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Nel 1945 Paese era in ginocchio: fra la fine degli Anni Trenta e la guerra la produzione industriale era crollata di quasi un terzo, quella alimentare si era dimezzata e la crisi acuiva i conflitti sociali.

La Costituzione e il sociale, dal Dopoguerra alla fine del Centrismo

Nel 1945 Paese era in ginocchio: fra la fine degli Anni Trenta e la guerra la produzione industriale era crollata di quasi un terzo, quella alimentare si era dimezzata e la crisi acuiva i conflitti sociali.

I partiti costituitisi nel Comitato di Liberazione Nazionale pensavano ad un nuovo Stato, repubblicano, ispirato ai principi di democrazia, libertà e solidarietà, attraverso il rafforzamento del ruolo dei lavoratori nella vita politica. Ponendosi come intermediari sociali, facilitarono la composizione di interessi contrastanti e di ideologie di riferimento molto diverse, liberale, cattolica, socialista e comunista: a giugno fu costituito il governo di coalizione guidato da Ferruccio Parri, l’anno dopo si tenne il referendum e l’elezione dell’Assemblea Costituente, col voto per la prima volta delle donne. Elemento unificante fra le diverse culture politiche fino al 1947 fu l’antifascismo: ricostruire istituzioni politiche che impedissero il predominio di una sola classe favorendo il pluralismo sociale e politico, garantire l’esercizio di una democrazia espressione della gran massa di popolazione esclusa fino ad allora.

Da dicembre del ’45 ad agosto 1953 fu ininterrottamente Presidente del Consiglio De Gasperi. Nel 1948 si arrivava al  varo della Costituzione , dopo otto mesi di dibattito. Tale ispirazione unitaria si tradusse in particolare negli art. 2 e 3 della Costituzione , che usano più volte l’aggettivo “sociale”:

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art.2)

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art.3)

Considerata la composizione dell’Assemblea e le problematiche del momento storico, non fu possibile che essa svolgesse una funzione legislativa, al di là della formulazione della Carta Costituzionale, e ciò evitò l’introduzione immediata di riforme sociali radicali, che sarebbero state necessarie ma che forse il blocco sociale dominante non era pronto ad accettare: queste vennero costruite poi nell’arco di un trentennio.

Il testo della Costituzione tuttavia dette ampio spazio alle tematiche sociali, modificando la filosofia della legislazione sociale precedente: la beneficenza privata e religiosa non sarebbe stata più lo strumento esclusivo per combattere la malattia e la miseria e, sulla scia di quanto teorizzato dal liberale inglese Beveridge nel 1942, avveniva la fondazione programmatica dell’assistenza per tutti i cittadini da parte dello Stato:

Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale” (art. 38)

La Costituzione considera l’assistenza sociale per chi non è in condizioni di lavorare un diritto, non più una erogazione liberale delle organizzazioni benefiche riconosciute dallo Stato, come prevedeva la legge Crispi di fine Ottocento, vigente lo Statuto Albertino.

Così anche la salute (non solo l’assistenza in malattia) diventa

“fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” , per cui  lo Stato  “garantisce cure gratuite agli indigenti“ (art. 32).

Questo articolo porrà le basi per l’attuazione del diritto alla salute, trent’anni dopo, inteso non solo come diritto alle cure, ma anche come prevenzione e riabilitazione: la riforma sanitaria (legge 833 del ’78) sarà resa possibile dopo il varo delle le Regioni avvenuto nel 1975 (col DPR 616\’77 poi verranno loro attribuite una serie di funzioni amministrative decentrate).

La Repubblica, inoltre, grazie alla nuova Costituzione avrebbe agevolato

 “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo” (art.31).

Questo avrebbe voluto dire la conferma di Enti Nazionali già esistenti, come l’ONMI e le varie IPAB, ma anche resi possibili una serie di altri interventi promossi anni più tardi in servizi diffusi sul territorio a livello locale, come i Consultori (1975).

Con l’articolo 30 della Costituzione , che sancisce come

“La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale…”

si completano le basi giuridiche dei cambiamenti nell’ambito dell’assistenza e del sostegno alla famiglia che troveranno il loro compimento nelle riforme degli Anni Settanta.

Il concetto di sociale che quindi emerge dalla Costituzione è quello di una dimensione orizzontale e paritaria rispetto alla dimensione politica ed economica, che interagisce con le condizioni personali del cittadino. Si rifà quindi ai concetti moderni della sociologia, per cui i sottosistemi si integrano a diversi livelli di complessità e funzionalità.

La solidarietà politica, economica e sociale diventa “dovere inderogabile” della Repubblica e lo Stato si impegna a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”, che impediscono lo sviluppo della persona e la sua partecipazione alla vita sociale.

La parola “sociale” nella Costituzione è talmente importante che essa è parte di un Titolo, il secondo (Rapporti etico-sociali). Inoltre viene usata ventitre volte complessive nella Carta: si collega a necessità fondative diverse e in alcuni punti  il sociale è declinato indicando concretamente alcune sue forme, la famiglia, l’assistenza, la cooperazione, e trova spazio anche quando si parla di proprietà privata “mitigata” (art. 41, 42 e 46).

In questo contesto costituzionale, in cui troveranno composizione equilibrata istanze ideologiche diverse, anche l’uso del termine “persona” risente della forte influenza che ha avuto nel Ventesimo secolo il Personalismo Filosofico (cattolico) di Mounier, Maritain, Rosmini e il termine si coniuga con quello di “cittadino” (l’Assemblea Costituente durante la Rivoluzione chiamò citoyens tutti i francesi, in sostituzione di mesdames e messieurs ) e quello di lavoratore (usato dai socialisti).

Questa cultura unitaria della ricostruzione, oltre a favorire il fiorire delle attività produttive e intellettuali  sostenne la crescita delle professioni del sociale funzionali al processo di ricostruzione del Paese: ad esempio l’UNRRA e l’AAI infatti favorirono la formazione delle assistenti sociali, finanziando in parte nuove scuole, rifondate su principi democratici, con orientamenti ispirati a modelli metodologici americani e molte diplomate trovarono impiego negli organismi di promozione, sviluppo e assistenza, istituiti proprio per la ricostruzione.

All’indomani della proclamazione della Costituzione i partiti s’impegnarono in un’accanita campagna elettorale per le elezioni del 18 aprile ’48: ne scaturì una formula di governo chiamata Centrismo, basata cioè sull’egemonia della DC, come partito di maggioranza (48,5%)  alleato a liberali, socialdemocratici, repubblicani: escludeva quindi la sinistra, che era contraria all’ingresso dell’Italia nel Patto Atlantico, condizione per l’erogazione degli aiuti previsti dal piano Marshall.

Gli anni maturi del Centrismo furono caratterizzati dal miracolo economico (1958-63), che cambiò profondamente l’Italia: l’industrializzazione si produsse soprattutto al Nord, che era inserito nell’economia internazionale, grazie allo sviluppo delle grandi aziende capitalistiche meccanizzate; flussi migratori dal Mezzogiorno spopolarono i centri rurali, lacerando le comunità tradizionali;si indeboliva fino a sparire nelle città settentrionali il modello autoritario della famiglia patriarcale; la televisione distribuiva modelli di comportamento nuovi all’interno della borghesia e anche della classe operaia.

Il Sud era ancora legato ad un’economia rurale di sussistenza: la Costituzioneprevedeva di “ conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equirapportisociali…”

 “…….. la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ri costituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà.” (art.44)

Si tentò quindi negli Anni Cinquanta una riforma agraria, che redistribuì il 30% delle terre ai contadini, spezzettando il latifondo: tale frammentazione non favorì tuttavia la nascita di un’azienda agraria moderna, soprattutto al centro-sud. Da sinistra gli interventi di riforma iniziati nel 1952 (Sila) e continuati negli anni seguenti vennero criticati aspramente, anche perché miravano ad erodere il consenso che il PCI aveva iniziato a ottenere fra i braccianti.

Comunque la terra che non era in grado di dare un futuro alle nuove generazioni e il fascino che aveva la città su di esse, favorirono la migrazione interna: si crearono problemi di integrazione sociale, disadattamento, devianza e povertà. Si accentuarono gli squilibri fra nord e sud, fra città e campagna, tra zone industriali e zone depresse. Il sistema politico non promosse subito le riforme di welfare-state necessarie per far fronte ai problemi umani , familiari e sociali generati dal rapido sviluppo economico e dall’arretratezza ereditata in alcune aree del paese.

Questi problemi venivano quindi scaricati nel sistema assistenziale: molti cittadini erano senza assistenza in quanto questa era prestata da enti previa dimostrazione del possesso di specifici requisiti di categoria. Le competenze assistenziali  venivano erogate da vari ministeri non coordinati fra loro. Senza contributi non si aveva l’assistenza sanitaria e gli enti mutualistici intervenivano solo dopo l’insorgenza della malattia, rimborsando le spese (assistenza indiretta). Le IPAB e le iniziative private caritatevoli si erano di nuovo moltiplicate, per far fronte all’insorgere degli emergenti problemi economici e sociali.

I principi sociali della Costituzione sembrano in quel periodo tenuti in disparte e si continuano ad utilizzare i vecchi strumenti dell’assistenza sociale e sanitaria prebellica.

Il periodo delle riforme sociali per l’attuazione dei diritti costituzionali

Bisognerà attendere l’esperienza politica degli anni successivi al boom economico, perché inizi una stagione di modernizzazione della legislazione sociale, nel senso di quanto sancito dalla Costituzione .

 Nel 1960 Moro propone un’apertura politica ai socialisti, che nel febbraio 1962 danno il loro appoggio esterno al governo. Nel 1963 i socialisti entreranno con propri ministri nel governo: seguirà la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la luce entrerà progressivamente in tutte le case (e con essa la televisione); verrà varata la scuola dell’obbligo, creati i centri medico-psico-pedagogici e abrogate le classi differenziali; sarà prevista la giusta-causa per i licenziamenti e istituita la pensione sociale; sarà possibile l’adozione speciale; la riforma ospedaliera costituirà un primo passo verso la razionalizzazione del sistema sanitario e la creazione di una rete statale di cura.

Il dibattito sui diritti  (lavoro, casa, salute, istruzione, assistenza) avrà il suo apice tra la fine degli Anni Sessanta e la metà degli Anni Settanta, con i Movimenti degli studenti, degli operai e delle donne: la scuola, il voto, la partecipazione politica e culturale si erano estesi a questi soggetti sociali, erano diventati “di massa”, senza che le legittime esigenze di questi gruppi fossero però soddisfatte, rimanendo sostanzialmente immutato il quadro sociale del Paese.

Nel 1970 nasce lo Statuto dei lavoratori e le prime donne accedono in Magistratura (malgrado la legge fosse del 1960). Viene da più parti dell’area di centro e di sinistra la proposta di riformare l’intero sistema sanitario ed assistenziale, attraverso la costruzione di servizi sul territorio per tutti i cittadini, che avrebbero dovuto sostituire le miriadi di enti di assistenza, previdenza e beneficenza esistenti, ormai fallimentari anche economicamente.

 L’anno dopo vedono la luce le norme che individuano gli ultimi invalidi non compresi fino ad allora nelle categorie assistite: gli “invalidi civili”, che godranno della relativa pensione minima senza bisogno di versamenti contributivi, sulla base di una certificazione medico legale redatta da un’apposita commissione specialistica. Purtroppo tale investimento di civiltà (come è avvenuto per tanti altre buone leggi italiane) diverrà l’ennesimo excamotage per sostenere i redditi e i consumi nelle aree depresse del Paese (quindi senza reale produzione e sviluppo), alimentando contemporaneamente un ceto politico clientelare.

Riguardo alla famiglia la Costituzione aveva assunto un atteggiamento teso a rendere compatibili la cultura laica e quella cattolica dei suoi fondatori:

Art. 29. La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.

Art. 30. È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità.

Art. 31. La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.

 La legislazione degli Anni Settanta sarà fortemente innovativa in questo campo: del 1970 è la legge sul divorzio -cui seguirà quattro anni dopo il referendum popolare che segnerà uno spartiacque nella cultura del paese- del 1971 le norme sull’astensione obbligatoria in maternità e la legge sugli asili nido; del 1975 la riforma del diritto di famiglia, che sancisce parità fra coniugi, tutela la vedova e i figli, istituisce la comunione dei beni; così anche dello stesso anno sono lo scioglimento dell’ONMI e la nascita dei Consultori familiari.

Dopo la crisi OPEC del 1973 inflazione e disoccupazione galoppavano e con la congiuntura sfavorevole si faceva strada di nuovo la necessità di uno sforzo unitario del Paese, fra richiami in tutta Europa all’Austerity. Nel 1972 era iniziato il terrorismo di matrice marxista e nel 1969 c’era stata la prima strage della “ strategia della tensione” di matrice di destra, con il coinvolgimento di corpi deviati dello Stato.

In questo quadro di turbolenza sistemica si era inserito il progetto di Moro di far partecipare il PCI (che aveva aumentato i suoi consensi elettorali) all’area governativa, per giungere ad un mutamento democratico senza però far perdere alla DC la propria centralità, come era avvenuto con l’esperienza del Centro-sinistra. Questo progetto trovava convergenza nelle posizioni del segretario del PCI, Berlinguer, che da tempo, nell’ottica di un allargamento alle masse della base di governo (di concezione gramsciana), propugnava l’idea del “compromesso storico”.

Condizione di ciò era per Berlinguer la creazione di un terreno comune di valori, che significativamente verrà costruito in quegli anni proprio nel campo della legislazione socio-sanitaria e della lotta al terrorismo, insieme alle forze laiche e soprattutto cattoliche.

Nel 1975 nascono le Regioni e molte avranno alle prime elezioni un governo di sinistra (PCI-PSI). Dopo le elezioni del ‘76 a Roma ci sarà il primo Consiglio Comunale di sinistra (PCI-PSI e al.) e la nascita del decentramento amministrativo. A livello nazionale viene varata nel 1975 la Riforma Carceraria. Nel 1977 si registra un nuovo attivismo del movimento studentesco nelle università.

Si prepara così nel marzo del 1978 un governo Andreotti di “solidarietà nazionale”, cui il PCI avrebbe fornito il suo appoggio esterno. La mattina del 16 marzo, giorno previsto per la presentazione parlamentare Moro fu rapito dalle Brigate Rosse.

Il 9 maggio 1978 Moro viene ucciso, il 22 maggio è varata la legge 194 sull’ interruzione volontaria della gravidanza e il 13 maggio la legge 180 ( abolizione dei manicomi,  costruzione di servizi territoriali di igiene mentale, trattamento sanitario obbligatorio secondo regole restrittive ) in linea con il c. 2 dell’art.32 della Costituzione :

“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

 Nel dicembre di quell’anno ci sarà ultima radicale riforma sociale, frutto della stagione della solidarietà nazionale: viene varata la Riforma Sanitaria (in discussione dal primo dopoguerra), che estende le prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione a tutti i cittadini, creando servizi territoriali diffusi e potenzialmente omogenei su tutto il territorio nazionale.

Dopo il 1978 non vi saranno nuove riforme radicali nel campo del sociale e della famiglia: si applicheranno quelle varate in precedenza, con alterne vicende e critiche dall’interno delle stesse forze di governo.

Il Pentapartito, la crisi del partitismo  e  il nuovo welfare

Nel giugno 1979 avviene il netto calo elettorale del PCI e le elezioni sanciscono il successo del Partito Liberale. Venuto anche a mancare Moro, la DC promuove la nascita del Pentapartito, che durerà dall’1980 al 1992, con ripetuti governi di coalizione con le forze laiche del Parlamento.

Il terrorismo di varia matrice, malgrado qualche altro efferato attentato BR si protenda negli Anni Ottanta, di fatto terminerà di influenzare la vita politica del Paese dal 1982  (P.zza Bologna agosto 1980, liberazione generale Dozier gennaio1982).

Negli Anni Ottanta si tenta di tenere sotto controllo l’inflazione agendo sul costo del lavoro (referendum sulla scala mobile- 1984), per cui si contrarranno da un lato le capacità d’acquisto dei lavoratori, dall’altro si svilupperà il “partitismo”, con la crescita di una diffusa classe politica negli organismi decentrati dell’amministrazione pubblica, con un indotto clientelare eccezionale, che creerà reddito a scapito del debito pubblico, che sforerà ogni limite e avrà come effetto collaterale il calo della partecipazione politica fondata sulle idee, i programmi, le sedi di partito locali.

 A questo sistema, caduto il Muro di Berlino nel 1989, negli Anni Novanta verrà a mancare il presupposto fondamentale che lo sosteneva, il fattore K, come lo definì Ronchey negli Anni Settanta. La Lega sfonderà a Nord e, cadendo le collusioni consolidate fra aziende e politici, l’intervento della magistratura sarà dilagante: Tangentopoli spazzerà via i partiti storici nati dalla Resistenza. E’ la crisi del Partitismo: che toccherà il suo culmine nelle elezioni ‘94, vinte da un non-partito quale era Forza Italia all’inizio.

Negli Anni Ottanta intanto erano nati problemi sociali nuovi, cui il welfare – state appena nato non era già in grado di rispondere, per cui la Chiesa e le organizzazioni umanitarie riacquisteranno un ruolo di protagonisti nel fronteggiare i bisogni sociali emergenti: gli Enti Locali nati dal decentramento cominceranno a convenzionarsi con queste organizzazioni  per le questioni più urgenti e preoccupanti anche dal punto di vista dell’allarme sociale.

Andava trovata una soluzione che mettesse insieme la necessità di tamponare i problemi scaturiti dalla nuova società post-guerra fredda e l’urgenza da parte delle forze politiche di trovare nuove fonti di acquisizione di consenso politico, essendo morto il vecchio collateralismo, essendo vuote le sezioni di partito e stando sotto tiro dei magistrati i grandi enti pubblici, antichi assuntori di lavoratori-elettori.

Questa soluzione sarà trovata nelle organizzazioni no-profit e nelle cooperative di servizi sociali. La Costituzione all’art. 45 riconosce

“…la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.”

Partito negli Anni Ottanta con lo slogan “più privato, meno stato” nei servizi, negli Anni Novanta con la teoria del Welfare Mix si fa avanti il concetto di sussidiarietà anche nel campo dell’assistenza: si tratta di quel principio sociale e giuridico amministrativo che stabilisce che l’intervento degli organi dello Stato, sia nei confronti dei cittadini sia degli enti e suddivisioni amministrative ad esso sottostanti, debba essere attuato esclusivamente come subsidium (aiuto), nel caso in cui il cittadino o l’entità sottostante sia impossibilitata ad agire per conto proprio. Lo Stato non deve sovrapporsi alle espressioni della società, ma sostenerle e intervenire in assenza di iniziative dal basso.

Un’occasione storica, questa nuova convergenza fra pensiero laico e cattolico per sostenere e promuovere una miriade di cooperative sociali, organizzazioni no-profit e di volontariato. L’associazione senza finalità di lucro è la nuova forma che prendono nellasocietà urbana moderna interessi sociali che vanno oltre i meri intenti economici e aggregano le persone secondo le loro tensioni morali, le scelte di valore, gli orientamenti culturali, le disponibilità del tempo libero, ecc. : se il partito chiama, pochi si mobilitano; se le associazioni chiamano, mobilitano anche i partiti. Le cose sono cambiate, da quando la Costituzione aveva preso forma.

Le organizzazioni no-profit e le cooperative di servizi, in presenza di una progressiva riduzione degli addetti all’assistenza sociale e sanitaria negli enti locali (confermata da molte finanziarie degli ultimi quindici anni) offriranno anche risposta a tanti problemi nuovi del paese, dalla tossicodipendenza agli immigrati, dai senza fissa dimora alla salute mentale, ecc., dando lavoro nel contempo a giovani diplomati e laureati, in forte aumento nelle professioni sociali, destinati alla disoccupazione: quel lavoro che lo Stato una volta offriva direttamente col posto pubblico, spesso in cambio del voto e che oggi non può più dare. Si faranno anche portatrici di una nuova cultura della solidarietà e del sociale che non vuole essere assistenzialismo e beneficenza, ma non sempre ci riescono.

Alla fine degli Anni Novanta le cooperative di servizi sociali e sanitari cominceranno anche a rispondere ai problemi vecchi, sostituendo il personale in quiescenza: da anni viene confermato il blocco delle assunzioni salvo deroghe nella P.A., il personale di cooperativa è più gestibile come forza lavoro, costa meno, più rapidamente può essere messo in campo ad affrontare i problemi, non è sindacalizzato.

La riforma del Titolo V (2001), prevedendo che lo Stato mantengapotestà esclusiva in fatto di legislazione sociale solo in tema d’immigrazione, previdenza sociale e “determinazione delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, potenzia l’ orientamento decentralista/sussidiario dell’art. 118 della Costituzione . Si  completa così il processo di modificazione del sistema di sicurezza sociale italiano, promosso l’anno prima con la tanto attesa riforma socio-assistenziale (DPR 328/2000):

“Stato, Regioni, Città Metropolitane,Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività d’interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà (art. 4 legge cost. n°3/2001)

Seicentotrentamila persone (fonte ISTAT) sono socie o dipendenti\collaboratrici di organizzazioni no-profit in gran parte dedite a risolvere problemi sociali (tra cui le cooperative di servizi sociosanitari). Più di tre milioni di italiani prestano opera di volontariato in vari settori della vita civile, a fronte di complessivi tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici, di cui solo una piccola parte lavorano nel settore socio-assistenziale (gli assistenti sociali sono 30.000, gli psicologi 50.000, gli educatori e i sociologi dipendenti pubblici sempre solo alcune migliaia).

Nate spontaneamente dalla società civile, le organizzazioni del cosiddetto Terzo Settore oggi sono sempre più dipendenti dai finanziamenti degli enti locali e hanno bisogno quindi di essere in buoni rapporti con gli uomini dei partiti, in un sistema decentrato di gestione e partecipazione sociale, cui la politica a sua volta fa riferimento per attirare consenso elettorale.

Il rischio è che il sistema di sicurezza sociale, sebbene coordinato dall’ amministrazione pubblica e dai suoi pochi tecnici, possa crescere in modo a sua volta autoreferenziale, approfittando del fatto che i politici dipendono per il loro consenso in parte dalle organizzazioni del Terzo Settore.

Il risultato sarebbe un ritorno ad un sistema frammentato, fondato sul lavoro precario qualificato di giovani-adulti, con gli stessi rischi di collasso cui l’Italia assistette negli Anni Settanta, quando il personale degli Enti Inutili e di quelli Mutualistici fallimentari venne assorbito dai neonati Enti Locali, con alti costi per il contribuente ma con un ampio consenso politico-elettorale nel Paese.

Un sistema di sicurezza sociale basato sulla sola alleanza fra politici e organizzazioni del privato sociale forse rischia anche di far tornare la sicurezza sociale dei cittadini una questione residuale non integrata col livello economico e della produzione del Paese, come la Costituzione prefigurava e come dovrebbe essere. Ritornerebbe in auge una versione moderna del modello-Crispi, che non è accettabile nemmeno dai moderni liberali, dopo Beveridge.

Forse serve un nuovo patto per il sociale, in cui la politica affronti unitariamente, con nuovo protagonismo, senza deleghe e senza ritorni al passato (nemmeno a quello cui ciascuno può sentirsi più vicino), le nuove sfide sociali che sono nel Paese. Ripartire dalla Costituzione sarà utile.

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