Lo ricordo bene. Eravamo seduti uno difronte all’altro.
Era la prima volta che lo incontravo e come sempre mi capita quando ho a che fare con persone mai viste prima avevo preso un po’ di informazioni per capire chi fosse questo “pentito” che aveva chiesto di parlarmi.
L’avvocato che tempo prima si era fatto da tramite fra me e lui mi aveva semplicemente detto che il suo cliente era un pentito, era stato affiliato ad una cosca importante della ‘ndrangheta calabrese per conto della quale era stato un killer di primo piano e che poi ad un certo punto aveva deciso di mollare tutto e cambiare vita.
Non mi ero soffermato sulla parola “pentito” – si presentano più o meno tutti in questo modo quelli che hanno deciso di saltare il fosso e lasciare il mondo dell’illegalità mafiosa, e nel tempo ho imparato non solo come sia troppo importante questa parola e anche troppo abusata ma anche come sia praticamente impossibile scendere nelle profondità intime di una coscienza che sta mettendo in discussione la propria esistenza –, no, l’unica cosa che mi premeva approfondire prima di incontrarlo era capire in che modo si era sporcato le mani, quante persone aveva fatto piangere e se la ‘ndrangheta era sangue che aveva ereditato nelle vene o status symbol da ostentare già da ragazzino per essere qualcuno e vantarsi di essere qualcuno in un territorio come il suo dove l’appartenenza ad una cosca mafiosa è motivo di vanto e “posizione sociale – come mi disse lui un giorno – che ti fa camminare tre metri sopra il cielo”.
E anche un’altra cosa cercai disperatamente su internet prima di andare a quel colloquio: una foto, una sua immagine, qualunque cosa insomma che me lo facesse vedere in volto perché presentandomi a lui potessi avere la sensazione di conoscerlo già.
Non mi abituerò mai al rumore dei cancelli che si chiudono uno dopo l’altro alle mie spalle, né perderò l’abitudine ti contarli ogni volta che li oltrepasso. Andando da Giuseppe – per ovvi motivi lo chiamerò così questo mio nuovo compagno di strada, senza poter svelare la sua vera identità – dall’ingresso principale del carcere in cui era rinchiuso all’ultimo corridoio dove era la stanza nella quale l’avrei incontrato contai nove cancelli.
Lo ricordo bene quel nostro primo colloquio: il racconto di un’infanzia vissuta a “pane e ‘ndrangheta”, la dolcezza ma anche il costante silenzio della mamma – “la prima vittima di quel clan mafioso che era la mia famiglia”, così la definisce Giuseppe – l’iniziazione alle cose di malavita con le prime estorsioni e le prime “spedizioni” per punire gli spacciatori che volevano mettersi in proprio, e il primo sangue sulle mani. “Il primo omicidio non lo dimenticherò mai – mi dice Giuseppe – ancora ricordo gli occhi di quella persona che mi fissavano mentre gli toglievo il respiro stringendo al collo la cintura del suo stesso pantalone”. E continua: “poi purtroppo ti ci abitui e più vai avanti e più a quel sangue non dai molto peso”.
Ma c’è una cosa che Giuseppe non solo non dimentica ma non riesce ancora a capire come possa essere possibile: il rispetto della “gente normale, non dei mafiosi”. Anzi, Giuseppe ricorda che il padre, e prima di lui il nonno, che era il vero grande boss, erano così rispettati che al loro paese quando c’era la festa patronale, la statua della Madonna non poteva uscire in processione dalla chiesa senza il loro consenso e per loro c’era sempre riservata la prima fila di banchi, nel senso che lì non si sedeva nessuno perchè tutti in paese sapevano che in quei posti si dovevano accomodare loro della famiglia. E ricorda Giuseppe quando da ragazzino il nonno commentava con lui questo privilegio dei banchi riservati in chiesa dicendo: “hai visto come ci vogliono bene?”.
Eppure tutti sapevano chi erano, tutti conoscevano a memoria il loro cognome. Non significa che tutti in paese approvassero la loro condotta ma certamente conveniva farsi i fatti propri.
“Eravamo parte fondamentale di quella comunità”, le scandisce bene queste parole il mio interlocutore; non vuole che mi sfuggano evidentemente perchè quello che sta per dirmi non è solo qualcosa che ancora oggi a distanza di tanti anni lo fa riflettere ma anche e soprattutto perché vuole che io colga tutta la provocazione del paradosso che mi sta ponendo dinanzi.
Parte dal commento alle parole che Papa Francesco aveva pronunciato qualche mese prima in Calabria durante la messa nella piana di Sibari a conclusione della visita nella Diocesi di Cassano allo Jonio (CS). Era il 21 giugno 2014, dinanzi a lui c’erano duecentocinquantamila persone e nel corso dell’omelia dopo essersi soffermato su come “l’adorazione del denaro apre la strada al peccato, all’interesse personale e alla sopraffazione” e che “la ‘ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune”, il Papa scandendo le parole ad una ad una disse: “coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati”.
Non era certo la prima volta che un Pontefice usasse parole così dure nei confronti delle mafie e dei mafiosi. Nelle orecchie e negli occhi ci portiamo ancora le immagini e le parole infuocate di Papa Wojtyla nel 1993 lì nella Valle dei Templi, ad Agrigento, “convertitevi, un giorno verrà anche per voi il giudizio di Dio”, e le parole di Benedetto XVI più di quindici anni dopo a Palermo in Piazza Politeama quando affermò che “la mafia è strada di morte”.
Questa volta però è stato diverso. Questa volta un Papa ha detto ai mafiosi: voi siete fuori, voi non appartenete a questa comunità!
La portata di queste parole così dure e nette di Francesco non era di certo sfuggita ai mafiosi, e non era la prima volta che mi ritrovavo a commentarle con un collaboratore di giustizia. Non posso certo dire che ci avevano perso il sonno, molti di loro infatti mi avevano espresso perplessità sul fatto che una minaccia di scomunica potesse interessare più di tanto i loro vecchi compari; altri invece mi sembravano più attenti alle conseguenze che una simile decisione poteva portare nel concreto. Un collaboratore, infatti, un giorno mi disse testualmente: “immagina se un prete prende sul serio le parole del Papa, immagina le conseguenze sulle feste patronali”. E infatti a pensare quale importante momento di affermazione di potere su un determinato territorio assume una festa patronale per un clan mafioso che mette i suoi a portare le statue in processione o a organizzare la colletta o a chissà quante altre cose, davvero aveva ragione quel collaboratore.
Quello che però quel giorno mi dice Giuseppe non lo avevo mai sentito da nessun collaboratore e francamente non ci avevo mai pensato. Il Papa ha fatto bene a dire quelle parole, mi dice il mio interlocutore, perché è importante che finalmente la Chiesa tracci un confine tra la propria comunità e il mondo mafioso ma il paradosso nella sua storia è che dalle sue parti quando la sua famiglia era ancora potente e tutti in paese sapevano chi erano e i loro affari di morte, loro erano rispettati da tutti, per loro c’era sempre un posto riservato in prima fila e lui stesso, il rampollo di casa che tutti sapevano che avrebbe ereditato lo scettro del nonno prima e del padre poi, era un personaggio riconosciuto non solo della comunità civile ma anche della stessa parrocchia dove più volte si era trovato a fare da padrino ai battesimi e alle cresime. “Quando però – e qui uso le sue parole – si venne a sapere della mia collaborazione, mia moglie e i miei bambini iniziarono ad essere trattati da lebbrosi; tutti li evitavano, la comunità non li voleva più e a mia figlia il parroco consigliò di rinviare di un anno la prima comunione perché non era opportuno farla in quel momento…”. E poi le parole finali che ancora porto dentro di me: “il Papa fa bene a scomunicare i mafiosi, si sappia però che può capitare che finché sei mafioso fai parte della comunità ma quando decidi di non esserlo più allora di fatto ti scomunicano. Non dovrebbe essere il contrario?”.
Io non so cosa significhi di fatto scomunicare un mafioso, non so concretamente in che modo la Chiesa potrà trasformare in prassi pastorale le parole del Papa; penso che di sicuro sia un cammino da intraprendere necessariamente e che per quanto difficile e complesso la Chiesa debba arrivare a definire un percorso in tal senso.
L’unica cosa, però, che so per certo è mettere in conto che non sono pochi i pentiti che paradossalmente si ritrovano a vivere questa scomunica al contrario, e che fra le tante questa è la sfida nella sfida per una Chiesa che con fatica cerca di conciliare la misericordia con la giustizia.
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