Quanti di noi vivono senza vivere?
Cosa significa vivere bene? Una domanda tra le più antiche e complesse, che si ripresenta in uno dei racconti di Tolstoj: «La morte di Ivan Il’ič»
Ivan Il’ič incarna la disperata precarietà della condizione umana. Il racconto inizia infatti con l’annuncio della sua morte. Solo più avanti, scopriamo che Ivan era un giudice e padre di famiglia che rispettava costumi e usi dell’alta società russa alla quale apparteneva. La scoperta della malattia conduce gradualmente Ivan a riflettere sulle proprie decisioni e, nei suoi pensieri, vita e morte si intrecciano.
Egli apre gli occhi sul fatto che da sempre era stato morente, cioè, ‘nato per morire’, aspetto inevitabile della condizione umana.
Inoltre, si rende conto che la sua stessa vita era stata in realtà una morte, poiché aveva sì vissuto, decorosamente, ma senza autenticità. Questa consapevolezza scatena in lui un drammatico urlo durato tre giorni: l’urlo di chi si accorge, troppo tardi, che avrebbe dovuto vivere in modo diverso.
Ivan, quindi, non solo non si era mai interrogato sulla propria identità, ma aveva addirittura ignorato la condizione di finitezza propria dell’essere umano. In altre parole, la sua disperazione nasce dall’aver ignorato il monito scritto sull’Oracolo di Delfi: conosci te stesso.
Tale monito trovò il suo più celebre portavoce in Socrate, il quale individuava nella ricerca di sé e del mondo, la condizione per vivere bene e raggiungere la felicità. A questo bisogno, che riguarda l’essenza dell’uomo, hanno cercato di dare senso la filosofia, la religione, la psicanalisi, la letteratura, le arti e le scienze.
Per chi voglia ascoltarlo, l’urlo di Ivan Il’ič continua a risuonare come a svegliaci dall’inconsapevolezza per domandarci cosa significa vivere autenticamente e, soprattutto, se lo stiamo facendo.
© Sintesi Dialettica – riproduzione riservata