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Gli storici Roberto Morozzo della Rocca e Andrea Giovannelli, in questo volume edito da La Scuola, hanno raccolto le memorie di due prigionieri politici durante il regime di Enver Hoxha: sono racconti che svelano il trattamento disumano riservato a coloro che non si allineavano alle direttive del Politburo di Tirana.

Il libro curato da Roberto Morozzo della Rocca e da Andrea Giovannelli raccoglie le memorie di due albanesi molto diversi sia per storia personale che per ideologia, Anton Luli e GjovalinZezaj (il primo un mite sacerdote che, nonostante le violenze subite, non sarà mai succube dell’odio; l’altro un laico libertario sempre fiducioso del prossimo crollo della dittatura), ambedue accumunati  dal fatto di essere stati, per decenni, perseguitati e incarcerati dagli scherani del regime comunista. L’Albania del dopoguerra era un paese volutamente chiuso al mondo circostante ed è probabile che ancora oggi si sappia poco della dittatura di Enver Hoxha. Da questo punto di vista, per meglio inquadrare il contesto che vide prigionieri sia Anton Luli che Gjovalin Zezaj , risulta istruttiva la lettura di una nota di Andrea Giovannelli: «La dittatura enverista ha costellato l’Albania di campi di concentramento, colmato le carceri di colpevoli “oggettivi”, praticato su scala di massa la deportazione, istituito il principio di responsabilità collettiva […] Dal 1944 al 1954, secondo una cifra delle Nazioni Unite, 80.000 persone sarebbero state incarcerate (su una popolazione di poco oltre un milione di abitanti)» (p.115).

Un terrore dal carattere massivo che viene spiegato da Morozzo della Rocca inquadrandolo in relazione ai costumi secolari presenti nel paese balcanico. In altri termini l’identità socialista albanese – paradossalmente – sarebbe stata modellata proprio su riferimenti culturali dai quali lo Stato imponeva l’affrancamento: «L’ancestrale cultura del Kanun divenne l’indispensabile elemento di raccordo tra le antiche usanze tradizionali e la nuova società comunista» (p.21). Così Bernhard Tonnes, ancora citato da della Rocca: «Il postulato di Lenin di una “forma nazionale e di un “contenuto socialista” fu rovesciato da Enver Hoxha – in una forma estremamente drastica – nel suo contrario: il nazionalismo divenne il contenuto, e il socialismo divenne la forma attraverso il cui sottilissimo velo sempre doveva risplendere il vero contenuto» (p.7).

Le premesse ideali per uno stato totalitario che si è subito distinto per aver obbligato i propri cittadini, almeno quelli non legati alle élite di regime, a vivere nell’abbruttimento, e per aver costruito un impressionante sistema carcerario fatto di torture, gulag e lavori forzati. In questo senso le testimonianze di Anton Luli e Gjovalin Zezaj sono davvero paradigmatiche.

Pagine magari non esemplari dal punto di vista letterario, ma importanti dal punto di vista storico. Emerge, ad esempio, l’opprimente atmosfera di sospetto che veniva alimentata dalla corruzione e dalla paura. Nell’intervista rilasciata ad Andrea Giovannelli, Gjovalin Zezajricorda: «dovevamo stare molto attenti perché molte persone veniva corrotte con la promessa di una ricompensa, e indotte a sorvegliare e spiare le famiglie vicine per scoprire se veniva recitato il rosario o se veniva ascoltata la radio» (p.195).

La vicenda del sacerdote Anton Luli , incarcerato per decenni, non è meno drammatica. La sua testimonianza fa emergere un mondo di inenarrabili soprusi perpetrati ai danni di chi soltanto voleva professare la propria fede religiosa e veniva incarcerato: «per sette anni non avemmo la possibilità di lavarci; così il nostro corpo era pieno di parassiti: pidocchi, pulci e cimici» (p.74). Per non parlare di tutto quello che voleva dire alimentazione e possibilità di espletare i propri bisogni corporali, più volte con una commistione che prende allo stomaco soltanto nel leggere cosa era riservato ai prigionieri dei gulag albanesi. E poi: «posso affermare di non aver usato alcun fuoco né per cucinare, né per scaldarmi per circa ventotto anni» (p.94).

Una violenza che, come sottolinea della Rocca, intendeva contrastare un fenomeno religioso che invece nel paese era vissuto con grande intensità e che, nonostante tutto, fino all’avvento del comunismo, non aveva creato problemi di reciproca convivenza.: «l’essere passati sotto la lunga dominazione ottomana, ma anche, in tempi antichi o recenti, bizantina, veneziana, italiana, ha prodotto nella mentalità albanese una flessibilità mentale, un adattamento al vivere insieme, una capacità di integrazione, una consapevolezza della fragilità della vita […] Nelle difficoltà politiche gli albanesi, senza uno Stato, hanno sempre preservato la loro unità culturale e la loro convivenza» (pp.34). Tutto questo fino all’avvento del regime di Enver Hoxha.

Da quel momento, come possiamo leggere nelle pagine scritte e raccontate da Anton Luli e Gjovalin Zezaj, tutto è cambiato e per coloro che non si sono allineati ai diktat del partito o hanno avuto la sfortuna di avere parenti e amici invisi al regime, sono cominciati anni, decenni, imbarbariti da fanatismo, umiliazioni e terrore.

Roberto Morozzo della Rocca è docente ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Roma Tre, fa parte della Comunità di Sant’Egidio. Tra le sue ultime pubblicazioni: “Oscar Romero: la biografia” (San Paolo, 2015); “Tra est e ovest. Agostino Casaroli diplomatico vaticano” (San Paolo, 2014). Per Morcelliana ha curato il volume: “Maria di Campello. Un’amicizia francescana (2013)”.

Andrea Giovannelli è dottore di ricerca in Storia contemporanea e funzionario della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Tra le sue pubblicazioni: “La Santa Sede e la Palestina. La Custodia di Terra Santa tra la fine dell’impero ottomano e la guerra dei sei giorni” (Studium, 2000). Ha steso diverse voci in “Il Consiglio di Stato nella Storia d’Italia (a cura di G. Melis, Giuffrè, 2006, 2 voll.).

Morozzo della Rocca, A. Giovannelli, Martiri d’Albania, La Scuola,  Brescia 2016, pp. 224, € 15,50.

© Sintesi Dialettica – riproduzione riservata

Foto: Martyr’s Cemetery di David Stanley (Flyckr)

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