anche prima che la pandemia spostasse l’attenzione dalla minaccia del terrorismo è da tempo che i riflettori mediatici hanno attenuato le luci sul pericolo dello Stato Islamico, che nel web viene indicato come sconfitto il 17 ottobre 2017, alla liberazione di Raqqa, la capitale de facto del califfato e centro operativo dal quale l’organizzazione pianificava gli attacchi.

Altri analisti ritengono invece opportuno spostare la sconfitta più compiuta fino a due anni dopo, in ogni caso sempre con la convinzione che la minaccia non si sarebbe definitivamente estinta, come lo dimostra, chiaramente, la circostanza che la coalizione globale sorta per sconfiggere l’Isis è tuttora attiva e presente nell’area.

Era quindi già ampiamente noto che sarebbe stato necessario ancora condurre la battaglia terrestre e aerea per eliminare le ultime roccaforti in Iraq e Siria, ma anche che si sarebbero aperti altri fronti sui problemi che sarebbero derivati dai lone wolves, i lupi solitari che abbracciano il jihad, e dai foreign fighters, oltre che dai rischi di una propaganda sempre attiva in contesti politici e sociali instabili come quello iracheno e siriano. Difatti, mentre in Europa si investe nell’intelligence e nei programmi di de-radicalizzazione, è ancora aperto il fronte del jihad dello Stato islamico in Iraq e Siria, dove permane la minaccia di gruppi che, specie nelle aree nord-occidentali dell’Iraq e al confine con la Siria, ora si eclissano come cellule dormienti, ora escono allo scoperto con colpi di mano e attentati.

L’area più colpita è il “triangolo della morte” attorno ai centri di Kirkuk, Salahuddin e Diyala, dove gli obiettivi privilegiati sono i campi petroliferi. L’azione della pressione ideologica arriva anche nei campi profughi siriani di Al-Hol eRoy, dove circa 60.000 persone, tra cui donne e bambini, sono soggiogate da una struttura replicata dello Stato islamico, con la hisba, la polizia religiosa, e le corti islamiche che praticano ancora esecuzioni e persecuzioni nei confronti dei “miscredenti”.

In queste realtà il pericolo è pure rappresentato dal rischio di radicalizzazione per i più giovani e in particolare per i figli di foreign fighters europei, dei quali gli Stati d’origine si guardano dal promuoverne il rientro.

In una prospettiva di analisi globale dell’attuale minaccia jihadista, l’attenzione è pure rivolta ad un altro contesto del vicino oriente, quello afghano, dove l’annunciato disimpegno americano potrà aprire nuovi scenari per la contesa tra i talebani e lo Stato islamico di Khorasa, un’organizzazione ancora forte e capace di sferrare micidiali attacchi missilistici contro le basi americane.

Altre aree del continente asiatico continuano a destare preoccupazione, come quella indonesiana, dove è ancora vivo il ricordo degli attacchi suicidi alle chiese cristiane di Surabaya del 2018, in cui hanno fatto triste esordio i primi caliphate cubs, i “cuccioli del califfato”, l’ultima degenerazione dei bambini-soldato.

Ma ciò che non era stato previsto almeno nella giusta dimensione è quanto il fenomeno jihadista di matrice salafita si sarebbe andato caratterizzando in tutta la sua espansione nel continente africano. In verità, una ragione di questa sottovalutazione, quanto meno parziale, la si deve alla circostanza che a differenza della proiezione globale della minaccia dell’Islamic State of Iraq and the Levant, che si è avvalso dei foreign fighters ed ha colpito nel cuore dell’Europa fino all’ultimo attentato di Vienna del 2 novembre 2020, la galassia jihadista del continente africano è per lo più autoctona ed è apparsa comunque orientata a perseguire obiettivi circoscritti alle aree dei rispettivi territori di riferimento, sebbene incline a violenze non meno efferate.

Il problema della minaccia jihadista invece ora sembra emergere in maniera più seria proprio nel continente africano, sia nelle resilienti compagini terroriste ancora presenti in Libia, sia negli altri gruppi presenti nei Paesi del Nord Africa, ma anche nell’area centrafricana e in particolare nel Sahel, dove peraltro viene annunciato il ritiro francese della missione in Mali.

Lo scenario in cui la propaganda jihadista si autoalimenta è quello di un contesto con storici contrasti etnici e sociali ed una perdurante instabilità politico-economica, dove anche qui una rigida interpretazione della sharia, incentrata comunque sul mito del Califfato come retrotopia di riscatto sociale, ha facile gioco su una popolazione sottomessa o inasprita dalle guerre e dalla miseria. I gruppi estremisti attivi nel Sahel hanno potuto quindi consolidare consensi e un certo grado di esperienza strategica e tattica, riuscendo a coinvolgere le etnie locali e le diffuse organizzazioni criminali presenti nella regione e ad assumere il controllo di vaste aree di territorio.

In questo momento storico, il gruppo emergente, che sembra essersi imposto anche sull’organizzazione jihadista nigeriana Boko Haram accusandolo di essere eccessivamente violento,risulta essere l’Iswap, Islamic State West African Province, il nuovo “Stato islamico della provincia dell’Africa occidentale” così denominato  in relazione a  quella idea di costituzione di più wilayat, province islamiche che poi si riuniranno nella umma del grande Califfato continentale. L’Iswap ha quindi operato con un approccio mirato ad accattivarsi le comunità locali offrendo occupazione e sostegno alle famiglie di chi accetta il reclutamento, e presentandosi come migliore sostituto di poco plausibili “autorità statali” nel garantire sicurezza e servizi di pubblica utilità. È in sostanza il modello dello “Stato guscio” di cui ha parlato a suo tempo Loretta Napoleoni («ISIS: lo Stato del terrore», 2014) a proposito del successo originario dell’Isis in Iraq: anche qui l’Iswap, come a suo tempo esordì l’Isis, riscuote imposte, regola e facilita i commerci, le attività di pesca e l’allevamento, assicura l’ordine interno attraverso la sharia e, soprattutto, riesce a declinare una prospettiva di un futuro di rivincita per le popolazioni locali.

Ma la minaccia delle nuove compagini islamiste si estende ben oltre il Sahel, perché le ultime cronache segnalano la recrudescenza dell’insurrezione jihadista in Mozambico, culminata nell’attacco del marzo scorso al polo del gas di Palma, nella regione a maggioranza musulmana diCabo Delgado, dove sono stati presi di mira  mozambicani e alcuni appaltatori stranieri. Si parla di una regione che da tre anni è preda delle incursioni jihadiste di al-Shabaab e di altri combattenti ancora legati all’Isil che hanno causato già 3000 morti e 8000 profughi, assunto il controllo di strade e infrastrutture, praticando esecuzioni sommarie, il reclutamento forzato e lo stupro di massa. Una situazione incontrollata che ha indotto il governo di Maputo a richiedere il dispiegamento di una forza militare dei Paesi aderenti alla SADC, la Southern African Development Community, cui aderiscono Botswana, Malawi, Mozambico, Sudafrica, Repubblica Democratica del Congo, Eswatini, Tanzania e Zimbabwe.

Su queste prospettive è molto probabile che la coalizione globale anti-Daesh dovrà meglio calibrare il suo raggio d’azione, non trascurando che il Sahel e l’Africa centrale sono punti cruciali nella filiera dei migranti che si dirigono verso l’Italia, porta d’ingresso per tutta l’Europa.

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