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Di luoghi comuni, spesso ingannevoli, il mondo dei media è pieno; uno dei più diffusi riguarda il binomio giovani-lavoro. Negli ultimi tempi, dall’avvento della società post-covid, tra le affermazioni pronunciate, una delle più diffuse è: «i giovani non vogliono lavorare».

Sono molti gli imprenditori operanti nei diversi settori dell’economia che negli ultimi due anni hanno denunciato difficoltà di reclutamento di giovani lavoratori all’interno delle proprie attività.

Di fronte a tale difficoltà oggettiva, sarebbe opportuno chiedersi cosa viene offerto a questi giovani, quali garanzie, quali prospettive. Proposte di lavoro full-time con contratti da stagista; tirocini gratuiti o alla meglio con esigui rimborsi spese; proposte nella ristorazione con salari pari a 2/4 € all’ora; 12 ore giornaliere di lavoro a fronte di retribuzioni scarse. Queste sono solo alcune delle testimonianze raccolte tra i tanti giovani intervistati, chiamati a rispondere ad una provocazione che ormai li vede quotidianamente coinvolti.

Volendo aprire una parentesi in tema di qualità del lavoro, è possibile asserire che oggi, ad un secolo dallo sviluppo della cosiddetta “società di massa”, si tratta di qualcosa di costituzionalmente precario: morti sul lavoro, diseguaglianze, diritti violati, licenziamenti di massa via mail o via sms.

Di tutto questo, Karl Marx, nel XIX secolo era già consapevole.

Incentrando le sue indagini sull’essere umano nella concretezza dei suoi rapporti socioeconomici e riconoscendolo come vero soggetto della storia, si è posto come obiettivo anche quello di denunciare le condizioni di vita dei lavoratori al tempo dello sviluppo della seconda rivoluzione industriale.

I risultati di questa denuncia, preceduta da uno studio appassionato della materia economica e dei suoi meccanismi, sono teorizzati nei «Manoscritti economico – filosofici» del 1844 (pubblicati postumi nel 1882) e ne «Il Capitale»(composto tra il 1867 e il 1910).

In particolare, nei manoscritti egli affronta per la prima volta il tema della condizione operaia ed espone il suo concetto di alienazione, introducendo inoltre termini quali salario, proprietà privata e capitale.

Alienazione, in questo contesto, è un concetto chiave che indica l’estraniazione dell’operaio rispetto a ciò che è capace di produrre con il proprio lavoro, ma anche rispetto ai rapporti con gli altri lavoratori e alla sua stessa specie.

Nella denuncia della società del suo tempo, Marx afferma che l’alienazione è il risultato dell’organizzazione economico-sociale di stampo capitalista e auspica il superamento della proprietà privata attraverso l’affermazione della società comunista.

Ora, senza considerare cosa questo pensiero abbia generato nella storia, è interessante prendere atto di quanto a distanza di quasi due secoli l’eco di queste teorie possa essere così profondo da voler offrire delle risposte agli interrogativi del tempo presente.

Da allora, cosa è realmente cambiato? Allo sviluppo della società è seguita una crescita della qualità del lavoro? Una valorizzazione delle risorse umane? È vero che i giovani non vogliono lavorare oppure non sono più disposti a farlo sottostando a condizioni “alienanti”?

Sarebbe auspicabile da parte di tutti i soggetti economici ragionare sulle garanzie, le possibilità, gli orizzonti entro i quali si muove il mercato del lavoro, che rappresenta una componente fondamentale della società e della storia degli uomini. Per questo, è fondamentale concepire una innovata filosofia dell’economia, scevra da ideologismi, storture, anche orrori, del passato.

© Sintesi Dialettica – riproduzione riservata

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