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Negli ultimi tempi, la cronaca estera si divide tra chi interpreta il ritiro delle truppe americane dal suolo afghano come una sconfitta dell’occidente, e chi lo concepisce come una mossa necessaria. Al di là di tutto questo non si può non leggere tra le righe un’analogia con quanto accadde più di due secoli fa in Italia con la repubblica partenopea del 1799, travolta da un’ondata controrivoluzionaria.

Forse i tempi non sono ancora maturi per trarre le conclusioni su quanto sta avvenendo in Afghanistan, e di riflesso, nel mondo occidentale e in Medio Oriente. Gli analisti e l’opinione pubblica sembrano (ovviamente) dividersi attorno a due correnti opposte, rispettivamente pro/contro l’amministrazione Biden, e la stampa esprime conseguentemente opinioni contrastanti: c’è chi vede nel ritiro dei militari americani una scelta ponderata, e chi al contrario, vi legge la sconfitta dell’occidente e dei suoi principî. Gli interrogativi da porsi sono molti, come, ad esempio le prossime reazioni di Teheran, o l’impatto che tutto ciò avrà in termini di rispetto di diritti umani; e, ancora, ci si chiede le conseguenze sulla geopolitica del vicino oriente. D’altronde, la semi-imprevedibilità della politica internazionale non consente di azzardare interpretazioni definitive a chi voglia cercare di dare una lettura dei fenomeni nel brevissimo periodo. Ogni “profezia” potrebbe rivelarsi fallace: lo stesso G. W. Bush, pur essendo intenzionato a perseguire una linea più isolazionista in controtendenza con la politica estera di Bill Clinton, si trovò davanti al tragico evento dell’11 settembre, che costrinse a riconcepire le intenzioni dichiarate in campagna elettorale.

Davanti alla complessità e alla volatilità dello scenario, come delle sue possibili interpretazioni, si può tuttavia cogliere un’analogia probabilmente non completamente forzata con quanto sta accadendo in Afghanistan. Infatti, ritorna alla mente un parallelismo con la Repubblica partenopea del 1799 e con il suo declino, provocato dall’ondata controrivoluzionaria sanfedista. Oltre a interrogarci se le armate della “Santa Fede” siano in qualche modo paragonabili alle milizie talebane, bisogna domandarsi fino a che punto una potenza militare può “esportare” con la forza la sua base ideologica, ponendoci come obiettivo di non fare del quesito un mero esercizio intellettuale, bensì di cogliere il valore della storia come maestra di vita.

Il significato di quell’esperienza fu sottolineato da Benedetto Croce nel suo saggio La rivoluzione napoletana del 1799,in cui il filosofo legge in maniera certamente entusiasta l’evento in questione. Da liberale quale era, vede nella repubblica di Murat un fatto rivoluzionario, tale da suscitare delle profonde trasformazioni sociali e politiche, sia pur non immediate. Ma è lo stesso Croce a sottolineare i limiti dell’esperimento, che ha lasciato tracce ancora oggi note nel bene e nel male, persino nei modi di dire e nella tradizione culinaria del sud: infatti, nella sua analisi evidenziò la distanza tra le élites rivoluzionarie e il consenso popolare; un tratto che ricorda quanto si sta verificando in alcune democrazie occidentali negli ultimi anni, dove i partiti progressisti sembrano non attrarre più l’interesse degli strati medi o bassi della società, che si sono sentiti meglio rappresentati da forze conservatrici.

Ma si possono rintracciare similitudini tra il Regno di Napoli di fine Settecento e l’odierno Afghanistan?  Innanzitutto, le armate della Santa Fede, pur essendo state un esercito ideologicamente orientato, radunato per far fronte a una crisi straordinaria, formato da “lazzaroni” e guidato da un capo carismatico – il cardinale Ruffo – erano sostenute alla base dal consenso popolare, che fu proprio la causa del successo controrivoluzionario, come nell’Iran di Khomeini. Invece questo manca nella vicenda afghana, dove fra l’altro, i rischi per le minoranze etniche e religiose potrebbero anche essere rilevanti. Inoltre, anche nella breve esperienza francese come nell’Afghanistan democratico emersero attiviste femminili di spicco come Eleonora Pimentel e Luisa Sanfelice che fecero da contraltare al conservatorismo, sebbene oggi siano forse troppo spesso ricordate in toni retorici come esponenti di un femminismo ante litteram.  In ultima analisi, fino a che punto si possono “esportare” i valori di uno stato? Croce indirettamente ci insegna che tutto ciò è possibile, e ha delle positive conseguenze se incontra un reale bisogno da parte dei popoli, nel rispetto delle differenze: una “normalità” utopica, che si scontra con le ambizioni e gli interessi della politica internazionale.

© Sintesi Dialettica – riproduzione riservata

Foto in evidenza: “Afghanistan landscape” di The U.S. Army – Creative Commons licence 2.0

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