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La crisi di fiducia che sta attraversando in questi ultimi anni l’Italia è estranea non solo alle economie, ma soprattutto alle società dei Paesi mitteleuropei e baltici, che stanno affrontando le nuove sfide affidandosi al concorso di tutte le generazioni, compresa quella più giovane.

Primo maggio 2004. Il Consiglio europeo di Dublino festeggia l’ingresso di dieci nuovi Paesi nell’Unione europea, e con essi una carica di ministri quarantenni che, dall’Estonia a Malta, da Cipro all’Ungheria, formano oggi la nuova classe dirigente di quello che fino a pochi anni fa era l’Est.

Un’immagine diversa da quella del nostro Paese, dove nel 1998 destò scalpore la nomina di Enrico Letta, appena trentaduenne ministro per le Politiche comunitarie del secondo Governo D’Alema. Era il 1998, e da allora tale primato di età è rimasto imbattuto, seguito solo da Stefania Prestigiacomo che, a trentacinque anni, diventava ministro per le Pari opportunità nel 2001.

La crisi di fiducia che sta attraversando in questi ultimi anni l’Italia è estranea non solo alle economie, ma soprattutto alle società dei Paesi mitteleuropei e baltici, che stanno affrontando le nuove sfide affidandosi al concorso di tutte le generazioni, compresa quella più giovane. Strumenti di partecipazione, occasioni di scambio e formazione culturale, sociale e politica sono le parole d’ordine con cui, dopo la fine della guerra fredda, i giovani di queste nazioni hanno abbandonato la stagione delle contrapposizioni ideologiche e si sono attrezzati per la prova della competizione europea.

L’Italia, e la nostra regione di confine, gode di una società civile di tradizione più consolidata e di un “mercato” culturale più ampio di molti di quei Paesi (anche se non sempre ottimamente integrato ai grandi circuiti internazionali), è stata culla di diverse tradizioni politiche di grande respiro e beneficia di un Terzo settore largo e variegato. È possibile che da questi presupposti non si sviluppi una reale partecipazione dei giovani alla vita pubblica che possa dare impulso ad un Paese e ad una classe politica in affanno?

L’ingresso delle giovani generazioni nel circuito politico ed istituzionale italiano è una priorità per lo sviluppo del nostro Paese nei molteplici settori della vita nazionale. Una classe dirigente nuova, coetanea dei giovani ricercatori che fuggono all’estero per rispondere adeguatamente alla loro vocazione scientifica, dei giovani musicisti ed artisti che si affermano ovunque oltre le Alpi, ma che non incontrano favore nel Bel Paese, dei giovani professionisti che trovano sbarrate le porte del mondo del lavoro a causa dei corporativismi degli ordini professionali.

Come i Paesi dell’Allargamento, anche l’Italia deve trovare giovani disposti ad impegnarsi nella vita politica che possano a trent’anni trovare spazio nelle sedi decisionali avendo alle loro spalle come bagaglio formativo e culturale strumenti d’innovazione adeguati. Con la fine dei partiti storici, infatti, la Seconda repubblica ha portato anche alla scomparsa delle scuole di partito, demandando le residue necessità competenziali all’università e all’istruzione superiore (per chi se lo può permettere); la spettacolarizzazione della scena politica ha favorito l’emergere di figure individuali; la competizione mediatica necessita di sempre maggiori risorse economiche. Tutti questi fattori hanno contribuito a rendere più difficile l’accesso agli alti gradi istituzionali ai ceti meno abbienti, gli stessi che per posizione sociale dispongono di minori strumenti conoscitivi e partecipativi.

Le nuove generazioni, private di poli di aggregazione sentiti come “propri”, tendono a non riconoscersi nel tradizionale spettro destra-sinistra, e ancor meno nelle singole formazioni politiche. D’altra parte, molti di quanti si identificano in una collocazione scivolano verso gli estremi degli schieramenti, con la conseguente marginalizzazione della loro presenza negli ambiti istituzionali.

Ma possiamo allora accettare l’opinione corrente secondo cui i giovani provano semplice disinteresse nei confronti della politica, tendono all’astensionismo e soprattutto subiscono senza una visione critica la realtà circostante?

Da un’esperienza personale appare piuttosto che la proporzione di indifferenti o ostili a questa dimensione sia pressoché analoga o di poco superiore a quella (mediamente consistente) delle altre fasce di età. Ciò che conta per i giovani è la proposta, il progetto per cui sentirsi coinvolti e spendere le proprie energie. In questo senso, a fare la differenza è l’impegno personale di chi propone una forma di aggregazione giovanile e il contesto in cui questa si svilupperà.

I giovani generalmente non sono interessati a entrare nelle organizzazioni dei partiti in quanto tali, ma possono essere coinvolti dalle attività di gruppi formati esclusivamente da giovani, orientati verso il mondo giovanile, che affrontano con un approccio innovativo e stringente le questioni che si propongono nella vita quotidiana. Tale approccio deve far fronte al distacco rilevato dai ricercatori sociali come atteggiamento di rifiuto attribuendo un nuovo significato all’impegno civile.

Secondo Ilvo Diamanti, alla fine degli anni Novanta “non c’era più nessuno che, impegnandosi in ambito sociale, culturale e formativo, accettasse di venire inserito nella categoria dell’associazionismo di segno ‘politico’. Tutti preferivano altre etichette: impegno territoriale, educativo. Volontariato. Tutto meno che la politica. Meno che identificarsi con ‘questa’ politica”. (1) Ne consegue che solo un tentativo di emancipare i giovani dalle forme di “tutoraggio” che tendono a riproporre, secondo modelli clientelari e formule gestionali consolidate, élite politiche ristrette, interessate solo a perpetuare la propria influenza, avrà l’effetto di ridurre il disagio verso i partiti.

Incidentalmente si è giunti, quindi, a lambire il problema della forma-partito, come luogo di elaborazione programmatica, polarizzatrice e mediatrice di interessi ed opinioni. Il contributo positivo dei partiti allo sviluppo del Paese, al di là del dettato costituzionale, non può essere assunto come dato. La distanza tra “detto” e “fatto”, rispetto agli effettivi contenuti proposti, costituisce la prima fonte di contestazione da parte della realtà giovanile alle aggregazioni politiche.

È possibile venire incontro ad una larga platea di giovani solo mettendo a disposizione dei luoghi di discussione informale in cui non ci sia un intervento “esterno” esplicito ed invadente. Qui nascono le proposte, si sviluppano le occasioni di confronto fra coetanei che hanno esperienze ed aspettative comparabili. Se le attività hanno una cadenza continuativa, il gruppo si rinsalda e “sparge la voce”.

Questo schema semplificato trova rispondenza in un modello di partecipazione diretta basato sulla responsabilità personale. Nel concreto, rispetto alla vecchia formula della “componente dei giovani di partito”, che sin dall’adesione ad un soggetto politico richiede di integrarsi all’interno di una struttura in sé compiuta, appare di gran lunga preferibile la forma del “movimento giovanile”, dotato di larga autonomia organizzativa e gestionale rispetto al partito di riferimento.

Elaborazione programmatica e forma organizzativa più libera diverrebbero così i contributi delle nuove generazioni al rinnovamento dei partiti nella società e antidoto alla loro tendenza a trasformarsi in comitati elettorali attivi esclusivamente in vista delle consultazioni.

Non è facile trovare nei responsabili politici ed istituzionali la lungimiranza a cogliere questi fermenti del segmento giovanile della società italiana. Spesso la tendenza è di favorire l’ingresso dei giovani nei partiti (quando avviene spontaneamente) per poi valorizzarne solo la componente “coreografica”… dimenticando che “i partiti politici hanno il compito di favorire una partecipazione diffusa e l’accesso di tutti a pubbliche responsabilità”. (2) In quest’ottica, “coloro che sono o possono diventare idonei per la carriera politica, difficile ma insieme mobilissima, vi si preparino e cerchino di seguirla senza badare al proprio interesse e al vantaggio materiale”. (3)

Inoltre, l’entusiasmo con cui centinaia di migliaia di studenti universitari hanno accolto la possibilità di studiare all’estero tramite i programmi “Socrates” ed “Erasmus” indica che, anche in un senso di crescita nella cittadinanza consapevole, occorre sviluppare le occasioni di scambio fra realtà di diversi Paesi, specie dell’Unione europea. Anche una più diffusa opera di reciproca conoscenza fra giovani di ambiti territoriali differenti del nostro Paese può arricchire ulteriormente il percorso di formazione che costituisce l’obbiettivo prioritario di qualsiasi aggregazione giovanile indirizzata alla politica. Le organizzazioni dei diversi partiti devono porsi in quest’ottica se vogliono attribuire significato ai consueti appelli di partecipazione rivolti alle nuove generazioni.

In conclusione, è opportuno riflettere su due campi d’azione dove il contributo dei giovani può essere determinante per affrontare i problemi in maniera “innovativa” – cioè da angolature diverse da quelle consuete.

Il primo riguarda la partecipazione femminile alla politica. In Italia c’è una sproporzione evidente fra uomini e donne ai vertici. Ciò significa che per ogni esponente maschile in più c’è un’intelligenza femminile non valorizzata. Per agire finalmente alla radice del problema non è sufficiente adottare delle “quote rosa”, che se da un lato sembrano una soluzione palliativa e un’ammissione di sostanziale impotenza, dall’altro rischiano di distorcere la presenza delle donne a mero dato quantitativo e non qualitativo. Nell’Italia del 2006, le ragazze, che primeggiano in molteplici ambiti a partire da quello scolastico ed universitario, hanno invece le concrete potenzialità per esprimersi nella vita pubblica, maturando sin da giovani l’esperienza “sul campo” uguale a quella dei coetanei che è la sola causa di vera parità sostanziale. Questa generazione può e deve essere la prima a superare ogni residuo svantaggio competitivo dato dalle filiere di potere e dalla diffidenza che fa della politica un “universo di (pressoché) soli uomini”.

Il secondo campo d’azione riguarda il filone culturale con le più antiche origini nell’Isontino, il cattolicesimo popolare che risale all’esperienza di mons. Faidutti – deputato al Parlamento di Vienna quando nel Regno (d’Italia) si dibatteva ancora intorno alla questione del Non expedit.

Come si chiede il senatore Tino Bedin: “È possibile vivere cristianamente la politica? Come membro della società politica, tuttavia, credo che questo sia il tempo in cui porci con quotidiana urgenza domande prima di tutto su di noi; a partire dalla domanda essenziale: se sia possibile vivere cristianamente la politica in una società plurale, che del cristianesimo accetta e magari crede di difendere i valori umanamente importanti, ma che ha privatizzato quelli religiosamente impegnativi”. (4) In primo luogo, la ricerca del giusto ordine della società: “Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri”. (5) Se non si trattasse di una questione attuale, la perentoria affermazione di Benedetto XVI non sarebbe di così grande stimolo alle coscienze e rivelatrice delle cause del distacco fra molti giovani e la res publica.

Nel suo magistero il Pontefice pone l’accento che la natura autentica della politica risiede nella risposta ai desideri e ai bisogni delle persone e si incarna nel perseguimento concreto del bene della comunità nel suo insieme. Non si pone più la necessità di un orientamento finale e salvifico alla vita dei popoli che aveva caratterizzato le ideologie del Novecento. La caduta dei “miti” che si presentavano come la vera via della realtà morale nella politica, ma che in verità erano mascheramenti del potere, invita a rivedere i valori reali della giustizia, della libertà e del progresso nella loro fonte più autentica.

La sfida va raccolta, e ai molti interrogativi che assalgono le nuove generazioni i giovani stessi devono trovare una risposta dettata dalla serietà e dall’impegno. Portando anche a risultati come quelli delle Politiche, dove alla Camera i giovani da 18 a 25 anni hanno portato “il” contributo determinante alla vittoria del centrosinistra.

È importante oggi, dall’esempio di quei Paesi che con successo hanno investito nella generazione del futuro, trarre gli stimoli giusti e puntare al rinnovamento della classe dirigente del nostro Paese. Solo se sboccerà questa passione in quanti, a partire dai giovani, si sentono ancora ai margini della comunità politica, sarà possibile contare veramente sulle forze di tutti.


Note
1) cfr. I. Diamanti, a cura di, La generazione invisibile. Il Sole-24 Ore, Milano, 1999, p. 23-24
2) cfr. Concilio Vaticano II, Cost. Past. Gaudium et spes, 75
3) ibidem
4) T. Bedin, Lettera dal Senato 103, Padova, 25 novembre 2005
5) Benedetto XVI, Lett. Enc. Deus caritas est, 28

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