Leggendo un articolo di Marcello Cozzi, scritto per questa rivista (A colloquio con un pentito di mafia. Quando cambiare vita significa essere scomunicati, 15 giugno 2021), ci è sembrato di «udire» nel fondo dell’anima una vocina assai simile a certe altre di cui è piena la cultura classica e religiosa, da Meleto a Socrate, da Agostino a Collodi. Una vocina che ci ha portati dritti, dritti alla mensola della biblioteca, dove dormicchiava, indisturbata da anni, una vecchia copia de I Promessi Sposi.
L’articolo di Cozzi ci ha parlato per l’ennesima volta di quelle abitudini malsane, ancora diffuse in certe parrocchie del Meridione, di prenotare una sorta di tribuna d’onore alla famiglia mafiosa, nel primo banchetto dell’assemblea, o di sottostare a certi «folclori» malavitosi nell’organizzazione e nella messa in pratica delle feste patronali (l’inchino della statua in processione dinanzi al «castello» del boss è forse il più noto di questi «folclori»).
Il segnale più indicativo dell’intreccio malsano fra fatto religioso e fatto mafioso, in queste aree del Mezzogiorno e purtroppo non solo in queste, emerge chiaramente laddove il collaboratore di giustizia, a colloquio con don Cozzi, dichiara, più o meno alla lettera, di essere stato rispettato e finanche riverito dalla sua comunità parrocchiale sino al momento in cui non si è deciso a collaborare con gli organi di giustizia: «Quando però si venne a sapere della mia collaborazione, mia moglie e i miei bambini iniziarono ad essere trattati da lebbrosi; tutti li evitavano, la comunità non li voleva più e a mia figlia il parroco consigliò di rinviare di un anno la prima comunione perché non era opportuno farla in quel momento …».
La vecchia copia de I Promessi Sposi, capirete, diventa uno strumento preziosissimo per chi voglia comprendere certe dinamiche: la figura di don Abbondio è la chiave per accedere ad un universo antropologico, di radici lontanissime, ma tuttora corrente e vitale. Nello spiegare quali siano le ragioni della viltà, o meglio della «neutralità disarmata» del curato, rispetto a «tutte le guerre che gli scoppiano intorno», Manzoni elabora una sorta di arringa, almeno così noi la interpretiamo, che è anche tra le riflessioni più lucide e spietate che siano mai state scritte sul tema fino ad oggi.
Nella seconda digressione storica, presente nel primo capitolo del romanzo, Manzoni scrive che, nel Seicento, «la forza legale non proteggeva in alcun modo l’uomo tranquillo (…) non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private (…) Le leggi anzi diluviavano e i delitti erano enumerati e particolareggiati con minuta prolissità (…)».
Dopo aver accennato all’eterna questione dell’«inflazione legislativa», male atavico nel nostro Paese, evidentemente, Manzoni denuncia una «impunità organizzata», che avrebbe radici così remote che le leggi (definite «grida» proprio in virtù della loro inservibilità) «non toccavano e non riuscivano a smovere». «Gli uomini poi incaricati», prosegue l’autore, «dell’esecuzione immediata, quando fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a sacrificarsi come martiri, non avrebbero però potuto venirne alla fine, inferiori com’eran di gran numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d’essere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro d’operare».
La conclusione dell’arringa è tremenda: «Era quindi ben naturale che costoro, in vece d’arrischiare, anzi di gettare la vita in un’impresa disperata, vendessero la loro inazione».
La vendita dell’«inazione» è purtroppo la vera costante nei rapporti tra l’italiano medio (cioè del don Abbondio) e l’ingiustizia di piccola e grande taglia. Potremmo dire che, nel nostro piccolo, siamo un po’ tutti don Abbondio, nella misura in cui ci mostriamo pronti ad abbracciare il suo sistema di vita e ad addurre la sua tipica discolpa: «tengo alla mia pelle e tengo famiglia»: espressioni di quel «familismo amorale» rilevato nella nostra società dal sociologo americano Banfield.
Finché il nostro Paese continuerà ad essere così simile, nella sua «organizzata impunità», alla Lombardia seicentesca, e finché la sola alternativa virtuosa continuerà ad essere l’intraprendenza degli eroi e il sacrificio dei martiri, l’arringa di Manzoni avrà ancora pieno titolo nel rendere comprensibile, se non addirittura scusabile, la «neutralità disarmata» dei don Abbondio.
La Chiesa dovrà senz’altro assumersi le sue responsabilità, dopo aver scomunicato i mafiosi, perseguendo duramente i suoi ministri collusi, educando i suoi preti e i suoi fedeli all’eroismo cristiano, ma lo Stato dovrebbe guardarsi bene dal farlo: sarebbe il suo fallimento. Uno Stato che si rispetti consolida la sua forza legale nei confronti dei criminali, non fabbrica eroi, non promuove l’ardimento. Uno Stato che si rispetti dovrebbe darsi tutta la forza e tutto il coraggio che mancano a don Abbondio. Ben vengano poi i fra Cristoforo e i Federigo Borromeo, cui non occorre la forza dello Stato per dare prova di coraggio.
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