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Ho ventidue anni e sono una studentessa di filosofia quasi al terzo anno. A febbraio, finita la sessione, ho voluto dedicare il mio tempo ad un viaggio che mi consentisse di riflettere. Ho scelto la Polonia, per visitare Auschwitz di persona.

In cinque giorni, da Cracovia, ci sono tornata ben due volte, con un solo giorno di distanza fra una visita e l’altra.

In quel luogo faticavo a realizzare dove mi trovassi, ma subito ho capito quanto sia necessario andare lì di persona. Quel luogo cambia la vita.

Ad Auschwitz si respira un’aria viziata, si calpesta il terreno opprimente dell’orrore.

«Arbeit macht frei», si legge sopra l’ingresso, «Il lavoro rende liberi», lacerante contraddizione, la più cupa della storia, fin troppo semplice nel suo inganno.

Il cammino all’interno del campo rende via via lo strazio più presente: nel primo tratto, un altoparlante ricorda ai visitatori i nomi e i cognomi delle vittime del terrore nazista.

In uno dei Block di mattoni, un’imponente teca di vetro contiene settemila chili di capelli umani, dal Reich considerati materiale per realizzare suole per le scarpe e imbottiture di materassi.

Marchiati con numeri indelebili, i prigionieri sono bestie da soma che muovono passi affaticati nella neve dell’inverno polacco.

Ma anche nel baratro l’uomo riconosce cosa è giusto e cosa no.

L’opposizione alberga in gesti di velata rivolta: uno fra questi è la deliberata scelta di un fabbro ebreo di montare la lettera “b” di Arbeit al contrario.

Questi luoghi ci insegnano che non si deve e non si può smettere di lottare.

A cosa serve rivivere queste atrocità?

«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario»: Primo Levi, che sulla sua stessa carne ha visto incisi i numeri dell’orrore, indica come unico antidoto al fondo nero delle realizzazioni umane, il primato della memoria. Ricordare che l’inconcepibile è possibile.

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