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Il 10 ottobre 2022 viene trasmesso ai membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il rapporto di Ahmed Shaheed – Special Rapporteur on freedom and religion or belief – dal titolo «Popolazioni indigene e diritto di libertà di religione o di credenza». Nel dare conto della presenza, in oltre 90 paesi, dei popoli indigeni (quasi 500 milioni di persone con più di 4000 differenti idiomi), il rapporto avvia una riflessione su un tema spesso trascurato quando non volutamente ignorato: l’inadeguatezza e l’insufficienza della categoria giuridica libertà religiosa – così come elaborata (anche) dal diritto internazionale – per esprimere la spiritualità di tali popoli che può comprendersi solo se intesa come visione del mondo, cultura, stile di vita.

Termini non sempre sinonimi e non necessariamente legati al religioso, espressione tuttavia di quell’approccio olistico alla religiosità che può manifestarsi non solo con riti, in edifici di culto, per mediazione di sacerdoti, all’interno di un gruppo o di una istituzione riconosciuta dall’autorità statale, ma anche attraverso relazioni speciali con la natura – del cui equilibrio ogni individuo è sia garante che parte integrante – e con gli altri essere umani.

Significato della caccia e della pesca, conoscenza delle proprietà e cura delle piante, culto degli antenati, sacralità dei luoghi, valore della terra di origine e della tradizione orale, importanza della comunità e al suo interno della riconciliazione come modus vivendi di composizione dei conflitti: sono tutti elementi, quelli indicati, intrinseci alla spiritualità indigena (a cui per secoli si è negata ogni dignità giustificando teorie e politiche frutto non di una visione poliedrica, ma di un pensiero unico fondato sulle dicotomie superiore/inferiore, buono/cattivo) che Ahmed Shaheed invita a ripensare indirizzando a stati, organizzazioni internazionali, società civile, istituzioni religiose e politiche alcune raccomandazioni per un decisivo cambio di paradigma.

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