La giovinezza è un tempo di preparazione, di ricerca, in cui i primi successi e fallimenti segnano la differenza tra ritardi e priorità. Oggi, spesso, i giovani assumono una identità vaga, in un continuo bisogno di vivere più vite, sulla scia di sollecitazioni controproducenti, con il rischio di restare eterni adolescenti.
Sempre di più essi mostrano inclinazioni depressive, rafforzate dalla solitudine propria del nostro tempo e, insieme, dalla spinta a consumare tutto velocemente. La loro personalità diventa sensibile a tutto ciò che non è autentico, così che gli insuccessi personali si aggiungono alle aspirazioni di una età sbilanciata, impotente verso una società che appare distantissima, eppure pervasiva e minacciosa.
Il gravissimo aumento dei suicidi e degli accessi nei pronto soccorso, potenziato dalla pandemia, ricalca il vero problema: sentirsi rifiutati, anche negati alla (o dalla?) scuola.
Oggi la scuola è una istituzione spogliata delle sue funzioni, non insegna più, non sembra più essere prosa e poesia insieme, umanesimo. Quei buongiorno dati al mattino dal professore non educano più, è un buongiorno che rimane impalato, non esprime fragore, rimbombo, ma piombatura, secchezza, lasciando il gregge a governarsi da solo. La scuola è diventato un luogo di sconforto, di metodi didattici che allontanano, un luogo che scambia il concetto di inclusione con il principio del dare a tutti allo stesso modo la stessa cosa, senza minimamente farsi sfiorare dalla logica di dover dare invece, a tutti i ragazzi, quello di cui hanno bisogno per crescere.
L’opportunità fornita dall’uso della creatività allontanerebbe, invece, lo spettro della dispersione scolastica, non stancherebbe, non spingerebbe all’abbandono, ma renderebbe gradevole anche il più pesante dei debiti da colmare. Una scuola che non apre all’interrogativo, del “cosa farò da grande”, che non incuriosisce, che non fa scoprire il proprio talento, è una istituzione intimorita e fiaccata. E questo è un problema decisivo da affrontare, perché oggi i ragazzi, in genere, non credono nel futuro, e sono angosciati da un panorama generatore di pessimismo.
Costretti ad imparare pure troppo, per essere sistematicamente verificati e valutati, con l’ansia di dover rendere conto in modo schematico, essi perdono di vista l’esistenza sostituendola con la logica funzionale. Dobbiamo, noi per primi, lavorare sulla conoscenza delle passioni. Meglio: sull’educazione sentimentale. E occorre che i genitori capiscano la necessità di non dover rimuovere per forza tutti gli ostacoli che i figli incontrano. Quegli ostacoli procurano il dolore necessario per crescere coraggiosi, e i genitori, nel supporto educativo (disciplina) dei figli, da tutto questo potrebbero riacquisire autorevolezza, un’autorevolezza consapevole di questo determinante contesto per il nostro futuro.
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