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Perché in Europa e in America esiste un rapporto così profondamente diverso tra istituzioni politiche e religione ? Ovvero, perché la laicità si presenta negli Stati Uniti con caratteristiche tanto diverse rispetto quelle che costituiscono l’accezione comune di questo termine? Per indagare la natura e la forza del fenomeno religioso in America ci rivolgiamo all’opera di Alexis de Tocqueville, che per primo ha tematizzato lo stretto legame tra libertà repubblicana, democrazia e religione (1). Poi utilizziamo la categoria di religione civile, che lo storico italiano E. Gentile mutua da Rousseau (2). Dopo aver ripercorso la radicalizzazione, o forse l’abuso di questa religione civile, operata durante l’amministrazione Bush jr., osserviamo che il vero contrasto al suo patriottismo religioso è arrivato non tanto dai laici (politicamente poco influenti negli USA), quanto soprattutto dai religiosi democratici (3). Per questo concludiamo ipotizzando che la religione , intesa come principio di speranza, giocherà un ruolo importante nella concezione della democrazia americana incarnata da Barak Obama (4)

«Fin dalle origini politica e religione furono d’accordo
e in seguito non hanno mai cessato di esserlo»

«La religione non è che un altro nome della speranza»

Tocqueville

“God bless you. God bless the United States of America”. L’America è una nazione profondamente religiosa. A noi europei, abituati alla laicità derivata dalla tradizione illuministica e consolidata attraverso la rivoluzione francese, a sua volta rafforzata dalla continuità data da Napoleone alla costituzione civile del clero, il fervore religioso del popolo americano a volte risulta poco comprensibile. Spesso le élites intellettuali del vecchio continente hanno nutrito e nutrono una sorta di paternalismo, a tratti benevolo, a tratti perfino aspro e risentito, nei confronti di quelli che in fondo sono i nostri nipoti giovani al di là dell’Atlantico. Passi per l’Europa continentale e la cultura francese, storicamente laica, ma anche in Italia, per molti aspetti il paese più filoamericano al di qua dell’Atlantico, le cose non vanno meglio. Accanto ai liberali e ai marxisti, perfino la cultura cattolica manifesta al suo interno un profondo scetticismo nei confronti degli Stati Uniti e della loro religiosità, considerata spesso radicale, esaltata o troppo commista di elementi politici.

L’analisi che ci apprestiamo a fare deve proporsi di chiarificare perché in America la religione sia un fenomeno tanto importante. O, se si preferisce, perché la religione è così importante nella vita civile e politica dell’America quando invece nel vecchio continente non sembra esserlo più da molto tempo. E che cosa realmente definiamo con il termine “religione”, dato che anche su questo punto sembra aprirsi un solco concettuale tra la prassi politico-sociale consolidata negli Stati Uniti e il modo abituale d’intendere i fenomeni spirituali nella cultura occidentale europea. Se così faremo, il nostro atteggiamento non vorrà essere quello di emettere un giudizio sulla storia o sulla società, ma solo quello di fornire un contributo alla chiarificazione del nesso tra religione e politica nell’America di oggi. E dunque anche di capire per quale motivo l’elettorato americano ha deciso, a torto o a ragione, di voltare pagina scegliendo il carisma, a suo modo religioso, di Barak Obama.

Per fare questo inizieremo con un racconto. Quello delle osservazioni seguite all’avventura di uno studioso della società americana quando essa era ancora all’alba della sua storia: Alexis de Toqueville.

1. Il viaggio di Tocqueville

È il 1831 quando l’aristocratico liberale francese Alexis de Tocqueville, accompagnato da Gustave de Beaumont inizia il suo viaggio nell’embrione di quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America come noi li conosciamo. Molte cose erano diverse da oggi. L’unione era composta da tredici stati, già qualcosa in più dell’originaria la Nuova Inghilterra, la corsa verso l’Ovest era appena agli inizi e nonostante l’espansione geografica e la crescita impetuosa della popolazione tutto il paese appariva una bizzarra appendice della geografia. La storia pulsava al di qua dell’Atlantico e pochi, a parte lo stesso Tocqueville, riservavano a quel lembo lontano di nuovo mondo più che un po’ di curiosità antropologica.

Ma molte altre cose che Tocqueville vede e conosce nel suo viaggio sono le stesse allora e oggi, dopo l’anno 2000. L’assetto costituzionale è infatti prevalentemente lo stesso dal 1787, anno della prima e unica costituzione repubblicana. Soprattutto il rapporto dei cittadini con la religione, a proposito del quale Tocqueville ha lasciato pagine memorabili per la profondità dell’osservazione, è per molti aspetti invariato in questi oltre duecento anni di storia. Naturalmente il pluralismo religioso così importante nell’analisi di Tocqueville era limitato a cattolici e protestanti. Tuttavia proprio la convivenza pacifica di popoli e religioni costituiva già all’epoca la base di una possibile espansione del numero delle fedi e dei popoli.

Sotto il profilo strettamente giuridico la costituzione americana è chiarissima nell’affermare l’incompetenza dello stato in materia religiosa. Questo però non va affatto a discapito della diffusione del sentimento e della pratica religiosa nella popolazione dell’Unione. Al contrario, come nota Tocqueville, la non commistione tra religione e politica da un punto di vista istituzionale rafforza la religione stessa e contestualmente affranca la politica da un interesse troppo esplicitamente materiale (Toqueville 1835, p.298):

Quando una religione cerca di fondare il suo impero soltanto sul desiderio dell’immortalità, che tormenta egualmente il cuore di tutti gli uomini, può aspirare all’universalità; ma quando si unisce a un governo, deve adottare delle massime applicabili solo ad alcuni popoli. Perciò, alleandosi a un potere politico, la religione aumenta il suo potere su alcuni uomini, ma perde la speranza di regnare su tutti.

È proprio liberandosi dalle pastoie del governo, ovvero non essendo istituzionalizzata, che la religione può essere universale. E se è universale, naturalmente si rafforza come sentimento spirituale tra gli abitanti di un paese.

Contrariamente all’opinione dei filosofi europei cioè alla lignée che il francese Tocqueville fa risalire a Cartesio e al razionalismo illuminista, la religione non riveste in America un ruolo negativo sul governo almeno per due ragioni che vanno attentamente considerate. In primo luogo, essa costituisce l’impalcatura della democrazia e della forma repubblicana adottata negli Stati Uniti. In secondo luogo la spiritualità rappresenta per Tocqueville un fatto non solo naturale, ma anche necessario per il mantenimento dell’ordine repubblicano e democratico.

Si consideri infatti che una volta sgombrato il campo dall’ingerenza clericale sul governo, non rimane che la forma spirituale della religione. Essa si accorda perfettamente con lo spirito di libertà, contrariamente a quanto era avvenuto fino allora, e diremmo anche in seguito, nel nostro continente, al punto che (p. 292):

Si può affermare che negli Stati Uniti non vi è alcuna dottrina religiosa che sia ostile alle istituzioni democratiche e repubblicane. I sacerdoti di tutte le confessioni tengono su questo punto lo stesso linguaggio; le opinioni sono concordi con le leggi, lo spirito umano segue una sola corrente.

Tutto questo non accade soltanto perché il cristianesimo, secondo Tocqueville, ha un’essenza egualitaria al suo interno1, che la cultura del vecchio continente ha invece piegato alle proprie convenienze. La compresenza di cattolici e di protestanti, più o meno radicali, è sicuramente alla base della laicità costituzionale americana, una laicità che garantisce il pluralismo religioso e delle minoranze, già presente alle origini della democrazia americana. I Padri Pellegrini e gli altri fondatori erano tanto religiosi quanto amanti della libertà degli uni dagli altri, ovvero insofferenti rispetto ad un’autorità centrale che stabilisse dogmaticamente quale dottrina seguire. Essi erano inoltre repubblicani per loro cultura2. In questo senso la laicità costituzionale americana è palesemente figlia del pluralismo dottrinario e della libera interpretazione delle sacre scritture tanto cara al protestantesimo. I cattolici, da parte loro, per lo più conservatori in Europa, ritrovandosi in minoranza nel nuovo continente, si sentono garantiti dal principio di non ingerenza tra stato e chiesa.

Si tenga anche presente che conservatori e reazionari europei guardavano con grande diffidenza agli Stati Uniti, in un momento storico in cui essere repubblicani rappresentava un elemento sovversivo dell’ordinamento politico. All’epoca si presumeva che i re fossero tali per volere divino. Un paio di teste coronate erano già saltate in Inghilterra prima e in Francia poi ad opera di quelle rivoluzioni che avevano avuto il coraggiodi contestare il diritto di un sovrano, che costituiva il fondamento principale della politica. I rivoluzionari avevano opposto alla monarchia per diritto divino alti principi che tuttavia erano stati applicati a prezzo di violenza e sangue speculari a quello del potere istituzionale. Gli americani, rivoluzionari contro la regina d’Inghilterra, erano dunque considerati dei pericolosi perché potenzialmente inclini alla violenza, e dei sovversivi dell’ordine sancito attraverso l’ “omnis potestas a Deo”, l’antico motto paolino su cui tutta la teoria politica si era fino basata fino ad allora.

Tocqueville ribalta questa prospettiva, potenzialmente capace di gettare discredito sulla giovane democrazia americana. Partendo dall’osservazione che di fatto la religione costituisce un elemento sociale tutt’altro che marginale in America, egli si spinge ad osservazioni di carattere antropologico-filosofico. Non solo la pluralità religiosa è il sostegno della forma repubblicana e dello spirito di libertà. Non solo il sentimento religioso cresce attraverso la libertà ed è un fenomeno del tutto naturale e spontaneo nella natura umana. In più è la democrazia stessa ad aver bisogno della religione. Intanto perché senza di essa i cittadini sarebbero spinti verso una deriva materialista, da cui la religione solleva con la sua opera moralizzatrice. Ma soprattutto, perché l’uomo libero, nel regime democratico, ha bisogno inevitabilmente di qualcosa in cui credere. In caso contrario sarebbe confuso e non potrebbe dedicarsi alle ordinarie attività, fondamentali per la nascita di ogni consesso sociale. Questo bisogno di credenze dogmatiche, di cui la religione è costituita, è richiesto dalla stessa natura umana (p. 427):

Le credenze dogmatiche sono più o meno numerose secondo i tempi. Esse nascono in modi diversi e possono cambiare forma e contenuto, ma non si può fare in modo che non vi siano credenze dogmatiche, vale a dire opinioni che gli uomini ricevono con fiducia senza discuterle. Se ognuno volesse formare da solo tutte le opinioni e cercare la verità isolatamente per strade aperte da sé solo è probabile che mai un grande numero di uomini potrebbe riunirsi in una fede comune.

Ora è facile vedere che non vi è una sola religione che possa prosperare senza simili credenze o piuttosto non ve n’è alcuna che sussista così, poiché senza idee comuni vi possono essere ancora degli uomini, ma non un corpo sociale. Perché vi sia una società…bisogna dunque che tutti gli spiriti dei cittadini siano sempre riuniti e tenuti insieme da alcune idee principali, e ciò non potrebbe avvenire se ognuno di essi non venisse ad attingere le sue opinioni ad una stessa fonte e non accettasse di ricevere un certo numero di credenze belle e fatte.

2. Religione civile o religione politica?

Pessimisticamente, o forse con consapevole realismo, il liberale autore de “La democrazia in America” ammette l’impossibilità che gli esseri umani si formino in piena autonomia intellettuale tutte le opinioni, e di conseguenza ammette la necessità di accettarne una gran parte dalla tradizione, dal senso comune di un popolo o di una cultura. Tra le credenze che siamo costretti a ricevere da una fonte esterna bisogna anche includere il comune sentire religioso. In una sorta di atteggiamento cartesiano rovesciato, Tocqueville sottolinea come il compito dell’individuo non consiste nell’affermare l’evidenza logica della divinità, quanto nell’accettarne la consolidata consacrazione sociale. Se così non fosse l’ordinamento sociale sarebbe minato da un pernicioso individualismo.

Ma di quale religione sta veramente parlando Tocqueville? Come può dirsi “laico”, almeno nell’ordinario modo di intendere questo concetto, uno stato dove la parola “God” appare nei giuramenti dei presidenti come nei discorsi politici, sulla moneta da un dollaro come nel Pledge of Allegiance, il pegno di fedeltà alla bandiera? Dove la stessa bandiera a stelle e strisce è presente ovunque nelle chiese, le guerre vengono proclamate in nome di Dio e sempre in suo nome la democrazia e la libertà esportate? E per finire questa religione, in qualunque forma si presenti, non ritorna forse ad assumere quel un carattere che Tocqueville vedeva scongiurato?

Per provare a rispondere a tutte queste domande mi avvalgo del concetto di religione politica utilizzato dallo storico italiano Emilio Gentile, da molti anni studioso del fascismo e della natura delle ideologie politiche del XX secolo. Nel suo “Le religioni della politica”, Gentile (2007) indaga dalle origini l’idea di una sacralizzazione dello Stato e delle sue istituzioni. Essa rappresenta la diretta conseguenza del processo di secolarizzazione iniziato con l’Illuminismo e protrattosi con ondate impetuose tanto nel XIX che nel XX secolo. A questa laicizzazione fa seguito la nascita di un novo tipo di religione la religione civile appunto, la prima di una lunga e differenziata serie di religioni della politica.

La definizione di “religione civile” risale a Jean-Jacques Rousseau. Rigorosamente convinto che la religione sia un esito naturale del vivere in società, nella “Lettera a Voltaire” il ginevrino (Rousseau 1756, p. 133) propone che in ogni stato vi sia un «codice morale, o una specie di professione di fede civile». Più compiutamente nel Contratto sociale (1762), richiamandosi al concetto hobbesiano si sovranità, Rousseau esplicita la necessità di ricongiungere potere religioso e politico per dare corpo ad una comunità immune dalle lacerazioni che si originano dalla concomitanza del servire contemporaneamente la Chiesa e lo Stato. Il cristianesimo viene così superato in nome di una fede in un sentimento religioso in un essere superiore onnipotente, giusto e buono. Questo sentimento deve caratterizzarsi (Rousseau 1762, p. 344) come una «professione di fede puramente civile di cui spetta al sovrano fissare gli articoli, non proprio come dogmi di religione, ma come sentimenti di socievolezza, senza cui è impossibile essere buoni cittadini e fedeli sudditi».

Gentile riprende da Rousseau la definizione di religione civile, applicandola agli Stati uniti d’America. L’operazione era stata già tentata dal sociologo Robert N. Bellah che fin dal 1967 interpretava la società americana alla luce di una religione civile di stampo neppure troppo velatamente deistico e rousseauiana. Di questo fenomeno, secondo Gentile fanno parte tutta una serie di manifestazioni socio-polititiche volte alla sacralizzazione delle istituzioni repubblicane e del suo capo, il presidente degli Sati Uniti. Tra queste, oltre i già citati simbolismi del dollaro, della bandiera e della professione di fede possiamo elencarne molti altri. Ad esempio la mitologia dei padri fondatori che si tinge di contorni epico-biblici (da Washington a Lincoln ri-fondatore dopo la lacerante guerra civile, essi stessi considerati figure sacre), l’idea della nuova patria come tranquilla e laboriosa “città sulla collina”, l’istituzione di riti della religione repubblicana come Thanksgiving o il Memorial day in onore dei caduti nella guerra civile, l’America come terra libera, promessa e donata dal Dio della Bibbia per la prosperità dei suoi eletti dopo la sofferenza delle persecuzioni subite nella vecchia Europa (contro cui, almeno all’inizio, si poteva anche nutrire un po’ di giustificato rancore). Il fascino di questa costruzione epico-simbolica non sfuggiva ovviamente a Tocqueville, attrazione che anzi, con il suo trattato, egli contribuisce ad alimentare nell’opinione pubblica europea.

Agli occhi di molti dei suoi cittadini, l’America è la nazione eletta, la nazione giusta e il suo presidente è il Mosè e il profeta di questa nazione. In questo senso fin dall’inizio l’America ha sacralizzato le proprie istituzioni perché si è percepita come “democrazia di Dio”. Per questo si è sentita chiamata al compito di portare la luce entro le tenebre, la libertà ove regna la schiavitù, la salvezza dove c’è miseria e disperazione. Questo atteggiamento corrisponde, ricorda Gentile, a quella che viene definita la “dottrina del destino manifesto”. Secondo quest’idea Dio ha costantemente donato prosperità agli Stati Uniti, che da parte loro operano sempre nel giusto, sempre dalla parte del bene. Contro i nativi americani come contro Hitler, contro gli schiavisti come contro l’impero sovietico. In questo modo il popolo americano celebra se stesso come le nazione che, benedetta da Dio, vince tutte le battaglie in nome della libertà. E che inoltre, almeno fino all’11 settembre 2001, non aveva mai subito un attacco militare straniero entro i suoi sacri confini3.

Accanto alla categoria di religione civile, Gentile ne introduce una contigua, quella di religione politica. Benché sia difficile separarle nettamente, Gentile propone di utilizzare la seconda per interpretare fenomeni di sacralizzazione delle istituzioni politiche ancora più radicali di quelli fin qui considerati. Nel Novecento gli esempi sono costituiti tanto dal fascismo italiano e dal nazismo, quanto dal bolscevismo e dal maoismo, fino ad arrivare al comunismo coreano ancora in vita nel 2008. In poche parole, la religione civile mantiene il pluralismo, mentre la religione politica è il culto assoluto dello stato e delle sue istituzioni proprio dei regimi totalitari.

Ci possono essere inserti totalitari dentro regimi democratici come al contrario spazi di democrazia o di parziale pluralismo perfino all’interno dei regimi dittatoriali. È innegabile che la democrazia americana non sia paragonabile al fascismo e che dunque la religione civile degli Stati Uniti non possa essere confrontata con il culto personale di Stalin o di Mao ai tempi della rivoluzione culturale. Certamente in America si può discutere, criticare, cambiare opinione e perfino mettere in discussione il culto della bandiera o il destino manifesto della nazione. Ai tempi della guerra del Vietnam molti lo hanno fatto, tanto che il comandante in capo della nazione è stato alla fine costretto a dimettersi. In questo senso la religione civile americana, al contrario della religione politica hitleriana, è un culto con dogmi variamente interpretabili e talvolta perfino parzialmente rivedibili.

È anche vero che l’America possiede una buona dose di anticorpi liberali. Giova ricordare con Giuseppe Bedeschi (2008) che i rivoluzionari francesi leggevano Rousseau più di Montesquieu, sostenitore di una netta separazione fra poteri, mentre quelli americani facevano il contrario. Questo spiegherebbe perché, dopo le iniziali simpatie di Washington e Franklin verso l’89 francese sia subentrata una chiara diffidenza. Il culto della ragione istituito da Roberspierre si accorda infatti più con il Contratto sociale che con il sistema di contrappesi disegnato dai costituenti d’oltreoceano.

Gentile inoltre sottolinea ampiamente una ulteriore caratteristica della religione civile americana, che la distingue dal culto secolare praticato nei regimi totalitari. Fin dai suoi inizi, la religione civile americana è ecumenica e potenzialmente inclusiva di tutte le fedi. Nel pantheon del dollaro, della bandiera e del presidente c’è spazio fin dall’origine per cattolici e protestanti. Si consideri, come già detto, che le varie chiese riformate fuggivano proprio da un’autorità che manifestava il suo potere coercitivo sia sotto il profilo dottrinale che sotto quello politico. Non c’era differenza se si trattava del Papa, del Re d’Inghilterra o del principe luterano.

Più recentemente lo spazio si è allargato all’induismo, al confucianesimo, al buddismo e perfino all’Islam. Perfino Gorge W. Bush ha spesso distinto un Islam buono e operoso da una cattiva interpretazione del Corano, che porta al terrorismo. La religione civile americana non è cristiana o ebraica, almeno quanto è sia cristiana che ebraica che buddista. Come sosteneva Rousseau, la spiritualità rimane un fatto privato fino al momento in cui non contrasta con i doveri del cittadino. Infatti la religione civile americana ha il suo culto e i suoi fedeli sono i cittadini. Finché una religione, o un’interpretazione di essa, non arrivi a nuocerle. Ovviamente se questa religione rimane nella sfera privata, non ha ragione di venire in conflitto con la religione civile che occupa la sfera pubblica.

Siamo davvero sicuri che una religione civile non possa contenere in sé il germe dell’intolleranza e trasformarsi in una sorta di democrazia illiberale, almeno pro-tempore? E i germi di questa radicalizzazione non potrebbero ravvisarsi proprio nelle idee di Rousseau cioè nel suo richiamo alla sovranità indivisa sostenuta da Hobbes?

3. Da George W. Bush

Gli otto anni di amministrazione Bush sono ormai storia. Gentile (2006/2008) li ricostruisce con l’attenzione propria dello storico che si occupa della contemporaneità. Dall’affresco emerge che, in un certo senso, Gorge W. Bush si è mosso in continuità con la tradizione della religione civile americana. Non ha rinnegato l’eclettismo, ha fatto spesso riferimento a valori condivisi in modo bipartisan come quelli di libertà e di democrazia. Ha incarnato inoltre il ruolo di comandante in capo, come già altri presidenti di guerra avevano già fatto prima di lui (F. D. Roosevelt, lo stesso Kennedy, Nixon).

È altrettanto vero che Bush ha dato voce a una rappresentazione partigiana di questa tradizione. Si potrebbe dire che la tragedia dell’11 settembre da un lato lo ha spinto a farlo, dall’altro gli ha permesso di farlo. All’indomani dell’attacco terroristico contro le Twin Towers quasi tutti i giornali europei titolavano: “Siamo tutti americani”. Solo tre anni dopo, a ridosso della sfida con il democratico John Kerry, Bush era già tornato ad essere rappresentato il capo della nazione imperialista che molti europei odiano. Il solito pregiudizio antiamericano così diffuso nel vecchio continente?

In realtà anche l’America si era divisa, e la divisione è via via divenuta una lacerazione. È vero, in seguito all’11 settembre Bush si era presentato come il cristiano rinato alla fede dopo lo smarrimento dell’alcolismo. Quello che era iniziato come il mandato del grigio figlio di George senior, si era trasformato all’improvviso. Gorge W. aveva sfoderato un impensabile carisma di leader, e tutto questo quasi per un gioco della storia che lo promuove comandante in capo delle forze del bene (sempre l’America) contro quelle del male (sempre gli altri). Eppure, dopo i primi entusiasmi di unità antiterrorismo, lo stesso Bush trova di fronte a sé trova qualcuno pronto a contrastarlo. In nome di un’altra interpretazione della volontà di quel dio della guerra che proprio il presidente, in veste di comandante in capo, aveva invocato.

In effetti, più che un’onda laica, limitata a pochi intellettuali della East Cost, a Bush e ai suoi sostenitori religiosi si sono opposti sì uomini di fede, ma questa volta riconducibili in qualche modo all’area politica che fa capo ai democratici. La differenza sta nel modo di valutare il ruolo della figura divina nella società e nella storia del mondo. Se per i conservatori religiosi Dio è un padre severo, per i religiosi democratici (li chiamiamo così per comodità) è piuttosto un padre misericordioso4. Per questi ultimi le colpe da punire non sono tanto quelle dei nemici dell’America, come vorrebbero i repubblicani. Al contrario, l’America ha molti nemici perché se li è procurati con i suoi stessi atteggiamenti di sopraffazione o scarsa moralità.

I religiosi democratici si oppongono a quella che considerano una deriva conservatrice e radicale della religiosità in America. Non lo fanno ovviamente per negare il ruolo della spiritualità nella vita politica americana, quanto invece per ridescriverne il ruolo sulla base delle proprie convinzioni.

Si tenga presente che il vero elemento attraverso cui Bush rompe con la tradizione moderata presente nello stesso partito repubblicano non è soltanto nei gruppi di preghiera che tutti i giorni si riunivano alla Casa Bianca per sostenere l’impegno quotidiano del presidente. E nemmeno negli ossessivi richiami alla missione degli Stati uniti contro le forze del male, che potrebbero inserirsi agevolmente nella già citata dottrina del destino manifesto. Per segnare la discontinuità di Bush bisogna invece ricordare la presenza dei fautori della dottrina neoconservatrice nello staff presidenziale. Nato sul finire degli anni ’90 e radunatosi intorno al gruppo denominato Projet for a New American Century, essa richiama esplicitamente ad un uso strumentale della religione in chiave patriottica e nazionalistica. Il destino manifesto dell’America è quello di essere il leader del mondo, anche servendosi della guerra quando è necessario. Secondo i neoconservatori, l’egemonia americana è un elemento positivo non solo per l’America, ma per il mondo intero. Se la religione serve a questa causa, bene. E non ha grande importanza se invece così non è, come è accaduto in modo clamoroso all’epoca del contrasto diplomatico con la Santa Sede con a capo Giovanni Paolo II a proposito della guerra in Iraq.

La teologia imperiale che ha costituito l’impalcatura ideologica della presidenza degli Stati uniti negli anni 2001-2008 sembra così il degno coronamento e l’esito estremo di una lunga storia. Essa si rivela a questo punto, non solo religiosa, ma anche e soprattutto nazionalistica. Infatti (Gentile 2006/2008, p. 166):

Il nazionalismo moderno è una religione secolare che nasce dalla sacralizzazione della patria, e in suo nome consacra gli eventi, i luoghi e gli eroi, che costituiscono la sua «storia sacra». Forse nessun’altra nazione, come gli Stati Uniti, ha conferito carattere religioso alla propria identità collettiva, interpretando la propria storia come una continua epifania della provvidenza, attraverso il «destino manifesto» della nazione americana.

La religione è dunque un altro aspetto del nazionalismo americano, è indubbio. Eppure, dopo questo eccessivo ricorso ai concetti di religione e patria che con i neocons alla casa bianca ha toccato il suo apice, l’America è riuscita a cambiare altrettanto radicalmente e tutto sommato, come avviene nelle grandi democrazie, abbastanza in fretta. O almeno così sembra. È probabile infatti che il fenomeno del cambiamento sia da un lato molto radicale, come noi lo percepiamo, dall’altro più sfumato.

4. Barak Obama: in Hope We Trust

Cosa è successo con l’elezione di Obama è per ora materia dei giornalisti e dei sociologi. Noi ci proponevamo, come abbiamo detto in apertura, di indagare la natura e la forza del fenomeno religioso nella storia degli Stati Uniti. La natura di religione civile e nazionalistica è ormai chiara. La forza della religione emerge poi dalla pervasività del fenomeno religioso alle origini della repubblica, dall’uso perfino eccessivo fatto da Bush, ma anche non bisogna dimenticarlo, dall’interpretazione “democratica” della religione stessa cui prima si è fatto cenno.

Ad esempio di questa tendenza si possono citare alcuni casi eclatanti. È ancora Gentile a sottolineare la cifra spirituale ostentata da Carter come da Clinton, quest’ultimo fervente battista. Un reverendo come Jesse Jackson, paladino dei diritti civili degli afro-americani, è stato candidato alle primarie del suo partito, anche se non ha ottenuto l’investitura alla presidenza. E non possiamo dimenticare che Martin Luther King era un religioso, e che John F. Kennedy, primo presidente cattolico, si riferiva spesso a Dio nei suoi discorsi.

Che dire allora di Barak Obama limitatamente al suo rapporto con il fenomeno religioso? Anche lui non è sicuramente un laico nel senso europeo. Obama ha giocato nella sua partita alla conquista della Casa Bianca un elemento di grande novità strategica. Il senatore dell’Illinois è risultato vincente perché ha invertito il trend di un voto religioso troppo facilmente terreno di conquista della destra repubblicana. Nemmeno il fervore religioso di un Nixon, ben maggiore di quello di repubblicani moderatamente religiosi come Reagan e McCain avevo scosso l’orientamento filo-repubblicano della maggioranza dei credenti americani. Per riuscire in questo tipo di operazione, Obama si è presentato al paese come meno liberal di come gli elettori si aspettavano che un democratico dovesse essere. Ha assunto la pluralità delle fedi, cioè il lato eclettico della religione civile, come un elemento capace di ridare moralità a un paese in profonda crisi di valori, in questo facendosi fautore di una prospettiva da più parti definita post-secolare.

Al di là del calcolo elettorale, Obama ha fatto molto di più. Chi lo ha sentito parlare è rimasto quasi ipnotizzato non soltanto dai contenuti dei suoi discorsi, quanto dal suono, dal ritmo, dalla retorica delle sue parole. Gentile, richiamando Toqueville sottolinea come la religione civile proietti la vita della nazione nei secoli dei secoli, per trasporre la contingenza del presente in una storia trascendente ed eterna. Proprio la promessa della vita eterna è la categoria più straordinaria che tutte le dottrine politiche, totalitarie quanto pluraliste, abbiano mai saputo usare con garanzia di successo. Questo elemento è rappresentato dalla speranza del cambiamento.

La notte della sua elezione Barak Obama ha cominciato a ringraziare gli americani con queste parole: l’America è il solo paese dove sarebbe potuto avvenire un cambiamento così radicale come quello rappresentato dall’elezione alla presidenza del figlio di un immigrato keniota. Per tutta la campagna elettorale non era risuonato che uno slogan: change. Interpretata attraverso le categorie delle scienze sociali, la religione è solo un altro nome della speranza. E proprio questo è il motivo per cui essa ha molto a che fare con la politica.


Riferimenti bibliografici

Bedeschi G. (2008), Liberismo vero e falso, Le Lettere, Firenze.

Gentile E. (2001/2007), Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari.

-(2006/2008), La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Laterza, Roma-Bari.

Lakoff G. (2006), Whose Liberty? The Battle Over America’s Most Important Idea, Macmillan, NY, trad. it. La libertà di chi?, Codice, Torino 2008

Rousseau J.J. (1756), “Lettera a Voltaire”, in J.J.Rousseau, Opere, Sansoni, Firenze 1972

-(1762) Il Contratto sociale, in J.J.Rousseau, Opere, cit.

De Tocqueville A. (1830), La democrazia in America, Rizzoli, Milano 1999.

Note

1) «Al cristianesimo, che ha reso tutti uguali di fronte a Dio, non ripugnerà vedere tutti i cittadini eguali di fronte alla legge» (Toqueville 1835, p. 26).

2) «Gli emigranti, o come essi stessi si chiamavano, i pellegrini (pilgrims), appartenevano a quella setta inglese che, per l’austerità dei suoi principi, era chiamata puritana. Il puritanesimo non è soltanto una dottrina religiosa, ma si confonde anche in molti punti con le teorie democratiche e repubblicane più assolute. Per questa ragione esso il puritanesimo aveva avversari pericolosissimi. Perseguitati dal governo della madrepatria, feriti nel rigore dei loro principi dall’andamento quotidiano della società in cui vivevano, i puritani cercavano una terra barbara e abbandonata in cui fosse ancora permesso di vivere a loro modo e di pregare Dio liberamente.» (Ivi, p. 45).

3) Questo evento ha rappresentato un vero e proprio trauma nella psicologia collettiva degli americani, una sorta di terremoto di Lisbona dei nostri tempi. Proprio come allora, quando nel 1756 la capitale dell’ impero portoghese fu distrutta, molte voci si sono levate a chiedere dove fosse Dio. Secondo alcuni una tragedia simile rappresenta la prova dell’abbandono di Dio, o del suo castigo, secondo altri (Voltaire, per esempio, all’epoca del terremoto) la conferma che il Dio leibniziano ordinatore dell’universo non esiste affatto. Al contrario, riproponendo una teodicea imperiale, l’11 settembre veniva letto da Bush come il segnale che l’America avrebbe dovuto stanare i terroristi dovunque essi fossero. Si veda ancora Gentile (2006/2008), in particolare i capitoli I e II.

4) Riprendo e adatto l’immagine da Lakoff, 2006.

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