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Lo scorso 3 agosto, in piena canicola estiva, abbiamo assistito all’ennesima kermesse del «voto finale» di una riforma da sempre sospirata e mai fatta veramente, o sarebbe meglio dire mai veramente ben fatta.

All’indomani, i titoli delle principali testate italiane si somigliavano un po’ tutti e un po’ tutti parevano scritti dai ring announcer: «Caos in aula (sfiorata la rissa). Primo sì alla Riforma Cartabia». Sarà che ultimamente, come amano dire i giovanotti, siamo nel mood (a Roma direbbero aridaje!), ma il nostro primo pensiero è andato alla mensola ove dormicchia, ormai non più indisturbata, la vecchia copia dei Promessi Sposi. Cosa ci possiamo fare se questo è il nostro romanzo, il romanzo degli italiani, come lo è il Don Chisciotte per gli spagnoli, il Martín Fierro per gli argentini ed il Faust per i tedeschi. Tutte le riflessioni sulle colorite manifestazioni dell’italianità che un modesto autore può mettere insieme oggi, domani e dopodomani hanno già il brevetto depositato nei Promessi Sposi, non vi illudete.

Ebbene, ricordate il capitolo V, quello in cui padre Cristoforo, fortissimo nel suo sentimento di giustizia, sale «al palazzotto» per far stare a dovere don Rodrigo? Il povero cappuccino, ci dice il Manzoni, aveva lo «scilinguagnolo bene sciolto» e motivato a convincere il prepotente podestà a lasciare in pace gli sposini promessi, quando si ritrova nel bel mezzo d’un volgare banchetto, al quale siedono anche il conte Attilio e lo stesso Azzeccagarbugli, il quale era stato bellamente disponibile a difendere Renzo a patto che non fosse innocente. Il frastuono è tale ed il bagordo è tale che il padre non ha più il coraggio d’aprire bocca. Dinanzi alla trivialità, alla villania, alla futilità, quel suo proverbiale coraggio, solido persino dinanzi alla ferocia più grande, è venuto meno. Avrà pensato in cuor suo che non fosse il caso di dare ai porci le perle del suo Evangelo o si sarà ricordato di quel bel passo del Qoèlet, laddove si dice che «tutte le parole si stancano e l’uomo smette di saper parlare». Proprio così. È questa la reazione che l’uomo giusto, convinto fino al midollo della necessità d’una riforma, ha dinanzi alla mischia, alla zuffa in cui puntualmente si tramuta il dibattito pubblico quando discute o si vota in materia di Giustizia. La discussione è sempre così parziale, così radicalizzata  negli estremi dell’impunità o del giustizialismo, così impiastricciata d’interessi elettorali o di escamotage da avvocato-legislatore (quest’ultima è una maschera italiana riconoscibilissima ed eterna: il difensore che va a far valere le ragioni del cliente in Parlamento, dove si possono cambiare le regole del gioco a vantaggio suo), che il povero giusto non può che tacere e sperare, a malincuore, che tutto rimanga difettoso com’è, purché non sia fatto ancor peggio. È il gattopardo, che si vuole sempre identico, perché la pelle che viene sembra sempre più vecchia e più sozza e più disfunzionale di quella che se ne va.

Nel succitato capitolo dei Promessi Sposi, non si banchetta soltanto, tra sottocoppe, calici e polli arrosto, «si discute di giustizia», o meglio si discute di «forme legalitarie», che è cosa ben’altra dalla Giustizia: si difende la soverchieria, il punto d’onore, il diritto della forza, le bastonate o le futili questioni di galateo cavalleresco. In questo indefinito ed oscuro bla, bla, bla di diritto mangereccio, solo una cosa emerge chiara e distinta al povero frate: un’enorme, sconfinata vacuità morale, in cui il doppio gioco fra etica ed utile passa per una sapienza antica e sempre nuova.

Sappiamo che chi legge è alla ricerca di una soluzione, e non dell’ennesimo predicozzo, ma la soluzione di Giustizia, per ora, dove la possiamo trovare? Non certo dove se ne discute nel nostro tempo, vale a dire nei talk show o negli auditori parlamentari. La soluzione oggi come oggi non può che essere un silenzio pieno di dignità e contegno. Il silenzio di padre Cristoforo, che si protrae in questo V capitolo sino al termine di quella gazzarra, nella quale, ci dice il Manzoni, le parole che si udivano più sonore erano «ambrosia!» ed «impiccarli!». Giustizialismo e impunità. Non potremo parlare fino a quando la sanguigna brigata non avrà abbassata la voce. Ce ne staremo come fra Cristoforo, «lì, fermi, senza dar segno d’impazienza, né di fretta; ma in aria di non andarcene, prima d’esser stati ascoltati».

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