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La crisi della sinistra ha radici strutturali, originate dall’incapacità di interpretare e rispondere ai mutamenti socio-culturali degli ultimi quarant’anni. Tale disorientamento si è fatto evidente quando è venuto meno (e non si è innovato seriamente) il tradizionale soggetto ordinativo dei movimenti politici: il partito.   

Tradizionalmente, la sinistra di matrice social-comunista ha ritenuto che il partito fosse l’avanguardia del proletariato, il cui compito era di rappresentare gli interessi della classe operaia. Le tendenze degli ultimi anni, però, attestano la crisi di questi soggetti dovuta ad una trasformazione delle strutture sociali. Infatti, il concetto di classe non è una categoria astorica, così come il proletariato non è un dato, cioè un oggetto di cui si può fare immediatamente esperienza. Piuttosto questi termini hanno valore solo se si assumono dei codici interpretativi validi in situazioni determinate. 

La classe e il proletariato, almeno tradizionalmente, sono concetti che hanno valenza teorica all’interno di un sistema produttivo industriale in cui vige una certa divisione del lavoro, intellettuale per coloro che dirigono e manuale per coloro che sono diretti. Questa cesura permette un sentimento di classe, che in altri tempi dava uniformità alla classe operaia, che si esprimeva in simboli e valori omogenei e riconosciuti. 

In tali circostanze poteva emergere un antagonismo di classe che lacerava la società. 

Negli ultimi anni, queste condizioni sono venute meno, pertanto questi concetti si sono svalutati e i soggetti che la sinistra rappresentava sono entrati in crisi. Infatti, quando la produzione si fa immateriale viene meno quella divisione del lavoro che portava all’antagonismo di classe. Anche su un piano simbolico si sono affermati trasversalmente dei modelli consumistici che hanno prodotto un’omogeneità culturale neutralizzando quella conflittualità resa possibile dal senso di appartenenza ad una classe. 

Paradossalmente, dietro questa generica omogeneità è emersa un’eterogeneità sociale e una moltitudine di resistenze multipolari che precedentemente erano velate dall’uniformità della classe. La crisi della sinistra comincia quando diventa impossibile rappresentare un soggetto che non c’è più, generando un disorientamento che nel tempo ha condotto ad assumere posizioni che hanno messo in secondo piano la giustizia sociale e che hanno prodotto, a causa dell’incapacità di intercettare l’esigenza di meccanismi di protezione sociale, i cosiddetti movimenti populisti. Per la sinistra, oggi, non si tratta più di rappresentare ma di produrre un nuovo soggetto politico che accolga tutti coloro che condividono un progetto di democrazia che ostacoli ogni iniqua concentrazione di ricchezza e chieda più garanzie costituzionali anche sul reddito, più servizi pubblici e ridistribuzioni eque di ricchezza.

Un tale progetto è però impossibile finché non si riattiva quella tendenza internazionalista che ha guidato tradizionalmente la sinistra, entrata in crisi con la globalizzazione. Infatti, il consolidarsi di un piano di interdipendenza economico globale ha reso impossibile, a livello statuale, la produzione di meccanismi di giustizia sociale, essendo lo Stato minacciato dalle possibili fughe di capitali e, quindi, ridotto ad un apparato tecnico, il cui scopo è di applicare le disposizioni più funzionali al mercato, che nella maggior parte dei casi colpiscono il welfare state. Nell’immediato, è necessaria una coordinazione di una nuova sinistra europea, che a livello macro-regionale possa definire dei meccanismi di ridistribuzione che sappiano tenere testa prima di tutto al capitale finanziario, richiedendo, però, di prendere sul serio l’obiettivo dell’unificazione politica dell’Europa, oggi avvolto in un’ulteriore crisi dovuta agli effetti della guerra in Ucraina.

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