È corretto pensare che quello che noi viviamo è il tempo migliore della storia umana. Questa frase non vuole essere una provocazione, bensì il riconoscimento dei traguardi raggiunti dalla conoscenza scientifica, i quali hanno riqualificato la vita di ciascuno di noi attraverso una tecnologia che si rende intuitiva e di facile uso, per la gestione dei bisogni del quotidiano. Tale tecnologia è accessibile ad ogni fascia d’età e non necessita di una conoscenza previa dei suoi principi; per il suo uso infatti richiede solo che si sappia il corretto ordine degli input da trasmettere per conseguire lo scopo. In tal modo chiunque può raggiungere il fine desiderato dal funzionamento di una macchina, senza dover ricercare le cause del processo.
La conoscenza richiesta è legata alla funzionalità ed è pertanto possibile che ci si senta facilmente appagati, sul piano del sapere, dalla semplice soddisfazione di aver usato correttamente una macchina. L’impegno richiesto sul piano intellettivo non è di grande rilevanza e se, da un lato, ciò favorisce l’accesso alla tecnologia a tutti in modo indistinto, dall’altro, può limitare l’impiego delle capacità conoscitive. Tendiamo così ad evitare o trascurare ciò che richiede tempo di studio perché non è di immediata soddisfazione e non è facilmente conseguibile. Soprattutto in quei casi nei quali non ci viene offerto un ordine da seguire, bensì di essere noi in grado di rintracciare o stabilire un ordine. Questo atteggiamento conoscitivo, che segue i criteri del tempo, sempre più rapido, e della funzionalità, si estende anche su quello dell’agire, dal comportamento del singolo a quello sociale in generale.
Le distanze geografiche non sono più un limite grazie alla qualità dei trasporti, ad internet e in modo speciale ai social. Viaggiare e interagire con persone di nazionalità o continente differente dal proprio è un desiderio che può essere realizzato da tutti e con molta rapidità. Allo stesso modo però questo patrimonio di benessere globale non migliora la qualità dei rapporti personali e sociali. Quando viaggiamo o utilizziamo internet per degli scambi relazionali con persone culturalmente differenti dalla nostra, i rapporti sono dettati da precise finalità, non impegniamo realmente la nostra vita in tale scambio e non ci mettiamo in discussione sul piano esistenziale. Resta in noi però l’illusione di conoscere e saperci confrontare con realtà diverse dalla nostra solo per il fatto di aver creato quel contatto, aver visitato le loro città o magari aver vissuto con loro per un periodo di tempo più o meno lungo.
I rapporti umani richiedono un serio impegno, una conoscenza profonda e desiderio affettivo. Sono complessi come lo è la natura dei soggetti coinvolti. È vero, inoltre, che le motivazioni che ci spingono ad instaurare delle relazioni possono avere diversa origine: affettiva, lavorativa, di studio e religiosa. E possono dipendere anche da fattori non scelti ma piuttosto subiti per circostanze inevitabili, come ad esempio le diverse forme migratorie a seguito di guerre e indigenze varie. Qualsiasi siano le cause, la cura delle relazioni umane deve essere portata avanti da un atteggiamento conoscitivo contrario a quello che di massa stiamo acquisendo dall’uso costante della tecnologia. Dobbiamo dedicare del tempo, siamo chiamati ad approfondimenti conoscitivi e dobbiamo scegliere di lasciarci coinvolgere esistenzialmente ed affettivamente.
Non è possibile esimersi da una scelta di dialogo con culture diverse della propria e ancor di più non ci si può limitare ad un confronto esclusivo con quelle con le quali si condividono parti di tradizione e storia. Le nostre città italiane accolgono un numero sempre maggiore di stranieri e la conoscenza culturale reciproca è il cardine della convivenza e assistenza. L’impegno conoscitivo non può riguardare solo chi si introduce in una nuova realtà sociale, anche chi accoglie è chiamato a sapere l’identità culturale del suo nuovo vicino. Chi accoglie non può esimersi dal conoscere e dal ricercare forme comunicative attraverso le quali trasmettere elementi fondamentali della propria cultura, affinché possano rimanere presenti in forme nuove di convivenza.
Non spetta alla cultura la qualifica di “vera” o “falsa”, gli elementi che la compongono potrebbero essere anche contraddittori fra di loro e, nonostante ciò, essere confermati dal tempo e quindi dalla tradizione, che giustifica un implicito consenso sociale. Questo ci porta a pensare che solo quegli elementi culturali riconosciuti come veri, nel senso che rispondono in modo adeguato alla natura dell’uomo, siano da presentare in un dialogo formato da parole e fatti di vita quotidiani.
Nel deserto della Siria, a circa ottanta chilometri a nord di Damasco, vicino alla città di al-Nabk, si trova un antichissimo monastero, Deir Mar Musa al-Habashi, nel quale vive attualmente una comunità monastica impegnata nel dialogo tra Islam e Cristianesimo, fondata dal gesuita italiano Paolo Dall’Oglio. La comunità monastica chiamata al-Khalil (l’amico di Dio) da Paolo Dall’Oglio si prefigge quale obiettivo quello di saper vivere la fede cristiana in un territorio islamico, sapendo riconoscere il valore dell’Islam all’interno della storia della salvezza centrata in Gesù Cristo. Dal loro punto di vista, l’altro non è un estraneo bensì quel fratello che offre la possibilità di comprendere il cuore di Cristo che ama le persone di ogni religione, cultura e comunità sociale. Così, allo stesso modo, la loro presenza in una terra di religione prevalentemente islamica diviene una forma di testimonianza di questo amore di Cristo, affinché non se ne sentano privati.
Il dialogo che la comunità monastica di Deir Mar Musa sta realizzando con i mussulmani pone al centro la dimensione spirituale e questa diviene il motivo che spinge ad andare verso l’altro, conoscerne la cultura e l’esperienza religiosa. In conformità con la propria vocazione battesimale i monaci vivono la propria fede divenendone testimoni, affinché tutti possano conoscere Cristo e la sua opera di salvezza. L’atteggiamento dei monaci è quello di testimoniare e non conquistare, essere presenti con il servizio e non prevaricare con il comando, far conoscere e non imporre la fede, attingendo dal Vangelo le verità sull’uomo e sulla sua salvezza. Sono degli innamorati di Cristo e di conseguenza amano l’uomo e da questa prospettiva sanno incontrare e valorizzare l’Islam.
I monaci di Deir Mar Musa pongono al centro della propria esistenza la loro fede in Cristo e da questa si indirizzano verso la ricerca e la realizzazione di un autentico dialogo con l’Islam. Ci dimostrano che il dialogo esige conoscenza profonda di sé stessi e dell’altro, implica un desiderio di avvicinamento, di comunicazione, di condivisione e di crescita. Ci indicano la necessità di ricercare dal proprio punto di vista, che sia culturale o come per loro religioso, le verità essenziali dell’uomo per poterle mettere al vaglio del confronto e tramite questo arricchirle di significato e comprensione. Così da riconoscere che il proprio punto di partenza deve crescere nella cognizione e non è già tutto risolto nelle spiegazioni che hanno origine dalle categorie interne. La prospettiva che l’altro ci offre, per esaminare le questioni riguardanti la vita e l’uomo, è un’autentica motivazione per recuperare un atteggiamento serio di conoscenza e di desiderio di bene comune. Dall’operato dei monaci di Deir Mar Musa è possibile estrapolare un modello di dialogo che non interessa solo la religione bensì tutti gli ambiti della vita sociale. Dalla loro forma di dialogo si possono individuare elementi fondamentali da applicare sul piano sociale sia tra le città, in una prospettiva internazionale e nazionale, che nella singola città, all’interno dei suoi quartieri.
foto: Paolo Dall’Oglio; credits: news.gesuiti.it
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