Skip to main content

Non basta aprire un opportunistico forno alternativo a quello del centro-destra per attrarre i voti cattolici, questo è il verdetto ricavato dai sondaggi di opinione.

Non basta aprire un opportunistico forno alternativo a quello del centro-destra per attrarre i voti cattolici, questo è il verdetto ricavato dai sondaggi di opinione. Eppure quello del voto cattolico è un problema culturale cruciale per un soggetto politico in cui militano coloro che ancora si richiamano alle radici sturziane del partito popolare, soggetto politico come la Margherita oggi o il Partito democratico domani. Né il richiamo alla matrice popolare può essere evocato per timore di un assorbimento e di irrilevanza nel nuovo partito, una sorta di vaccinazione contro le tentazioni di accordi di potere con i più forti e strutturati alleati diessini, un costume che col maggioritario era largamente diffuso specie tra gli eletti, un fenomeno analogo a quello che è accaduto nel centro-destra verso l’azionista di maggioranza Forza Italia. La nota dolente è che il richiamo al popolarismo non ha mai conosciuto lo sforzo di incarnarlo nelle sfide d’oggi consegnandosi e rassegnandosi ad una sterilità di proposte necessarie per incidere nella qualità dell’agire politico e istituzionale del nostro Paese.

Si è peccato in parole opere ed omissioni a partire dal fatidico 1989, dalla caduta della casa madre del Comunismo internazionale e del muro di Berlino. La maggiore responsabilità ricade su quella sinistra DC che con De Mita nel 1969 al Convegno di base di Firenze lanciando il nuovo patto costituzionale metteva in guardia (cito a memoria) dal farsi tentare, dopo i partiti laici ed i socialisti, di associare al potere i comunisti, adombrando la necessità di una democrazia matura, fondata sulla fisiologia del ricambio. Democrazia matura per cui si è speso Aldo Moro, pagando con la vita, quando ancora i tempi non erano maturi, una decina di anni prima del disgelo dell’89. La stessa clamorosa omissione commessa da Martinazzoli quando non seppe tesaurizzare un invidiabile 10% conseguito in piena autonomia dai blocchi contrapposti, nell’incapacità di accantonare le suggestioni di una DC architrave di tutto il sistema politico (in forza dei vincoli internazionali derivanti dalla guerra fredda) e di farsi interprete delle esigenze nuove di una forza di garanzia istituzionale e politica nel momento del trapasso da un sistema bloccato ad uno dell’alternanza, in cui avrebbe potuto giocare un ruolo chiave di levatrice di una democrazia matura, diventando l’ago della bilancia tra i due schieramenti contrapposti senza pregiudiziali, il ruolo di un centro che sceglie per affinità col suo programma.

Assenza di un ruolo decisivo che è all’origine della transizione infinita che stiamo attraversando, restando in mezzo al guado. Devastante la pretesa di accreditarsi come i legittimi eredi dell’egemonia DC, quasi che sussistessero ancora le condizioni eccezionali che l’avevano determinata. Un errore che pesa ancora sull’UDC e sulle attese-pretese di Casini di proporsi come leader di tutto il centro-destra, perdendo di vista la funzione decisiva per sbloccare il sistema e accreditarsi nel ruolo più connaturato di garante di un bipolarismo maturo e più omogeneo nelle coalizioni concorrenti. Una consapevolezza determinante nella presa di distanza di Follini, quasi a fare da battistrada per i vecchi amici di partito. Più grave la sterilità dei popolari nel centro-sinistra, incapaci di incarnare riattualizzandole le intuizioni del popolarismo. Già nel passaggio dalla DC al partito popolare ci saremmo attesi la liberazione dalla zavorra del partito-stato ed una ripartenza dal basso secondo il modello sturziano. Niente di tutto questo, ha prevalso la preoccupazione di sopravvivenza della nomenclatura, quella stessa che sta minando alla radice, per assenza di spirito critico, l’auspicato nuovo soggetto politico del partito democratico. Mi limito ad accennare i punti più volte richiamati di scelte ispirate al popolarismo. Su tutte la consapevolezza che la svolta qualificante è quella che mette le basi di un’Italia federale, autonomistica solidale come naturale compimento di quello “stato delle autonomie” sancito della Costituzione come apporto qualificante dei cattolici democratici e popolari. Il federalismo fiscale è un punto significativo di svolta purché si faccia carico di un impegno solidale per le zone più svantaggiate per un periodo limitato di tempo onde ottemperare a dei criteri di pari opportunità e di equità quali sono stati quelli che ci hanno consentito di entrare e di restare nella moneta unica, una Mastricht per le autonomie. Così come non può sfuggire a dei popolari il vistoso cedimento, anche nel centro-sinistra, alla deriva plebiscitaria di marca Berlusconiana. Mi riferisco all’ipotesi di Premierato che lede l’autonomia del Parlamento con il potere di scioglimento, relegando altresì il Capo dello Stato da garante al ruolo notarile dei voleri del Premier. Il referendum ci ha liberato provvisoriamente di questa soluzione di stampo sudamericano, che può tornare di moda di fronte all’incapacità del centro-sinistra di farsi carico di un rafforzamento dell’esecutivo che lo sottragga, per quanto possibile, alle imboscate parlamentari, specie se poi le maggioranze sono risicate come accade oggi al Senato.

Appare incredibile che proprio dai popolari non venga la proposta di un’armonizzazione del sistema, estendendo anche a livello nazionale (dov’è più alta la posta in gioco) lo stesso margine di garanzia assicurato alla maggioranza a livello comunale e provinciale nella misura del 60%. Un ulteriore rafforzamento è quello della introduzione della sfiducia costruttiva ma con un quorum pari a quello con cui il vertice dell’esecutivo è stato eletto insieme alla sua maggioranza. Una misura questa tipica dell’ordinamento che quando vuole salvaguardare i livelli alti dell’ordinamento esige maggioranze qualificate non alla portata di una maggioranza assopigliatutto, tipo il quorum richiesto per le nomine a membri della Corte Costituzionale.

Questo rafforzamento dell’esecutivo, grazie alla sfiducia costruttiva e al quorum pari al risultato elettorale dovrebbe essere esteso a tutti i livelli, anche a comuni province e regioni, eliminando il potere di scioglimento delle Assemblee, ma anche consentendo alle stesse di poter avvicendare il vertice dell’esecutivo per qualunque evenienza, specie se il motivo dovesse essere quello di una crescita di responsabilità senza dover comportare lo scioglimento delle rispettive assemblee. Un modo subdolo di ingessare sul posto i vertici degli enti locali, impedendo l’osmosi della classe dirigente dal basso verso l’alto, che è la grande riserva di esperienza e di responsabilità a cui attinge uno stato federale.

Per esemplificare, occorresse un domani l’assunzione di un ruolo nazionale da parte di un Veltroni o di una Moratti, bisognerebbe mettere in conto lo scioglimento dei rispettivi consigli. Berlusconi si era guardato bene dal vicolo cieco dello scioglimento del Parlamento in caso di elezione a Presidente della Repubblica ed aveva previsto la successione purché all’interno della stessa maggioranza, una norma assolutamente incostituzionale perché lede un diritto fondamentale sancito e confermato nella Costituzione, quello dell’esercizio della funzione parlamentare “senza vincolo di mandato”. Eppure la connessione stretta tra riforma elettorale e riforma costituzionale nel senso sopra indicato della forma di governo ma anche di una svolta in senso federale, autonomistico e  solidale, potrebbe rappresentare un’opportunità storica per degli autentici popolari ma anche costituire quell’alta temperie morale e politica in grado di favorire la fusione tra ispirazioni diverse ed in passato perfino antagoniste, come quelle che intendono dar vita al Partito democratico.

Ultima considerazione per superare l’attuale mostro di un proporzionale senza preferenze (che esclude “il cittadino arbitro” auspicato dal compianto Ruffilli, scelta della rappresentanza come del governo) e non tornare ad un proporzionale con preferenze (lotta nella stessa lista) occorre tenere nel debito conto il proporzionale uninominale in vigore nelle Province, da calare negli stessi ambiti territoriali che erano in vigore col maggioritario (Camera dei deputati e Senato) riannodando un rapporto di fiducia tra elettori ed eletti.

© Sintesi Dialettica – riproduzione riservata

Send this to a friend