Il Sahara Occidentale alla maggior parte dell’opinione pubblica internazionale (quasi tutta), richiama solamente le coordinate geografiche di una regione africana; ma in realtà nasconde una delle crisi politiche, sociali e umanitarie più gravi degli ultimi decenni. Le vicende legate allo sciopero della fame dell’attivista sahara wi Aminetu Haidar, che ha portato al suo rientro in patria (occupata dal Marocco) ha aperto un piccolo spiraglio sul dramma di questo popolo. L’esasperazione dei giovani sahara wi sta assumendo dimensioni preoccupanti – come ha dimostrato il drammatico epilogo della marcia contro il «muro della vergogna» dell’aprile 2009. La tentazione di cedere della violenza è sempre più forte. E al-Qaeda non è lontana.
Il titolo di questo saggio non fa riferimento al silenzio romantico e romanzesco con cui noi occidentali siamo abituati a guardare al deserto, quanto piuttosto al silenzio che circonda la crisi del Sahara Occidentale e del suo popolo, i saharawi, in gran parte costretti a vivere al di fuori dei confini del proprio Paese.
Si è soliti inserire quella del Sahara Occidentale tra le cosiddette “crisi dimenticate”. Nella fattispecie il termine è improprio, in quanto una crisi, per essere dimenticata, deve essere prima conosciuta, e poi, in buona o in mala fede, accantonata nel dimenticatoio, a seconda degli interessi che i Paesi occidentali hanno nella regione coinvolta dalla crisi. Nel caso del Sahara Occidentale sarebbe più opportuno parlare invece di “crisi ignorata”, in quanto la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica mondiale (per non dire la quasi totalità), nonché alcuni sedicenti “addetti ai lavori”, ignorano totalmente l’esistenza della crisi e dei suoi protagonisti. Se si chiede ad una persona anche culturalmente preparata cosa sia il Sahara Occidentale, molto probabilmente ci si sente rispondere che è la parte occidentale del Sahara , a cui si contrappone evidentemente una parte orientale, settentrionale e meridionale.
Vediamo allora di fare un po’ di chiarezza sulle “coordinate” della crisi che stiamo trattando.
Il Sahara Occidentale è un Paese che affaccia sulle coste atlantiche dell’Africa nord-occidentale (Maghreb). Non è uno “scatolone di sabbia”, come il nome potrebbe suggerire, ma un Paese che, soprattutto nella fascia centrale e costiera, presenta zone fertili e ricche di risorse minerarie, e per questo occupato dal ’75 dalle forze armate e dai coloni del Marocco, che hanno provveduto, negli anni ’80, a difenderle con l’edificazione di un muro.
I protagonisti, gli attori di questa crisi sono: da una parte il Marocco, con la sua monarchia (Mohammed VI, alawidi, vantano una discendenza diretta dal profeta), il suo governo, le sue forze armate e i suoi coloni, di cui non parleremo – se non per quanto attiene il nostro argomento – perché ampiamente conosciuto in ambito internazionale; dall’altra i sahara wi, i legittimi abitanti del Sahara Occidentale
I sahara wi (letteralmente “popolo del Sahara ”) sono una popolazione che discende dall’unione di popolazioni yemenite, i Maqil, che nel XIII sec. raggiunsero il Maghreb, mescolandosi con le locali popolazioni berbere (in particolare il gruppo dei Sanhaja), e con alcuni gruppi dell’Africa nera, sub-sahariana. Si tratta di una popolazione tradizionalmente nomade che pratica la pastorizia (cammelli e capre), di religione islamica, ramo sunnita, moderata e tollerante, come nella tradizione dei nomadi del deserto. Parlano un dialetto, l’Hassaniyya, molto vicino all’arabo classico – dopo la colonizzazione, anche lo spagnolo. Dal 1975 vivono separati a seguito dell’occupazione marocchina del Sahara Occidentale: una parte nel territorio occupato (380.000 circa), e una parte nei campi profughi nel sud-ovest dell’Algeria, vicino Tindouf (165.000-250.000).
La materia del contendere è rappresentata dalla rivendicazione del popolo sahara wi di riappropriarsi del suo territorio, il Sahara Occidentale, invaso dal ’75 dal Marocco, all’indomani del ritiro della Spagna, sotto la cui occupazione coloniale il Paese fino ad allora si trovava.
Converrà accennare, sia pur brevemente, alla recente storia del Paese, per comprendere meglio la situazione attuale, le sue premesse e i suoi possibili sviluppi.
1884, la Spagna occupa la fascia costiera del Sahara Occidentale. L’anno successivo, la Conferenza di Berlino, che sancisce la spartizione del continente africano da parte delle potenze europee, ratifica la colonizzazione spagnola del Sahara Occidentale.
1956, il Marocco diventa indipendente e, nell’ottica di realizzare un “grande Marocco”, rivendica i territori del Sahara Occidentale sotto controllo spagnolo.
1957-58, un movimento contro l’occupazione coloniale viene represso dalle forze congiunte franco-spagnole. Vengono scoperti, a Bou Craa, ingenti giacimenti di fosfati, con conseguente incremento degli interessi e degli appetiti economici nella regione.
1960 (anno dell’Africa), anche la Mauritania proclama l’indipendenza e avanza pretese sul Sahara Occidentale.
1963, guerra delle Sabbie tra Marocco e Algeria, in quanto il Marocco intenderebbe estendere i suoi confini a Est, a spese di quest’ultima, che nel ’62 ha ottenuto l’indipendenza.
1965 (16 dic.), una data che segna uno spartiacque: l’Assemblea Generale dell’ONU emana una risoluzione in virtù della quale si chiede alla Spagna di avviare un processo di decolonizzazione, facendo esplicitamente riferimento al diritto di auto-determinazione del popolo sahara wi. È la prima di una lunga serie.
1968, a Smara, il giornalista sahara wi Mohamed Basiri fonda il Movimento di Liberazione del Sahara (MLS).
1970 (17 giugno), una manifestazione pacifica dei sahara wi nel quartiere di Zemla, a el Ayoun, viene repressa nel sangue dal Tercio spagnolo. L’evento, che rimarrà nella storia del popolo sahara wi, sarà chiamato Intifada di Zemla; nell’occasione, Basiri viene sequestrato dai servizi segreti spagnoli, e da quel giorno non se ne saprà più nulla (a tutt’oggi idesaparecidos ammontano a 521 civili e 180 militari).
1972 (giugno), vertice di Rabat dell’Organizzazione per l’Unione Africana; Marocco e Mauritania si accordano segretamente per spartirsi il territorio e le risorse del SaharaOccidentale, una volta andati via gli spagnoli.
1973 (10 maggio), nasce il Fronte Popolare per la Liberazione del Saguia el Hamra e Rio de Oro (POLISARIO), vero protagonista delle successive vicende del popolo sahara wi.
1974, la Spagna annuncia all’ONU la volontà di indire un “referendum” (che sarà il vero “convitato di pietra” della storia sahara wi fino ad oggi, perché ancora non si è svolto) tramite il quale i sahara wi possano decidere del loro futuro politico. Il censimento effettuato dagli spagnoli prevede che siano 74.000 i sahara wi aventi diritto al voto. I vertici militari marocchini, accarezzando ancora il sogno del “grande Marocco”, caldeggiano una invasione del territorio.
1975 (maggio), la commissione dell’ONU per il Sahara Occidentale riconosce definitivamente il diritto dei saharawi all’auto-determinazione e il diritto del POLISARIO a rappresentarli.
….22 maggio, la Spagna dichiara di voler dar corso al processo di decolonizzazione e abbandonare il Sahara Occidentale.
….6 novembre, Hassan II dà il via alla cosiddetta “marcia verde”, con cui 350.000 coloni marocchini entrano nel Sahara Occidentale (preceduti da 25.000 militari). ….14 novembre, con gli accordi segreti di Madrid, la Spagna concede che Marocco e Mauritania si spartiscano di comune accordo il territorio del Sahara Occidentale (Nord e Centro al Marocco, Sud alla Mauritania), in cambio di cospicue concessioni economiche (35% delle risorse). Il 20 muore Francisco Franco.
….dicembre, inizia la pulizia etnica del territorio da parte dell’esercito marocchino.
1976 gennaio, l’aviazione marocchina, per “velocizzare” le “operazioni di sgombero”, bombarda con napalm e fosforo bianco i profughi sahara wi (con migliaia di morti) che nel mese di aprile troveranno la loro sistemazione nei campi a Sud di Tindouf, in Algeria.
….26 febbraio, la Spagna completa il ritiro dal Sahara Occidentale. Nel frattempo la Mauritania ha sferrato un attacco da Sud per occupare la parte meridionale del Paese (in definitiva, gli spagnoli sono rimasti quel tanto che bastava per garantire l’applicazione degli accordi di Madrid).
….27 febbraio, data storica, a Bir Lahlou, il POLISARIO proclama la nascita della Repubblica Araba Sahara wi Democratica (RASD), una repubblica in esilio.
….agosto, Mohamed Abdelaziz viene eletto Segretario Generale del POLISARIO e Presidente della Repubblica (cariche che ricopre tuttora).
1979 (5 ago.), la Mauritania, a seguito delle sconfitte militari subite dall’Esercito di Liberazione Popolare Sahara wi e logorata da un conflitto interno che ha portato a un Golpe, decreta un cessate il fuoco unilaterale e abbandona i territori del Sahara Occidentale sotto il suo controllo.
….11 agosto, il Marocco invade i territori abbandonati dalla Mauritania. Le azioni dell’ELPS si concentrano a questo punto contro il Marocco.
1982 (22 feb.), la RASD è riconosciuta ufficialmente come 51° stato membro dell’Organizzazione per l’Unione Africana (OUA). Per protesta, nel 1984, il Marocco abbandona l’OUA.
….agosto, il Marocco inizia la costruzione del primo di sei muri difensivi, che si concluderà nell’aprile del 1987.
La situazione si trascina tra guerra di logoramento e azione diplomatica da parte del governosahara wi, con il Marocco che prende e perde tempo, risoluzioni e dichiarazioni della comunità internazionale a favore del diritto all’auto-determinazione del popolo sahara wi e della celebrazione del referendum, fino al 1991.
1991 (29 apr.), il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approva il piano di pace del Segretario Generale Perez de Cuellar, e con la risoluzione 690 dispone l’invio di una missione dell’ONU (Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale – MINURSO). Le parti si accordano per un cessate il fuoco che entra in vigore il 6 novembre, e il referendum è previsto per il 26 gennaio 1992 (ricordo che, dopo infiniti rinvii, a tutt’oggi non si è ancora celebrato).
Per “iniziare la pace” partendo da posizioni di forza, il Marocco, nell’agosto ’91, scatena una violenta offensiva militare nelle zone del Sahara Occidentale controllate dal POLISARIO, e tra ottobre e novembre avvia una seconda Marcia Verde con 155.000 coloni marocchini che entrano in Sahara Occidentale, reclamando il diritto a partecipare al referendum.
Questo non viene ancora celebrato perché il Marocco non vuole riconoscere il censimento spagnolo del ’74 (con 74.000 sahara wi aventi diritto) perché sa che perderebbe; per questo continua ad attuare una politica di boicottaggio, facendo affluire coloni che a migliaia rallentano, o paralizzano, l’attività di censimento con i loro ricorsi per poter prendere parte al voto.
Da allora la situazione non è sostanzialmente cambiata – anzi, è peggiorata nei territori occupati, per la violenza della repressione marocchina e per il continuo, e illegale, sfruttamento da parte del Marocco, e non solo, delle risorse del Paese.
Nel 2003 il “piano Baker” (già segretario di stato USA, che peraltro già alla fine degli anni ’90 si era adoperato per una soluzione diplomatica della crisi) prevede un’ampia autonomia del Sahara Occidentale, sotto un’amministrazione congiunta del POLISARIO e del governo marocchino, che dopo 4-5 anni dovrebbe portare al referendum. Naturalmente il Marocco non accetta il piano.
Allo stato attuale delle cose, la situazione sembra improntata alla più preoccupante stagnazione, come dimostra anche l’ultimo rapporto informativo del Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon, sulla situazione in Sahara Occidentale: consueto capolavoro di equilibrismo e alchimia diplomatica, un saggio solo apparentemente imparziale, volto sostanzialmente a sancire e garantire lo status quo.
Vediamo allora di considerare più specificamente la situazione attuale del popolo sahara wi e del Sahara Occidentale, adottando come discriminante, come spartiacque, il muro eretto dal Marocco negli anni ’80 – noto anche come “muro della vergogna” – e vedere come vanno le cose al di là e, soprattutto, al di qua del muro.
La RASD è riconosciuta ufficialmente dall’Unione Africana e in totale da circa 80 Stati (Africa, America Latina e Asia), ma non dall’ONU, presso la quale il Sahara Occidentale ha un posto di osservatore, ed è inserito nella lista dei “territori non indipendenti”. Il Presidente della Repubblica (e Segretario del POLISARIO) è Mohamed Abdelaziz, e capo del governo è Abdelkader Taleb Oumar.
Circa ¾ del Sahara Occidentale sono al di là del muro, quindi sono sotto occupazione marocchina. La popolazione ammonta a oltre 380.000 abitanti. La capitale è el-Ayoun – che tra l’altro ha un livello di benessere sociale superiore alla media delle città all’interno dei confini del Marocco. Inutile dire che la zona al di là del muro è la più fertile e produttiva, dal punto di vista economico; non a caso il Marocco ha dichiarato il Sahara Occidentale zona franca, o “tax free”, proprio per promuovere l’immigrazione di coloni marocchini.
Le risorse più importanti sono i fosfati e la pesca. Per quanto riguarda i fosfati, il Paese è uno dei maggiori produttori al mondo, e la principale miniera, che si trova a Bou Craa, è la più grande del mondo. Persino il gigante tedesco Krup si è interessato allo sfruttamento delle ingenti risorse di fosfati. Il maggior importatore di acido fosforico (proveniente dai fosfati del Sahara Occidentale) è il continente asiatico (46%); segue l’Europa (26%) e l’America Latina.
Per quanto riguarda la pesca, il tratto di mare a largo delle coste centro-meridionali del Paese è uno dei più pescosi al mondo. L’eccezionale pescosità di quel tratto di costa atlantica, è dovuta all’incontro della corrente calda proveniente dal Sud-America con la corrente fredda del Nord-Africa, che va a determinare una zona di acqua temperata ideale per i pesci (e per i turisti delle Canarie, che affollano queste isole durante tutto il corso dell’anno). A questo va aggiunto che nel Sahara Occidentale il vento soffia quasi sempre da Ovest o da Est, e quando soffia da Est (cioè da terra) trasporta in mare particelle piccolissime di fosfati (che trovano il loro impiego commerciale soprattutto come fertilizzanti e nella produzione dell’acciaio), che vanno così ad arricchire la dieta dei pesci, rendendoli qualitativamente più buoni e quantitativamente più numerosi. Non a caso, il termine “Rio de Oro”, secondo una tradizione, non sta a indicare un fiume, bensì la striscia di costa meridionale del Sahara Occidentale che, al tramonto, risplende per i riflessi dei raggi del sole sul dorso dei pesci vicini alla superficie. Il Giappone è il primo acquirente del pesce pescato nelle acque del Sahara Occidentale.
In teoria, secondo le esplicite disposizioni dell’ONU, nessuno avrebbe il diritto di sfruttare le risorse naturali del Sahara Occidentale. Il problema è che non solo il Marocco continua a farlo impunemente, ma anche molte compagnie occidentali, e non solo, d’accordo col Marocco, attingono alle risorse del Paese (vedi la Spagna, con il suo 35% garantito).
Numerose e grandi imprese americane sono presenti, peraltro, nella regione, come nel Sud dell’Algeria per la presenza del gas. Già da diversi anni sono stati scoperti importanti giacimenti off-shore di petrolio e di gas, a largo delle coste del Sahara Occidentale, e più di recente dei giacimenti di uranio – la cui consistenza è in fase di valutazione – sono stati scoperti nel Nord-Est del Paese.
Qualcuno ha anche proposto un boicottaggio delle imprese internazionali che partecipano allo sfruttamento delle risorse naturali del Sahara Occidentale. Mentre su un piano individuale la misura sarebbe anche applicabile, ma inevitabilmente con scarsi risultati concreti, dal punto di vista politico-internazionale le possibilità di boicottaggi o addirittura sanzioni contro il Marocco è, al momento, irrealizzabile in quanto il Paese può contare su forti “amicizie” all’estero; la Francia, in particolare, in sede di consiglio di Sicurezza, oppone il veto a qualunque misura possa danneggiare il Marocco.
Per quanto riguarda le condizioni di vita e i rapporti tra la popolazione sahara wi e le autorità marocchine, nei territori occupati, la situazione è drammatica: i sahara wi sono continuamente perseguitati e spesso arrestati e picchiati dalla polizia anche per delle inezie (come una semplice scritta “viva sahara wi”), e la tortura e gli stupri sono all’ordine del giorno. Questa condizione di sofferenza e persecuzione tende a compattare il popolo saharawi, al di là e al di qua della frontiera.
Nei territori occupati – in cui, peraltro, il POLISARIO è presente e attivo – il Marocco cerca di neutralizzare l’irredentismo sahara wi agendo secondo due modalità:
- repressiva, stroncando brutalmente, con metodi ferocemente polizieschi, qualunque forma di appoggio al Polisario, e qualunque voce in favore dell’indipendenza;
- preventiva, agendo sui giovani sahara wi in modo da annullarne il senso di identità e renderli così docili sudditi del regno.
C’è da chiedersi se i maltrattamenti a cui le forze di sicurezza marocchine sottopongono i cittadini sahara wi siano espressione di una semplice brutalità tipica di (alcune) truppe di occupazione, oppure se siano il risultato di una guerra psicologica pianificata a tavolino. Sarei tentato di optare per la seconda ipotesi, ovvero una tattica volta a generare terrore, dal punto di vista psicologico, che si traduce in un atteggiamento di soggezione, di sudditanza, dal punto di vista politico. In questo caso andrebbe rilevata, però, una sorta di “schizofrenia” da parte delle autorità e delle forze di sicurezza marocchine nella gestione del dissenso, o quanto meno una carenza di pianificazione e coordinamento nelle attività di prevenzione e repressione dei fenomeni di insorgenza: è difficile immaginare di conquistare, come si suol dire nel linguaggio delle “psy-ops”, il cuore e la mente di un giovane sahara witramite attività di propaganda, programmi educativi, preparazione scolastica e, in sostanza, omologazione culturale, quando poi gli si violenta la sorella semplicemente in virtù della sua appartenenza etnica. Alla luce di questa considerazione – e anche della scarsa sensibilità nei confronti dei diritti umani e degli atti di pura brutalità dimostrati a più riprese dalle truppe marocchine nel corso degli ultimi decenni – non si può escludere a priori neanche la prima ipotesi.
Passiamo ora a considerare la situazione al di qua del muro, che abbiamo assunto come spartiacque, ovvero la condizione nei campi profughi a Sud di Tindouf, in Algeria. Alcune considerazioni però le merita proprio questo muro, in virtù della valenza militare, sociale, economica e, in una parola, politica, che ha assunto nel corso degli anni.
Il muro, tra l’altro, è stato oggetto di una marcia di protesta, svolta il 10 aprile scorso, organizzata dall’Unione Nazionale delle Donne Sahara wi, con la collaborazione di organizzazioni umanitarie spagnole, a cui hanno partecipato oltre 1500 persone (500 saharawi, 1000 stranieri) provenienti da vari Paesi, tra cui anche una rappresentanza italiana, e terminata, come vedremo, drammaticamente.
Come accennato in precedenza, il muro è stato costruito in 6 fasi successive, dal giugno 1982 all’aprile 1987, ogni volta acquisendo una porzione di territorio in più, fino a coprire oltre i ¾ circa dell’intero Sahara Occidentale; il tutto per difendere le risorse economiche e i militari marocchini dagli attacchi dell’esercito del POLISARIO.
Alcuni dati tecnici. È lungo 2.720 km (il secondo muro per lunghezza dopo la Grande Muraglia cinese) ed è costituito essenzialmente da terrapieni fortificati. Ogni 5 km c’è una compagnia di fanteria, comprese aliquote di paracadutisti. Ogni 15 km c’è un radar (a lungo o medio raggio) più altri sofisticati sistemi di rilevamento, che forniscono i dati alle batterie di artiglieria (240) e di missili. Al di là del muro, nelle immediate adiacenze, ci sono centinaia di carri e blindati e aerei pronti a intervenire in caso di allarme.
Al di qua del muro, nell’area delimitata da un reticolato distante dal muro 100-150 m, c’è una quantità di mine (soprattutto anti-uomo) che si aggira sui 5 milioni (secondo alcune stime addirittura 7); una delle massime concentrazioni al mondo. Il problema è che, come vedremo tra breve, le mine stanno anche al di fuori dell’area ufficialmente minata, delimitata dal reticolato, e continuano a mietere tutt’ora vittime tra i sahara wi.
Il Marocco è il committente del muro, e ha fornito la manodopera, ma gli ingegneri che hanno progettato e diretto la costruzione del muro erano israeliani, che operavano sotto copertura con passaporto canadese. Alla realizzazione dell’impresa hanno contribuito consistenti finanziamenti provenienti dalla Francia, da Israele e dagli USA .
Il Marocco tiene impegnati 130.000 uomini lungo il muro (o 160.000), con un costo di 2 milioni di dollari al giorno, che talvolta possono arrivare a tre. Secondo fonti ufficiose dei caschi blu, a questi ritmi, se i sahara wi tengono duro, nel giro di 4-5 anni il Marocco rimarrà “dissanguato”. Dal momento che dall’inizio del 2000 gli Stati Uniti hanno dichiarato il Marocco “partner privilegiato della NATO”, è lecito supporre che il regime di Rabat possa contare su un consistente flusso di “entrate occulte” da oltre oceano.
Il Marocco, ultimamente, in spregio alle disposizioni internazionali, sta rafforzando il muro, con un dispositivo di sicurezza che comprende anche armi e sistemi di intercettazione e rilevamento modernissimi. La scusa addotta dal Marocco è che serve contro l’immigrazione clandestina e il traffico di droga.
Il muro incide pesantemente anche sulle dinamiche sociali dei sahara wi perché, oltre a tenere fisicamente separati quelli che vivono nel territorio occupato da quelli che vivono nei campi profughi, dividendo anche le famiglie, impedisce la pratica tipica delle popolazioni nomadi (quali i sahara wi in parte ancora sono, anche se la colonizzazione spagnola ha portato ad una loro sedentarizzazione ) della transumanza stagionale del bestiame, dalle regioni desertiche interne alle aree costiere (solo nell’estremo Sud è ancora possibile).
Ma veniamo alle vere protagoniste di questo territorio, le mine, che, ligie al proprio dovere, continuano a svolgere il loro compito anche, e soprattutto, dopo la fine del conflitto.
Attualmente sono operative tre squadre di sminatori sahara wi, per un totale di 18 persone, tra cui figurano anche tre giovani donne.
Il 4 aprile scorso, si è celebrata la Giornata Mondiale contro le mine anti-uomo, indetta dall’ONU. A margine di un’intensa giornata di conferenze e dibattiti, nel campo di Rabouni, va rilevata la totale e “ingombrante assenza” dell’ONU; neppure un rappresentante della MINURSO è stato presente all’iniziativa, che pure è stata promossa proprio dal Segretario Generale delle Nazioni Unite.
Per quanto riguarda la marcia di protesta contro il muro e l’occupazione marocchina, svoltasi il 10 aprile a ridosso del muro in questione, si è conclusa con un drammatico incidente: un giovane sahara wi di 15 anni è saltato su una mina anti-uomo di fabbricazione italiana (mod. VS 50), piazzata, come molte altre, al di qua del reticolato che delimita la “fascia di sicurezza” davanti al muro, quindi nell’area che ufficialmente non dovrebbe essere minata.
Al ragazzo è stata amputata la gamba destra sotto il ginocchio.
Considerando l’evento in un’ottica squisitamente politico-mediatica, va rilevato che l’incidente ha avuto un’eco immediata sulla stampa internazionale (altrimenti la manifestazione sarebbe passata inosservata), e dopo pochi minuti circolavano voci (poi confermate) su agenzie di stampa spagnole, ma anche italiane, che riportavano il fatto; a dimostrazione che i riflettori della stampa si accendono solo dove scorre il sangue. Va rilevato inoltre che se a saltare su una mina, invece di un ragazzo sahara wi, fosse stato uno straniero, in particolare spagnolo, questo avrebbe costretto il governo di Madrid, ob torto collo, a prendere una posizione, con grande vantaggio per il governo sahara wi, costringendo i governi europei ad abbandonare, almeno temporaneamente, l’ignavia con cui finora hanno trattato il problema sahara wi.
Una volta tornati al campo, tutti, ragazzi e adulti, celebravano il suo coraggio e la sua resistenza al dolore, senza nascondere evidenti intenzioni di emulazione.
A margine della manifestazione va rilevata, ancora una volta, la totale e deprecabile assenza dei rappresentanti della MINURSO. Il fatto che le Nazioni Unite siano guardate dalla popolazione sahara wi con ostilità dovrebbe indurre i vertici dell’Organizzazione internazionale ad una severa riflessione auto-critica.
E veniamo finalmente alle condizioni sociali e politiche dei sahara wi che vivono al di qua del muro, ovvero nei campi profughi in Algeria, a Sud di Tindouf, nella RASD in esilio.
Le costruzioni, in mattoni ricavati dalla sabbia e dai sassi del deserto, sono edificate intorno alle “tradizionali” tende (fornite dall’ONU), che ancora costituiscono il luogo centrale della “casa”.
Le case sono abbastanza distanti tra loro, con il “cortile” delimitato da sassi o incannucciate, come è tipico delle popolazioni semi-nomadi. Le uniche infrastrutture sono costituite da un breve tratto di strada asfaltata, dalla presenza dell’energia elettrica e da un ripetitore radio. Non c’è acqua corrente né rete fognaria; gli scarichi si risolvono in pozzi neri. Frequenti sono le antenne paraboliche per ricevere canali satellitari pan-arabi, che trasmettono programmi e pubblicità occidentali.
In seguito alla diaspora conseguente all’invasione da parte del Marocco del SaharaOccidentale, il popolo saharawi ha riscoperto le proprie origini nomadi, temporaneamente accantonate durante la colonizzazione spagnola; questo, unitamente alla speranza di ritornare nei territori che sono stati costretti ad abbandonare, può spiegare la carenza di infrastrutture, la cui costruzione (con le relative spese) risulterebbe inutile, una volta abbandonati i campi profughi. Da un punto di vista politico, poi, l’eventuale decisione, da parte del governo, di costruire infrastrutture permanenti verrebbe interpretata dalla popolazione come la definitiva rinuncia a tornare nella propria patria, attualmente occupata dal Marocco.
La mancata costruzione di infrastrutture stabili è dovuta principalmente alla situazione di “emergenza” della condizione dei sahara wi; le organizzazioni internazionali che se ne occupano (UNHCR, PAM, ECHO ecc.) sono appunto organizzazioni di emergenza, e pertanto non finanziano programmi a lunga scadenza. L’Algeria, peraltro, non è intenzionata alla costruzione di queste infrastrutture sul proprio territorio (costi elevati? Timore di dover ospitare per sempre i sahara wi?). Le autorità e il popolo sahara wi sarebbero intenzionati a costruire qualcosa di più stabile, per questo si stanno orientando verso la parte libera del Sahara Occidentale (iniziative economiche, trasferimento di istituzioni politiche ecc.).
Peraltro, i sahara wi vivono grazie al sostegno internazionale, non potendo certo contare solo sui prodotti dell’artigianato, né tanto meno sulle risorse minerarie, agricole e ittiche presenti nei territori sotto controllo marocchino.
La precarietà – e la povertà – delle condizioni socio-economiche non ha inficiato la tradizionale ospitalità del popolo sahara wi, la cui spontaneità e generosità sono commoventi.
L’onnipresenza dei prodotti “made in China” nei piccoli negozi del campo conferma la penetrazione economica cinese nel continente africano, anche in questa regione apparentemente, e momentaneamente, sperduta (un gruppo di cittadini cinesi, in giacca e cravatta, con i tratti caratteristici degli uomini d’affari, erano presenti alle partenze nazionali dell’aeroporto di Algeri, in attesa di imbarcarsi su un volo interno).
Oltre alla Land Rover – praticamente un simbolo della lotta sahara wi contro il Marocco (bottino di guerra) – la macchina più diffusa nel campo è la Mercedes.
Appare straordinario come un popolo che vive in uno stato di “permanente precarietà”, con un ritorno a forme di vita quasi semi-nomadi, come è tipico di un campo profughi, a fronte di una cronica mancanza di infrastrutture abbia grande dimestichezza – soprattutto le giovani generazioni – con internet ed altri elementi tecnologico-culturali tipici delle società del benessere, invece di abbrutirsi nella rassegnazione e nel regresso socio-culturale. Sarà pure la globalizzazione e il sostegno umanitario, ma questo dimostra come investire sulla cultura sia un ottimo veicolo di emancipazione politica e di riscatto sociale; sicuramente non è sufficiente, ma quanto meno impedisce di regredire e di perdere le posizioni acquisite. Il tasso di alfabetizzazione supera il 95%, ed è il più alto del continente africano.
Dopo gli studi, tutti i giovani di sesso maschile devono seguire un corso di tre mesi di addestramento militare (durante la guerra anche le donne prestavano servizio sotto le armi). Sono sempre più numerosi i giovani che optano per la carriera militare (da considerare anche la scarsità di alternative e il desiderio montante dei giovani di tornare a imbracciare le armi contro il Marocco, oltre che l’intenzione del governo di tenerli sotto controllo, inquadrandoli nelle Forze Armate. Le Forze Armate sarebbero ben organizzate e addestrate, presso scuole militari e centri di addestramento, e comprensive di un servizio di intelligence.
Tutti i sahara wi sono addestrati militarmente; la sicurezza è garantita proprio da questo: in tutte le case ci sono persone addestrate. Messa in questi termini, sembra riprendere, in una certa misura, il modello cubano delle “tropas territoriales”.
I prigionieri di guerra marocchini non stanno in prigione, ma vengono impiegati per lavorare (il Centro Culturale del campo 27 de Febrero è stato ristrutturato proprio da loro), possono rifarsi una loro vita – tranne, ovviamente, tornare in Marocco – e molti di loro si sono addirittura sposati con donne sahara wi.
Considerato il numero esiguo dei sahara wi, il governo persegue una politica di incremento demografico, per scongiurare il rischio che la popolazione venga schiacciata numericamente – e quindi culturalmente e politicamente – dalle popolazioni dei Paesi vicini.
Il sistema sanitario della RASD merita alcune considerazioni a parte, perché emblematico dell’interazione con la cooperazione internazionale e delle “deficienze” di quest’ultima.
Visita all’ospedale del campo Smara. La struttura mostra un evidente degrado, dal punto di vista tecnico e igienico. Il medico che ci guida nella visita – uno specialista in psichiatria – denuncia la mancanza pressoché totale di strumenti e anche di personale, che ammonta a un totale di quattro persone: due medici e due tecnici.
L’ospedale, costruito con gli aiuti della regione Emilia Romagna, deve far fronte alle malattie più frequenti nella zona, come la dissenteria in estate e il vomito e la febbre in inverno. Anche il parto è un evento che si affronta abbastanza spesso, ma quando presenta dei problemi si trasporta la paziente all’ospedale nazionale di Rabouni. Anche le malattie mentali e neurologiche vengono trattate, sia pure nella carenza/assenza di farmaci; al di là di pochi anti-depressivi triciclici, non c’è nulla. Le malattie del sistema nervoso centrale più frequenti sono la depressione (soprattutto donne), il disturbo bipolare, la schizofrenia, l’anoressia e l’epilessia (quest’ultima particolarmente frequente).
Altre malattie frequenti tra i sahara wi sono l’anemia nelle donne incinte, il ritardo nello sviluppo dei bambini, il diabete e la celiachia (a seguito dell’invio, da parte delle organizzazioni umanitarie, di alimenti contenenti glutine, sostanza fino a poco tempo fa assente nell’alimentazione tradizionale sahara wi).
Alle domande sulla quantità ed efficacia degli aiuti umanitari, il medico, evidentemente rattristato, ha affermato che c’è bisogno di tutto, e che il poco (anche qualunque cosa) è meglio del niente.
I pochi pazienti presenti nella struttura versano in condizioni igieniche gravi (sporcizia negli ambienti e mosche sopra i pazienti). A detta di chi ha già visitato l’ospedale (e altri nella zona) nel 2004, la situazione è notevolmente peggiorata, anche alla luce dei progetti di aiuto e sostegno che erano – e sono (o dovrebbero essere) – in fase di sviluppo.
La visita a un “dispensario” (struttura più piccola di pronto soccorso per piccoli incidenti e distribuzione di farmaci), molto pulito e più curato della struttura precedente, ha risollevato un po’ l’ “immagine sanitaria” della città-campo.
Visita all’Ospedale Nazionale di Rabouni. Il campo di Rabouni, che, come detto, è un po’ la capitale politico-amministrativa della RASD, ospita tutti i ministeri e la sede amministrativa del Parlamento (che sta a Tifariti).
La struttura dell’ospedale – costruito con gli aiuti della Spagna (municipalità di Burgos), più alcuni investimenti per ristrutturazione dell’UNHCR – è molto razionale e funzionale dal punto di vista architettonico; non altrettanto si può dire dal punto di vista delle attrezzature, che comunque sono presenti sia per quanto riguarda la radiodiagnostica che le analisi di laboratorio. Il direttore sanitario (un infermiere-agronomo molto preparato e motivato) ha affermato che il grosso dei medici si forma a Cuba, che gli infermieri si formano presso la scuola di infermeria sahara wi, e ha sottolineato – non senza una punta di polemica – che le attrezzature fornite dalle organizzazioni umanitarie non sono corredate da pezzi di ricambio, che una volta portate in loco vengono di fatto abbandonate a se stesse (senza la formazione del personale per l’utilizzo – vedi le numerose incubatrici in disuso), e che, all’estremo opposto, alcune equipe mediche straniere mettono letteralmente sotto chiave le attrezzature durante la loro assenza, in modo da ritrovarle intatte al ritorno. Interrogato in proposito, ha affermato che non esiste, a tutt’oggi, un coordinamento centrale degli aiuti a livello internazionale, e che pertanto questi risultano dispersivi, ridondanti e non orientati alle effettive necessità.
I problemi che bisogna affrontare dal punto di vista culturale riguardano la scarsa attitudine del popolo sahara wi a ricorrere a una struttura sanitaria in caso di malattia (come è tipico di un popolo nomade), e la tendenza, quando questo si verifica, all’ “intasamento” della struttura, in quanto i parenti dei pazienti vogliono restare vicini a loro; pertanto, l’ospedale deve farsi carico, in caso di ricovero, non solo del paziente, ma anche dei suoi familiari – almeno uno, nel migliore dei casi (in particolare quando viene ricoverata una donna).
Alcuni servizi, che vengono forniti a scadenze fisse, come ginecologia, fanno, al contrario, registrare afflussi record per cui, quando il servizio è attivo, c’è veramente la fila all’ingresso dell’ambulatorio.
La struttura ospita anche un centro di medicina veterinaria, gestito da italiani, che segue gli animali durante l’allevamento fino alla macellazione.
L’impressione generale che si ha è di una struttura potenzialmente molto efficiente, dal punto di vista delle risorse umane e della loro motivazione, ma sostanzialmente lasciata a se stessa dalle organizzazioni internazionali che, una volta fatta la loro periodica e sporadica apparizione (spesso non ripetuta), abbandonano l’ospedale senza costruire i presupposti perché questo poi possa continuare a funzionare autonomamente; come dire: ci si mette a posto la coscienza con la (temporanea) missione umanitaria, e poi tutto passa nel dimenticatoio dell’indifferenza (un tratto caratteristico di molte – troppe – iniziative umanitarie in tutto il mondo). Al di là dell’attività delle ONG, delle singole municipalità (perché i rispettivi governi non riconoscono ufficialmente la RASD) e di altre iniziative di volontariato, le grandi organizzazioni sovranazionali (ONU, ECHO ecc.), come sempre, si distinguono per grandi esercizi di retorica e di stile, tanto altisonanti quanto sterili, all’atto pratico.
Il rischio, che già si sta realizzando, a fronte di questa inconcludenza effettiva, è il ripiegamento egoistico degli operatori, che si concretizza nella “fuga dei cervelli” all’estero.
Le donne e i giovani meritano un’analisi a parte nell’approccio alla società sahara wi. Le donne per il ruolo che vi hanno svolto e che vi svolgono tutt’ora; i giovani per il ruolo che svolgeranno nel prossimo futuro del popolo sahara wi.
Il consistente impegno nel settore culturale e gli incarichi di responsabilità a livello politico ricoperti dalle donne distinguono il popolo sahara wi dalle altre comunità nord-africane e arabe in genere. Questa straordinaria emancipazione femminile – tipica, peraltro, delle popolazioni nomadi del deserto (vedi i Tuaregh) – è dovuta, soprattutto nella sua formalizzazione politica, alla matrice socialista che ha contraddistinto le origini del Fronte Polisario, che se da un lato, durante la guerra fredda, gli ha alienato le simpatie del mondo occidentale, dall’altro è stata – e soprattutto continua ad essere – una garanzia contro pericolose derive integralistiche. Il fatto che poi gli uomini siano stati impegnati per molti anni al fronte (e continuano ad esserlo tutt’ora, anche se la guerra è finita), ha rafforzato questa attitudine della donne sahara wi ad assumersi la responsabilità e a farsi carico della “cosa pubblica”.
Ulteriori contatti con la gente del campo hanno confermato, da un lato, la sensazione di una emancipazione “di fondo” delle donne sahara wi, che coniugano magnificamente attaccamento alle tradizioni (la “melfa”, l’abito tradizionale, il volto coperto – non tutte – dovuto anche all’intenzione di evitare il più possibile il contatto diretto della pelle con i raggi del sole, dal momento che, presso i sahara wi, la carnagione chiara è particolarmente apprezzata) con una straordinaria apertura alle novità tecnologico-culturali, una vivacità e una intraprendenza intellettuale: donne che ricoprono il ruolo di ministro, di responsabile culturale; ragazze che di sera, ad una festa, portano il velo, e di giorno indossano la divisa e le armi in quanto agenti di polizia; l’apertura al contatto fisico. Dall’altro lato, però, si registrano tendenze in senso opposto; e sarebbe interessante verificare se si tratti di retaggi del passato duri a morire, oppure se siano l’effetto dell’introduzione di canoni comportamentali estranei alla tradizione sahara wi: ragazze che, cresciute insieme a loro coetanei, all’improvviso non possono più neanche sfiorarli fisicamente, perché questi hanno assunto posizioni radicali dal punto di vista religioso; ragazze che hanno dovuto abbandonare il loro impegno culturale, e talvolta anche il lavoro, pena rimanere nubili.
Sono questioni di carattere socio-antropologico che meriterebbero ben’altra profondità e ben’altro spazio; non è questa le sede. Per quanto riguarda invece le implicazioni politiche di questi fenomeni – che qui ci interessano – si possono ricondurre i tratti dell’emancipazione femminile (bisognerebbe valutare in che misura) alla matrice laica e socialista della lotta di liberazione del popolo sahara wi; in quest’ottica, la componente maschile della società potrebbe rappresentare la parte più legata al passato. Il fatto che questi fenomeni coinvolgano soprattutto i giovani potrebbe però essere indice di una nuova, preoccupante tendenza: le ragazze più legate all’emancipazione propria della tradizione del socialismo libertario, i ragazzi più sensibili ai nuovi richiami del fondamentalismo. In questo senso, paradossalmente, considerati i contenuti, le ragazze figurerebbero come la componente “conservatrice” perché ancora legate alla “tradizione” laica e socialista, mentre i ragazzi figurerebbero come gli “innovatori” (sarebbe arduo definirli “progressisti”), perché portatori delle “novità” introdotte dal fondamentalismo islamico.
Per quanto riguarda alcune – per il momento – sporadiche manifestazioni integralistiche, in particolare nei rapporti tra uomini e donne, queste sono riconducibili più a una condotta individuale che collettiva; in sostanza, sono espressione delle convinzioni di un soggetto, e non della comunità in cui questo vive. Come sostengono i sahara wi, l’Islam “politico” è il più pericoloso, mentre l’Islam “religioso”, con i suoi precetti di solidarietà e tolleranza, è una garanzia di pace sociale. Dove uomini e donne convivono e collaborano, senza discriminazioni, come nella società sahara wi, il pericolo di derive estremistiche è molto contenuto – e comunque il rischio rimane.
A questo punto possiamo cominciare a tirare le somme dal punto di vista che in questa sede più ci interessa, quello politico.
Il problema della questione sahara wi affonda le sue radici in due ordini di fattori:
- la guerra fredda. Il Fronte Polisario è stato ostacolato dall’Occidente – Francia in testa, perché ritenuto destabilizzante nella sua zona di influenza post-coloniale – perché sembrava estendere fino all’Atlantico le rivoluzioni socialiste dell’Algeria e della Libia (che affacciano “solo” sul Mediterraneo, coprendo così un arco strategico che sarebbe andato dal Golfo della Sirte all’Atlantico centrale; lo sbocco sull’Atlantico può essere uno dei motivi dell’appoggio dell’Algeria ai sahara wi, che così, oltre agli evidenti vantaggi economici e geopolitici, aggiungerebbe anche quello geostrategico del completo accerchiamento del Marocco, su due mari);
- le ragioni economiche. Innanzitutto gli ingenti giacimenti di fosfati, soprattutto nella zona di Bou Craa, e la straordinaria pescosità delle acque.
A metà degli anni ’70 il Polisario, sulla scia delle esperienze di molti altri Paesi del Terzo Mondo, ha intrapreso una lotta di liberazione di tipo violento, guerrigliero, su due fronti, che ha portato i suoi frutti, nel ’79, con il ritiro della Mauritania.
Dopo 16 anni di guerra, conseguendo anche importanti successi militari contro il Marocco, il Polisario, dietro le pressioni internazionali (soprattutto europee) ha optato per la soluzione diplomatica, con il cessate il fuoco del ’91. Chi invece persegue la sua politica, è il Marocco che può contare sullo strenuo sostegno della Francia (per ragioni di carattere post-coloniale, oppone il veto a qualunque iniziativa possa danneggiare il Marocco, in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per mantenere il proprio “giardino di casa”, di fronte all’avanzata americana), della Spagna (che non vuole inimicarsi il Marocco, tra l’altro, per la questione dell’enclave di Ceuta e Melilla, per il controllo dei flussi migratori in Atlantico, e per il già citato 35% delle risorse del Sahara Occidentale che il regime di Rabat le garantisce) e degli Stati Uniti (dalla fine degli anni ’90 forti sostenitori della monarchia marocchina, nella strategia dell’amministrazione Bush contro il terrorismo islamico).
La politica esclusivamente diplomatica adottata dal Polisario dopo il cessate il fuoco del ’91 è volta, attraverso piccoli passi, a sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale (soprattutto europea, ma anche americana dopo l’elezione di Barack Obama) verso la causa sahara wi, praticamente unico movimento di liberazione che non solo non fa più ricorso alla violenza, ma non ha mai adottato il terrorismo e, anche nel corso della guerra, non ha mai attaccato obiettivi civili marocchini (vedi la proposta per la candidatura del popolo sahara wi al premio Nobel per la pace, avanzata dalla regione Toscana). Questo dovrebbe portare ad isolare il Marocco, sempre più stretto dalle pressioni internazionali, e anche dall’opinione pubblica interna, stanca di vedere un fiume di soldi che viene speso per mantenere l’occupazione militare di un territorio che non viene avvertito come proprio.
I sahara wi sono un popolo tradizionalmente aperto, democratico (vedi la rappresentatività di tutte le tribù garantita, fino alla colonizzazione spagnola, dal Consiglio dei 40) e ospitale, come è tipico delle popolazioni nomadi del deserto, decisamente moderato dal punto di vista religioso; ma ciò non significa che questo atteggiamento possa durare in eterno. Fino a adesso i padri, secondo la tradizione, si sono imposti sui figli, orientandoli verso forme di lotta non-violenta; ma adesso, tra internet, cellulari, viaggi e soggiorni all’estero, i giovani vedono che mentre gli attentati terroristici in Palestina, Afghanistan, Iraq ecc. sono sotto i riflettori della stampa internazionale, la causa sahara wi è pressoché sconosciuta. Se a questo si aggiunge che, in un prossimo futuro, al-Qaeda potrebbe “accorgersi” dei sahara wie infiltrarcisi, sostituendo, come di consueto, gli ideali di libertà e democrazia con l’integralismo islamico, la situazione potrebbe sfuggire di mano, con drammatiche conseguenze.
Finora al-Qaeda non si è occupata dei sahara wi perché impegnata su altri fronti, per lei più “produttivi”; ma se le cose dovessero cambiare (non dimentichiamo che la monarchia marocchina, filo-occidentale, è considerata un nemico; che al-Qaeda è già presente nel Sud dell’Algeria con la formazione “al-Qaeda per il Maghreb islamico” – già Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, e che il terrorismo è già presente in Marocco e in Mauritania) al-Qaeda potrebbe facilmente approfittare del senso di rivalsa dei giovani, e quella sorta di “isola felice” che è stata finora il Sahara Occidentale (perché non coinvolto dal terrorismo internazionale) potrebbe trasformarsi in un campo di battaglia, come è avvenuto in altre aree del pianeta.
Al di là dell’opinione pubblica internazionale, i governi, i ministri degli esteri, i servizi di intelligence dei Paesi occidentali non possono non essere a conoscenza di tutto questo – basta un semplice soggiorno in un campo profughi per rendersi conto della realtà del popolosahara wi. Perché allora non sostengono energicamente il governo sahara wi e il suo programma non-violento, invece di abbandonarlo al rischio della degenerazione jihadista?
Questa, al momento, è la più grande preoccupazione della dirigenza sahara wi.
Il Convegno dell’Unione dei Giovani Sahara wi ha messo in drammatica evidenza questo rischio. Un ragazzo ha dichiarato che i giovani saharawi sono pronti a imbracciare il fucile, visto che con 18 anni di pace non si è ottenuto nulla, e un giovane appartenente alla Brigada Sumud ha affermato esplicitamente che se la Spagna non riconosce le sue responsabilità nei confronti del popolo sahara wi, e non agisce di conseguenza, i giovani sahara wi sono pronti a trasformarsi in bombe umane.
Il colloquio con il Ministro per le Politiche Giovanili ha fatto emergere dei problemi rilevanti. Gli unici movimenti politici che si registrano avvengono solo in ambito internazionale, in sede ONU, dove i sahara wi non hanno alcuna influenza e possibilità di incidere sui possibili sviluppi. Tra l’ironico e il rassegnato il Ministro si chiede cosa ci sarà scritto nel rapporto informativo del Segretario Generale dell’ONU sulla situazione sahara wi, che dovrà essere presentato entro aprile (il rapporto è stato pubblicato il 13 aprile). L’ONU non si muove, e chi dovrebbe agire non lo fa. Non è come nel conflitto tra Israele e palestinesi, in cui sono coinvolti, a vario titolo, molti governi e l’opinione pubblica internazionale; tra sahara wi e Marocco non interviene nessuno. Sahara wi e Marocco non comunicano direttamente; è come una scena senza attori. È difficile in questo modo ottenere qualcosa. Le due parti non collaborano, e questo è un tratto distintivo del conflitto. Il Marocco considera lo stato indipendente del Sahara Occidentale come un rischio. L’ONU fa teoria, ma non riesce a metterla in pratica.
I giovani sono esclusi da questo processo, che si svolge solo in sede ONU. Questo stato può continuare finchè non escono fuori nuovi fattori economici, come è successo in Sudan con la scoperta di ingenti giacimenti petroliferi; allora il terrorismo può venire da fuori, in questo caso dal Marocco, che già a suo tempo (anni ’90) approfittò della crisi algerina.
Dal punto di vista interno, la presenza del partito unico (anche se rappresentativo delle varie correnti), il Polisario, se da un lato è necessario per orientare tutte le forze contro il comune nemico, dall’altro determina una stagnazione del processo democratico (problema comune a molti Paesi con un partito unico e un grande nemico esterno).
Di fatto, tra Algeria, Marocco, Mauritania e Sahara Occidentale c’è un territorio “incontrollato”, e questo rappresenta una “calamita” per il terrorismo, che qui potrebbe attecchire indisturbato. Questo è il problema.
Il Maghreb è una regione povera e densamente abitata. L’unica soluzione consiste nel rafforzare la stabilità politica, la collaborazione economica, e quindi la pace nel Maghreb.
L’Unione Europea appare rivolta su se stessa più che nei rapporti con l’estero, ed è colpevole nel tollerare, se non addirittura promuovere, secondo il Ministro, la pratica dell’anti-legalità internazionale – beninteso, che spesso la legalità internazionale viene utilizzata pretestuosamente dai Paesi più potenti per coprire i propri interessi. L’Unione Europea deve rivedere la sua politica verso il Maghreb, puntando sull’economia della regione, e questa è una “necessità” politica. Nell’area ci sono tutti i presupposti per l’esplosione di fenomeni di insorgenza (povertà, crisi economica, organizzazioni jihadiste ecc.). L’unica soluzione è puntare sullo sviluppo.
Ci troviamo nella fase storica di espansione del terrorismo; per questo bisogna risolvere il conflitto tra saharawi e Marocco, altrimenti il terrorismo potrebbe infiltrarcisi.
I due interventi principali, in sostanza, per risolvere i problemi della regione sono:
- far dialogare direttamente Marocco e saharawi;
- promuovere lo sviluppo socio-economico del Maghreb.
Alla domanda su cosa possa fare concretamente un governo europeo, come quello italiano, il Ministro risponde subito, senza tentennamenti: riconoscere la RASD. Una mossa che non costerebbe niente al governo italiano, e avrebbe una ricaduta immensa sul popolo saharawi. I saharawi non chiedono aiuti economici e finanziari; chiedono solo il riconoscimento politico. Altri Paesi, a quel punto, potrebbero seguire l’esempio, con una conseguente e crescente “pressione” sul Marocco, sulla via della soluzione diplomatica del conflitto.
Il problema, più che nel coraggio di una simile scelta, sta nella mancanza di determinazione e recuperare un ruolo da protagonista nello scacchiere mediterraneo. L’Italia è un Paese mediterraneo, e pertanto dovrebbe avere, anzi riscoprire una politica estera più consona alla sua cultura e alla sua posizione geografica, invece di inseguire sogni centro-europei.
In conclusione, appare opportuno sottolineare i fattori che possono avere maggior rilevanza negli sviluppi futuri:
- I giovani sono al tempo stesso la punta di diamante e il tallone d’Achille del futurosaharawi.
- Le ONG e il “marketing” degli aiuti umanitari non si smentiscono neanche in quest’area del mondo. Le grandi ONG non sono presenti nei campi saharawi perché qui non avrebbero visibilità.
- L’Occidente non può continuare a contare sul mantenimento dello status quo, perché proprio questo è la causa della frustrazione e dell’esasperazione dei giovani saharawi, che di questo passo rischia di trasformarsi in una bomba.
Al di là delle questioni morali e umanitarie, che giustamente non hanno diritto di cittadinanza nelle valutazioni improntate al realismo politico, è proprio nell’interesse dell’Occidente, e in particolare dell’Europa, adoperarsi per risolvere i problemi del Sahara Occidentale e più in generale del Maghreb. A fronte di alcuni innegabili vantaggi economici e geopolitici legati allo status quo, se questo dovesse cronicizzarsi ci ritroveremmo – come già sta accadendo – a dover fronteggiare ondate migratorie sempre più consistenti, e soprattutto l’ingresso di cellule jihadiste con annessi attentatori suicidi (shaid). La chiave di volta potrebbe essere data dalla scoperta di nuove risorse o dal cambiamento degli orientamenti internazionali, ma a prescindere da queste eventualità, se un Paese europeo non trova il coraggio di rompere questo, oramai precario, equilibrio, anche riconoscendo ufficialmente la RASD – magari correndo il rischio di fare un piccolo dispetto a qualche alleato, ma costringendolo poi a seguirne l’esempio – corriamo il rischio, come tante altre volte è successo, di “chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati”.
In una comunità in cui i giovani sono pronti a farsi esplodere in nome degli ideali laici di libertà e di auto-determinazione, c’è da augurarsi che gli imam e i mullah di al-Qaeda continuino a non volersi occupare – e approfittare – della situazione del popolo saharawi, trasformando questi ragazzi in shaid, pronti a farsi esplodere in territorio marocchino, ma anche, e soprattutto, in Europa, in nome questa volta della lotta contro il “grande Satana” occidentale. Allora sì, l’opinione pubblica, la stampa e i media internazionali si accorgerebbero del popolo saharawi; ma a che prezzo per loro, e anche per noi.
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Foto: Aminatou Haidar in the Liberated Territories of Western Sahara – Wikimedia Commons