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Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.

“Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Ho voluto riscrivere fedelmente i due comma che rappresentano la struttura dell’art. 7 della costituzione repubblicana, non perché non mi fidi della memoria costituzionale di chi si appresta a leggere questo breve saggio, il mio vuole essere semplicemente un invito a seguire lo stesso procedimento mentale che mi ha permesso di procedere in questo lavoro, ovvero analizzare attentamente ogni parola contenuta nell’articolo, esaminarla minuziosamente e soprattutto ricordare che esso è il frutto di una dialettica che ha visto impegnati, da una parte lo Stato italiano, dall’altra la Chiesa cattolica, per oltre un secolo.

 L’oggetto di questa ricerca sarà quello di indagare il percorso storico che ha preceduto e accompagnato la nascita dell’art. 7, considerato come un momento di arrivo, o se vogliamo come una tappa fondamentale della lunga stagione che ha visto confrontarsi lo Stato e la Chiesa attraverso vari momenti chiave (questione romana, legge delle guarentigie, patti lateranensi). Volutamente mi fermerò al 1 gennaio 1948, giorno dell’entrata in vigore della costituzione repubblicana italiana. La mia attenzione sarà quindi concentrata sul periodo 1848-1948 (1), un secolo esatto, una parentesi della storia italiana tra le più intense, una fase ricchissima di avvenimenti storici, politici, culturali, dove   soprattutto fu rilevante la dialettica tra due istituzioni, lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, che la storia e la geografia per uno strano scherzo del destino avevano posto l’uno accanto all’altra.

 In gioco era il controllo politico – culturale di quei cittadini/anime (a seconda dell’ottica da cui si guarda) che abitavano la penisola italiana, lo scontro era inevitabile, così come il tentativo di arrivare ad un accordo che sancisse la mutua esistenza, la mia ricerca ha la presunzione di investigare tutti questi momenti, lasciando ad un altro saggio l’analisi del periodo post 1948. La domanda “ libera Chiesa in libero Stato?”, che fa da corollario al titolo di questo lavoro è volutamente provocatoria, è in altri termini una sfida a cui sottopongo il lettore che in base alle proprie idee di partenza e alle informazioni che riceverà da questo breve saggio dovrà dare una sua personale risposta. In altri termini dovrà dire se l’art. 7 fu il coronamento del sogno risorgimentale incarnato dal Cavour (per l’appunto l’idea “ liberaChiesa in libero Stato”), o viceversa nulla di tutto questo si è realizzato e altre problematiche sono emerse. Proverò a dare una risposta a tali interrogativi nel corso del mio lavoro che ho pensato di dividere in varie fasi storiche che devono essere lette non tanto come dei periodi scissi l’uno dall’altro, quanto come una continuità dialettica che ha visto confrontarsi l’Italia e la Santa Sede dal 1848 al 1948.

1848-1870: lo scontro frontale

“Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato!” (2), queste furono le poche parole pronunciate da un agonizzante Camillo Benso conte di Cavour in punto di morte al frate che gli portava l’olio santo. Il mio non vuole essere tanto un omaggio ad uno degli statisti più importanti della storia d’Italia, sicuramente colui che insieme a Giuseppe Garibaldi fu il massimo artefice dell’unità d’Italia, piuttosto mi sembra il modo migliore per aprire questo saggio, ricordando l’uomo che più lucidamente di tutti aveva capito l’importanza di definire i rapporti tra lo Stato e la Chiesa , non solo per tutelare la nascente nazione ma per garantirle una vera modernizzazione politico – culturale, sul modello dei più avanzati Stati europei. Non a caso la sua formula “ libera Chiesa in libero Stato”, lungi dall’essere un’abile artificio politico parlamentare privo di vera sostanza, come sostennero molti suoi avversari di allora ed in parte molti storici di oggi, rappresentava viceversa, un progetto o se vogliamo un percorso che lo statista piemontese coerentemente aveva intrapreso fin dal 1850.

Questo è un anno simbolico nella dialettica Stato – Chiesa in quanto è l’anno in cui vengono approvate dal parlamento subalpino le “leggi Siccardi” (3) ed è proprio nella difesa parlamentare di questo progetto legislativo che emerse la figura del Cavour (4). Le leggi Siccardi furono l’inizio di uno scontro frontale tra lo Stato (ancora non italiano) e la Chiesa , esse avevano il compito di definire i rapporti tra le due istituzioni spezzando quel connubio trono – altare che era stato un elemento costante del periodo della restaurazione (1815-1848). L’opposizione della Chiesa fu pronta e determinata, non solo in Senato dove sedevano alti esponenti della gerarchia ecclesiastica ma anche nelle piazze, altrettanto decisa fu la reazione dello Stato che adottò una vera e propria repressione anticlericale, vennero incarcerati alcuni sacerdoti e gli arcivescovi di Torino e di Cagliari che avevano tentato di opporsi furono arrestati ed esiliati (5). Gli anni seguenti proseguirono su questa linea, nel biennio 1854-55 vi fu lo scontro sulla soppressione delle corporazioni religiose che non avessero più alcuna utilità sociale, anche in questo caso la reazione clericale capeggiata dal vescovo di Casale, senatore Calabiana, fu energica ma il Cavour la spuntò, così come nelle elezioni politiche per il rinnovo della camera del 1857, in cui l’ingerenza clerico-reazionaria fu contrastata da un mondo politico e da una base elettorale concorde con la linea laica e libera le intrapresa con le leggi Siccardi e proseguita con determinazione dal presidente del consiglio Cavour (6).

 Quando agli albori del regno d’Italia, durante le discussioni parlamentari del marzo 1861, il Cavour, in due famosi discorsi parlò di Roma capitale d’Italia, lo fece sapendo che ciò era possibile solo a condizione di riuscire ad arrivare ad un compromesso con il Papa. Il potenziale accordo doveva passare però per la formula “ libera Chiesa in libero Stato”, in altri termini, libertà religiosa ma anche separazione Chiesa – Stato. Quindi lungi dall’essere una sterile ed effimera trovata parlamentare, questa formula aveva delle precise basi culturali, politiche e storiche ma soprattutto era finalizzata al perseguimento di un progetto chiaro. Non a caso tra il 1860 e il 1861 lo stesso Cavour intavolò una trattativa segreta con la Santa Sede, nella quale offrì al papa Pio IX un concordato, in nome della rinuncia di quest’ultimo al potere temporale, la cosa naufragò miseramente e in tutta risposta il papa nell’allocuzione concistoriale del 18 marzo 1861 (si ricordi che il 17 marzo il parlamento aveva proclamato il regno d’Italia), condannò il Piemonte e il libera lismo, paragonandoli a due demoni capaci di fare solo torti alla Chiesa (7). Con la morte di Cavour i suoi principi furono portati avanti da coloro che erano stati i suoi seguaci che lo sostituirono alla guida del paese, lo scontro con la Chiesa si fece più forte, negli anni ’60 si susseguirono cronologicamente atti che attestarono quanto appena detto: dall’enciclica “Quanta Cura” e Sillabo del 1864, alla soppressione delle corporazioni religiose e confisca dei loro beni del ’66, all’alienazione dell’asse ecclesiastico nel 1867, per arrivare all’abolizione dell’esenzione dei chierici dal servizio della leva militare (1869). Un crescendo che portò all’anno 1870, forse il più cruento di tale scontro, che fu, è bene ricordarlo,  politico e militare ma nel contempo anche ideologico e culturale. Un anno che segnò uno spartiacque nella dialettica che sto esaminando, in cui la Chiesa nel Concilio Vaticano I dichiarò l’infallibilità pontificia (18 luglio) e lo Stato come tutta risposta occupò gli ultimi territori pontifici, entrando in Roma il 20 settembre.

 Dal 1848 al 1870 Davide e Golia si erano nuovamente affrontati, il primo era un piccolo Stato che con gradualità era divenuto simbolo di una nazione nascente che per legittimarsi agli occhi del suo popolo e per modernizzarsi nel tentativo di tenere il passo delle nazioni più progredite, aveva intrapreso una guerra interna con un Golia apparentemente più forte di lui, per la sua storia millenaria e per la sua presa sulla popolazione ma in realtà più fragile perché troppo reazionario e non in grado, né di capire, né di affrontare le sfide del tempo. Il 1870 ci disse che anche questa volta a vincere fu Davide ma a che prezzo, ed ancora, fu una vittoria netta e duratura?

1871-1929: la soluzione unilaterale

Che cosa si intende con la famosa citazione “questione romana”? Quando si può iniziare a parlare di questione romana? Questi due quesiti non sono un astratto giochino che piace fare spesso agli storici, rappresentano viceversa un punto cruciale per capire il vero motivo del contendere. La storiografia è concorde nel ritenere che il termine “questione romana” sia da intendere come il conflitto sorto tra lo Stato italiano e la Santa Sede nel tentativo, il primo di completare la sua unità territoriale, la seconda di difendere quel potere temporale che era per lei la sola garanzia di libertà e indipendenza. Gli storici sono viceversa divisi sul quando si può iniziare a parlare di questione romana, per alcuni essa ha inizio nel 1870 (breccia di Porta Pia), per altri nel 1861 (proclamazione del Regno d’Italia), c’è chi arriva a retrodatarla al 1849 ( II Repubblica romana). Personalmente ritengo che si possa iniziare a parlare di questione romana a partire dal 29 aprile 1848, dal giorno in cui un imbarazzato e un po’ confuso Pio IX decise di ritirare le sue truppe dalla coalizione anti austriaca che si era formata in occasione della I guerra d’indipendenza. Da quel giorno apparve a tutti chiaro che il futuro assetto politico istituzionale della penisola sarebbe sorto senza l’apporto della Chiesa , anzi con la sua ferrea opposizione.

 Ho già accennato in precedenza che tale dialettica non si risolse soltanto in un mero scontro militare per la contesa di territori, se fosse stato solo questo non si spiegherebbe lo scontro politico in atto negli anni ’50 nel Regno di Sardegna e soprattutto quello che si verificò dopo il 1870 in Italia, ricordo infatti che le forze laiche e libera li da una parte e quelle cattoliche e reazionarie dall’altra si sfidarono per quasi tutto il trentennio che chiuse il XIX sec. Fu anche una disputa ideologica e culturale, anzi è proprio questa a mio avviso, la sua componente più importante, se non altro la più duratura e caratterizzante. La contrapposizione militare terminò nel 1870, mentre la battaglia politica tra le due realtà è stata un elemento costante della storia d’Italia, al punto che è presente per certi versi, ancora oggi (molti amano definirla un fiume carsico che scompare per un periodo per poi riaffiorare in una fase successiva).

Agli inizi del 1871 l’unità d’Italia era stata completata, almeno nelle sue parti principali, Roma era divenuta la sua capitale, mancava la risoluzione del problema più antico e potenzialmente più pericoloso, trovare un accordo con la Chiesa cattolica. Fin dal 1848 si era venuto formando un paradosso storico piuttosto evidente che per certi versi accompagnerà anche in futuro la storia tanto del Regno, quanto della  Repubblica italiana. L’art. 1 dello Statuto Albertino sanciva: “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”, stabilendo piuttosto chiaramente che lo Stato italiano doveva essere un ordinamento giuridico confessionale, in cui la religione cattolica, la religione propria della stragrande maggioranza degli italiani fosse la religione di Stato, ovvero un punto di riferimento in grado di influenzare il funzionamento dell’organizzazione politico istituzionale. Questo era quello che appariva nella forma, nella sostanza come abbiamo visto, tutti gli atti posti in essere dal ’50 al ’70 furono indirizzati alla costruzione di uno Stato laico e libera le.

Fino al 1861, la classe politica italiana ebbe come obbiettivo principale quello di creare, nei fatti, uno Stato il più possibile laico, ben sapendo che questo avrebbe significato una sua maggiore modernizzazione e dinamicità, nell’intento di avvicinarlo alle esperienze politiche più progredite d’Europa. Dopo il 1861 la laicizzazione dello Stato non significò più solo modernizzazione ma anche e soprattutto legittimazione della nuova entità statale agli occhi della nascente nazione, contro una Chiesa cattolica che non solo non riconosceva questo nuovo soggetto, ma che in più gli aveva scatenato contro in una guerra psicologica e culturale il suo esercito di parroci, frati, suore, le sue diocesi, parrocchie, confraternite ecc. Era uno Stato nello Stato che in una realtà in cui il 99% della popolazione si definiva cattolico metteva in discussione il nuovo assetto politico.

 Da qui lo scontro degli anni 1861-1870 ma nel contempo anche la convinzione, almeno da parte italiana che questa situazione non poteva durare all’infinito, per cui nel biennio ’70-71 vi fu il tentativo di arrivare ad una “tregua”. Nonostante gli sforzi, il papa non volle intavolare nessun tipo di relazione con “l’usurpatore sacrilego”, per cui lo Stato italiano fu costretto a procedere da solo ponendo in essere quel concordato unilaterale che va sotto il nome di legge delle guarentigie (8). Ci troviamo di fronte ad un tentativo di mettere fine allo scontro con la Chiesa utilizzando quello che molti definirono una sorta di accordo di pace  che alla fine scontentò un po’ tutti. Non piacque ai cattolici in quanto ai loro occhi non era in grado di assicurare le libertà del pontefice, per i democratici viceversa furono fatte troppe concessioni alla Chiesa , i libera li si convinsero che solo il Cavour avrebbe fatto meglio e l’atto alla fine era rispondente alla sua formula “ libera Chiesa in libero Stato” (9). La legge delle guarentigie venne approvata il 13 maggio 1871 e promulgata il 15 maggio, lo stesso giorno come risposta, il papa pubblicò l’enciclica Ubi Nos in cui si rifiutava la nuova legge chiedendo la restaurazione del potere temporale (10). Nonostante ciò, la storiografia ha definito la legge delle guarentigie una grande opera legislativa italiana, che ebbe portata europea e mondiale per il modo in cui disciplinò i rapporti Stato – Chiesa , per 58 anni rappresentò la fonte giuridica all’interno della quale le due istituzioni regolarono le loro relazioni. La nuova situazione politico istituzionale che instaurò permise alla Chiesa stessa di comprendere che peso insostenibile era divenuto per lei il potere temporale, facendogli percepire nel giro di pochi anni, quanto fosse aumentata la sua capacità d’azione, la sua dinamicità, il suo prestigio e diffusione nel mondo dal momento in cui aveva perso quel potere (11).

 L’intransigenza clericale nei confronti dello Stato italiano e le risposte altrettanto veementi di quest’ultimo furono una costante anche nell’ultimo trentennio dell’800. Da una parte, la Santa Sede provò ad alzare il livello dello scontro con il “non expedit” del 1874 che formalizzava una prassi comune al cattolicesimo intransigente (clericalismo) fin dal 1861, e con la nascita dell’Opera dei congressi e dei comitati cattolici (1875). Lo Stato rispose con l’abolizione della facoltà di teologia (1873), con la legge del 30 giugno 1876 che prevedeva una forma di giuramento come solenne atto civile insieme a quello di carattere religioso. A questo si deve aggiungere nel 1877,  la famosa legge Coppino che aboliva l’ufficio di direttore spirituale (12) nelle scuole secondarie, stabilendo che nel primo biennio obbligatorio della scuola elementare, sarebbe divenuto fondamentale l’insegnamento delle prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino, senza menzionare l’insegnamento religioso (13). Un timido tentativo di conciliazione tra il 1886-87 naufragò, in quanto da ambo le parti non vi era ancora vera volontà di pacificare i rapporti. Questo portò ad una nuova stretta laica e anticlericale che si materializzò nell’articolo del codice penale che reprimeva i cosiddetti abusi del clero (1889), sempre lo stesso anno e sempre nel codice penale scomparve la menzione di religione di Stato, sostituita dal termine generico di culti, ministri di culto, cerimonie di culto, inoltre nella legge sanitaria del 1888 fu introdotta la possibilità di cremazione (14). Non si può non ricordare in questa carrellata,  l’inaugurazione del monumento a Giordano Bruno in piazza Campo dei Fiori il 9 giugno 1889 e per finire, la legge sulle opere pie del 17 luglio 1890. Fu l’ultima stagione di grande antagonismo tra le due istituzioni, la fine del secolo portò ad una netta flessione di quel cattolicesimo intransigente che fino ad allora aveva dominato all’interno della Chiesa , il cattolicesimolibera le prese gradualmente il sopravvento potendo far emergere la sua tradizionale visione che si basava sul tentativo di armonizzare gli interessi del clero con quelli della nazione, d’altro canto la stessa classe politica libera le era ormai più spaventata dal socialismo che dal clericalismo.

 La Chiesa ondeggiò ancora tra impulsi di chiusura e primi timidi tentativi di apertura che divennero sempre più evidenti nell’ultimo decennio dell’800 e soprattutto nei primi anni del ‘900, si assistette ad importanti prese di posizione sia di natura sociale (Rerum novarum 1891) che politica (prime alleanze elettorali con le forze libera li in chiave anti socialista, inizialmente a livello locale, quindi nazionale). Il non expedit venne sospeso in alcuni collegi del nord  nelle elezioni del 1904, e più massicciamente nel 1909, per arrivare al noto “patto Gentiloni” del 1913 che lo mise in soffitta definitivamente, dando ai cattolici la possibilità di partecipazione politica e dotandoli di una forza di pressione che da lì a poco sarà determinante nello scenario politico italiano. Storicamente era giunto il momento per tentare una conciliazione arrivando alla risoluzione della decennale questione romana.

1929-1946: la “svolta epocale” 

Subito dopo il trauma della prima guerra mondiale sembrò aprirsi uno spiraglio di trattativa. Nel maggio del 1919 monsignor Francesco Kelly, prelato di Chicago, avvicinò a Parigi l’allora presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, impegnato nelle trattative di pace, presentandogli la possibilità di aprire un canale per arrivare ad una conciliazione tra l’Italia e la Santa Sede. Dopo l’adesione italiana, monsignor Kelly andò a Roma per comunicare il risultato dell’incontro e la Santa Sede inviò immediatamente nella capitale francese un sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Bonaventura Cerretti, segretario degli affari ecclesiastici, il quale recava con sé un progetto del cardinal Gasparri. Il documento trovò il consenso di Orlando ma ebbe la decisiva opposizione del re Vittorio Emanuele III, non disposto ad abbandonare la legge delle guarentigie, minacciando in caso contrario persino di abdicare, per cui il tentativo naufragò.

 Dieci anni più tardi il re non fu più così ostinatamente deciso a salvare la legge delle guarentigie, né tanto meno abdicò di fronte alla conciliazione Stato- Chiesa , ma in quegli anni molte cose erano cambiate, al posto del compassato Orlando vi era il ben più risoluto Mussolini, in luogo dell’Italia libera le vi era l’Italia fascista. La trattativa che avrebbe portato alla tanto sospirata conciliazione prese il via il 6 agosto 1926 in modo molto informale, da una parte vi era il consigliere di stato Domenico Barone, dall’altra il professor Francesco Pacelli, esponente dell’alta borghesia romana, noto avvocato concistoriale, ben introdotto presso la Santa Sede, fratello del nunzio apostolico in Baviera mons. Eugenio Pacelli, futuro Pio XII (15). Nei tre anni seguenti la trattativa proseguì tra la più assoluta segretezza anche se non pochi furono gli intoppi, soprattutto dalla parte italiana, in parte creati da quel mondo laico e libera le (i senatori Croce, Alberini, Einaudi) che continuava ad essere un assertore della formula cavouriana “ libera Chiesa in libero Stato” e perciò difensore della legge delle guarentigie. Le resistenze più forti e pericolose vennero però, dall’interno dello stesso partito fascista, è il caso del filosofo Giovanni Gentile assertore dello Stato etico e dello squadrista Roberto Farinacci che anche se da una prospettiva differente vedeva nella Santa Sede un potenziale ostacolo al regime. A partire dal 1927 il partito fascista vide emergere da una parte la corrente vicina a Gentile che in sostanza era per il mantenimento della legge delle guarentigie, dall’altra la corrente pro conciliazione appoggiata da Mussolini (16).

 Il duce non ebbe difficoltà a portare il partito dalla sua, era troppo interessato alla realizzazione della conciliazione, più che un peccato di vanità, riuscire cioè dove altri grandi statisti avevano fallito, era l’interesse politico a prevalere in lui. Si poteva pensare infatti di controllare completamente una società  per la stragrande maggioranza cattolica, senza scendere a compromessi con la Chiesa ? Senza in altri termini, quella sospirata pacificazione che gli avrebbe fatto ottenere il plauso delle masse cattoliche e delle gerarchie ecclesiastiche? Questo sapeva era il solo mezzo per ottenere il controllo non solo politico ma anche morale e culturale della società civile, in modo tale da riuscire a raggiungere quella saldatura con lo Stato fascista che gli avrebbe assicurato non solo la stabilizzazione del regime ma soprattutto la sua maturazione in senso totalitario.

Dall’altra parte la Chiesa cattolica aveva interesse a risolvere una volta per tutte la questione romana, l’idea di un papa prigioniero in Vaticano non faceva più breccia nei cuori dei cattolici, né degli  Stati tradizionalmente vicini, viceversa nelle alte sfere ecclesiastiche si iniziava a prospettare la figura di un pontefice più dinamico, un papa come si disse allora, in viaggio per l’Italia e l’Europa per meglio diffondere il credo cristiano. Non solo, Pio XI aveva accolto positivamente l’ascesa al potere di Mussolini (la sua giovinezza fatta di ateismo e anticlericalismo non pesava più), non gli dispiacque neppure il ripulisti in senso anti libera le che aveva adottato nel paese, in quanto vi vedeva una netta chiusura con quel libera lismo risorgimentale che la Chiesa considerava da sempre con sospetto. In più le alte gerarchie ecclesiastiche vedevano nel fascismo un argine fondamentale contro il pericolo di una possibile deriva socialista e comunista (17).

 Quando il 4 gennaio 1929 morì il rappresentante del governo Domenico Barone, Mussolini in persona seguì le trattative fino alla loro conclusione (18). L’11 febbraio 1929 alle ore 12 nel palazzo apostolico Lateranense avvenne la firma solenne (19), fu una sorpresa per tutti, per il popolo italiano, per gli altri Stati stranieri e le loro rappresentanze, la trattativa fu mantenuta segreta per tutto il triennio in cui si svolse, solo una piccola cerchia in ambo i campi la conosceva, è rimasta probabilmente la più grande vicenda politica italiana in cui si è riusciti a mantenere il segreto fino al suo compimento. I Patti lateranensi, come vennero chiamati gli accordi sottoposti a ratifica, presero il loro nome dal palazzo del Laterano dove avvenne la firma. Essi si componevano di tre documenti ben distinti: un trattato, un concordato e una convenzione finanziaria.

 Il trattato era costituito da 26 articoli, rappresentava un documento di portata storica in quanto poneva fine alla questione romana, non a caso la stampa fascista pose l’accento in maniera particolare su questo aspetto, esaltando la figura di Mussolini che era riuscito laddove fino ad allora,  tutti avevano fallito. Vi era il riconoscimento da parte italiana, dell’esistenza e della piena sovranità dello Stato della Città del Vaticano (20), a sua volta la Santa Sede riconosceva l’esistenza dello Stato italiano dopo 68 anni dalla sua nascita (art. 26), fu ufficialmente abrogata la legge delle guarentigie.

Il concordato era composto da 45 articoli, in essi furono stabilite le norme che regolavano i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica. Vennero riconosciute alcune festività religiose fissate dalla Chiesa (art. 11), venne istituito l’Ordinariato militare per l’assistenza spirituale delle forze armate (art. 3), fu riconosciuta validità civile al matrimonio religioso (art. 34), l’insegnamento religioso già impartito nelle scuole elementari avrebbe dovuto essere allargato anche alle scuole medie (art. 36), furono privati dei diritti civili (lo Stato si impegnava a non impiegare in un servizio pubblico) i sacerdoti apostati o colpiti da censura (art. 5). Vennero aboliti l’exequatur e il placet regio per la nomina dei vescovi (art. 24), i vescovi stessi avrebbero dovuto prestare giuramento di fedeltà allo Stato prima di prendere possesso della loro diocesi (art. 20). Vi fu il riconoscimento delle organizzazioni dipendenti dall’Azione cattolica italiana (art. 43).

 La convenzione finanziaria per finire, stabiliva un indennizzo che lo Stato doveva versare alla Santa Sede per la perdita dello Stato pontificio e dei beni degli enti ecclesiastici, stando alle disposizioni della legge delle guarentigie, l’Italia avrebbe dovuto pagare la somma di 3.160.501.112,76 (le rate annuali mai riscosse dalla Santa Sede aumentate degli interessi) ma a quanto sembra Mussolini si oppose, per cui l’art. 1 della convenzione stabilì che lo Stato avrebbe dato 750 milioni in contanti e un miliardo in consolidato 5 per cento al portatore (21).

 I giornali di allora, da ambo le parti, esaltarono l’accordo con titoli ad effetto: “L’inizio di una nuova era per l’Italia e la Cristianità. Una grande vittoria politica e spirituale del Regime” (22),o ancora “L’accordo di Roma esalta i valori supremi della religione e della Patria” (23), per finire con “Trionfo di Fede e inizio di storia nella Conciliazione” (24). La popolazione accolse con autentici bagni di folla la notizia, è fuor di dubbio che in un sistema politico autoritario come quello italiano del 1929, sia la stampa che la folla erano asserviti al regime e non possono essere presi a termometro veritiero delle sensazioni di allora ma è evidente che anche in un contesto libera le quegli accordi avrebbero ottenuto il plauso della maggioranza degli italiani. La stessa stampa straniera, in questo più rispondente alla realtà, ne fu entusiasta. Mussolini venne paragonato a  Luigi Bonaparte dell’anno 1849, ovvero come il restauratore dell’ordine sociale e dei valori religiosi e morali, o ancora fu paragonato a Napoleone III nei giorni del congresso di Parigi (1856). Il duce era cosciente di avere ottenuto un enorme successo politico e nell’intento di sfruttare la grande notorietà sciolse la Camera chiamando gli italiani ad esprimersi, con metodo plebiscitario, per una lista bloccata di 400 candidati scelti preventivamente dal Gran Consiglio del fascismo. Le elezioni si tennero il 24 marzo,  la stragrande maggioranza degli elettori espresse un voto favorevole alla lista ma fu tutta una farsa, che non serve come prova della reale presa che ebbero gli accordi tra l’elettorato (25).

Quando i Patti Lateranensi giunsero in parlamento per la ratifica, non vi furono particolari difficoltà e vennero quasi immediatamente approvati, solo in Senato vi fu un accorato discorso di Benedetto Croce in loro opposizione e al momento della votazione uno sparuto gruppo di senatori votò contro, si trattava dello stesso Benedetto Croce, Luigi Albertini, Alberto Bergamini, Emanuele Paternò, Francesco Ruffini e del mio concittadino lo spoletino Tito Sinibaldi (26).

 Tanto il trattato che il concordato incominciavano con le parole “In nome della Santissima Trinità”, ho detto in precedenza quali fossero le motivazioni che avevano spinto Mussolini a cercare in tutti i modi la conciliazione, vale la pena ricordare le parole che gli disse Benedetto Croce nel discorso al Senato sopra citato: “accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa vi sono quelli pei quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza” (27). In base all’articolo 1 dello Statuto Albertino l’Italia era da considerare uno Stato confessionale, almeno formalmente, gli anni che vanno dal 1861 al 1929 (in particolare la seconda metà dell’800) ci hanno mostrato una classe politica e una nazione che nella sostanza adottarono una legislazione e dei comportamenti da Stato laico e libera le, in cui a partire dalle leggi Siccardi (1850) il regime separatista si era sovrapposto a quello confessionale. Con il 1929, sia nel trattato, che nel concordato si riaffermava quell’art. 1 dello Statuto che dichiarava la religione cattolica religione dello Stato, non si trattava di un semplice richiamo, vi era la volontà di una interpretazione tradizionalista, conservatrice e anacronistica del regime, in contrasto con la passata prassi libera le. Fu l’ennesimo e a mio parere decisivo colpo di piccone di Mussolini contro quello che rimaneva dello Stato libera le di matrice risorgimentale, per buona parte già affossato il 28 ottobre 1922. Come scrisse il Popolo d’Italia in data 15 febbraio 1929, l’Italia tornava ad essere uno Stato confessionale, in base all’art. 1 questa era stata una sua caratteristica da sempre, ma superato il paradosso liberale (nella forma Stato confessionale, nella sostanza Stato laico) adesso assumeva una vera figura giuridica.

 Non c’è da stupirsi quindi nel leggere quello che disse papa Pio XI, il 13 febbraio 1929, in occasione di un incontro con i professori e gli allievi dell’Università del Sacro Cuore: “…Siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola libera le…” (28). Questa presunta luna di miele in realtà celava insidie sia per il regime che per la Chiesa , la cosa apparve evidente nel maggio del 1931 quando lo squadrismo fascista attaccò iscritti e sedi dei circoli giovanili di Azione Cattolica. Quest’ultima pur non svolgendo attività politica, si occupava del campo sociale che viceversa il regime pretendeva di controllare completamente. In particolare gli veniva rimproverato di inquadrare sindacalmente i lavoratori in contrapposizione ai sindacati fascisti e di avere quali dirigenti, esponenti del vecchio partito popolare avversi al regime (29). L’accordo del 2 settembre 1931 ridusse il margine di competenze dell’organizzazione cattolica  ma in cambio gli valse il mantenimento della sua autonomia, ormai però tra il fascismo e la stessa si era creato un clima di reciproca diffidenza e al suo interno, negli anni ’30, iniziò a crescere quella nuova leva politica che da lì a poco avrebbe preso parte alla resistenza e alla creazione della repubblica italiana.

1946-48: l’articolo 7 della Costituzione, un compromesso ambiguo

Il 2 giugno 1946, un’Italia ancora in parte sotto le macerie di una guerra tremenda, fu chiamata a decidere il suo destino. In quella storica giornata si votò per il referendum sulla forma istituzionale dello Stato (monarchia o repubblica) e per i deputati dell’Assemblea costituente. Il 10 giugno la Corte di Cassazione dichiarò ufficialmente la vittoria della repubblica, il 25 giugno vi fu la prima riunione dell’Assemblea costituente che avrebbe avuto il difficile compito di scrivere la legge fondamentale dello Stato, aprendo una nuova era per l’Italia. La guerra aveva spazzato via uomini, istituzioni, dinastie e statuti, unica costante sembrava essere rimasta la Chiesa e in una fase di ricostruzione dello Stato, come fu quella tra il 1943-48, questo suo vantaggio, alla fine, pesò molto nel determinare alcuni principi fondamentali del nuovo ordinamento giuridico.

 Qualcosa era però cambiato anche nella visione politica della Chiesa e non poteva essere diversamente, nell’ottobre del 1942, Enrico Falck, un noto industriale milanese, promosse nella propria abitazione una riunione a cui aderirono importanti esponenti del vecchio partito popolare e noti cattolici libera li: Alcide De Gasperi, Stefano Jacini, Giovanni Gronchi, don Primo Mazzolari, Achille Grandi solo per citarne alcuni (30). Scopo dell’incontro era quello di gettare le basi programmatiche per una nuova stagione politica che sarebbe sorta con la ormai prossima fine del regime, venne decisa inoltre la fondazione di un nuovo soggetto partitico che prese il nome di Democrazia Cristiana. Il Vaticano fu chiamato a dare la sua benedizione, vi fu una esitazione iniziale dovuta alle divisioni che si crearono in seno alla segreteria di Stato, tra la posizione del segretario di Stato per gli affari ecclesiastici Domenico Tardini, contrario alla nascita di un partito cattolico per le implicazioni che avrebbe avuto nelle relazioni Chiesa e Stato e la posizione del sostituto della segreteria di Stato, Giovanni Battista Montini (futuro Paolo VI), il quale viceversa pensava che un partito cattolico avrebbe fatto gli interessi della Chiesa e del paese (31). Questa seconda tesi ebbe la meglio anche perché Pio XII, a differenza del suo predecessore, non vedeva con sospetto i partiti cattolici, per cui non solo vi fu la tanto attesa benedizione al nuovo soggetto politico ma a questa si accompagnò fin dall’inizio  un massiccio appoggio economico, elettorale e logistico, il Vaticano accantonate le perplessità aveva deciso di mettere in campo il suo maestoso apparato.

 Il primo impegno elettorale, il voto del 2 giugno, vide la Chiesa appoggiare con decisione la Democrazia Cristiana che non a caso ottenne la maggioranza relativa nell’Assemblea costituente con il 35,2% di voti. Per quanto concerne il referendum istituzionale le cose furono diverse, i Savoia cercarono fino all’ultimo di ottenere l’appoggio della Santa Sede senza riuscirvi, la linea seguita da quest’ultima fu quella della più assoluta neutralità. Il clero tanto secolare che regolare votò in maggioranza per la monarchia ma le alte gerarchie ecclesiastiche non diedero alcuna indicazione di voto (32). Quando il 25 giugno 1946 si riunì per la prima volta l’Assemblea costituente, la Chiesa si trovava nella posizione di che aveva in mano tutti gli assi in grado di permetterle se non proprio di indirizzare completamente, quanto meno di determinare su alcuni punti centrali che più gli interessavano, i lavori della stessa. I Savoia (su cui nonostante i Patti Lateranensi, pesava la colpa di aver fatto cessare il millenario potere temporale della Chiesa ) erano stati buttati fuori dall’Italia, il nuovo avversario comunista poteva essere vinto grazie all’avvicinamento che si stava attuando proprio in quegli anni con gli Usa, in più il presidente del consiglio Alcide De Gasperi era un democristiano e democristiana era la maggioranza relativa dei deputati eletti all’Assemblea costituente, il papa dormiva sonni tranquilli e ne aveva ben donde.

 È risaputo che la costituzione repubblicana entrata in vigore il 1 gennaio 1948 fu il risultato di un grande compromesso tra le tre anime più importanti dell’allora schieramento politico italiano: la cattolica, rappresentata dalla democrazia cristiana; l’operaia, espressione del partito comunista e socialista; e la vecchia anima risorgimentale che faceva capo ad alcuni partiti minori democratici e libera li. L’art. 7 rientrò in questo gioco, fu in altri termini il risultato del compromesso tra la democrazia cristiana, braccio politico del Vaticano e il partito comunista.

 Per meglio coordinare i propri lavori, l’Assemblea costituente aveva creato al suo interno una commissione che venne denominata dei Settantacinque che avrebbe dovuto redigere il progetto costituzionale, sottoponendolo successivamente all’approvazione della stessa. Apparve chiaro fin dai lavori interni alla commissione che sull’articolo 5 del progetto che sarebbe diventato successivamente l’articolo 7 della costituzione, i parlamentari democristiani non avrebbero fatto neppure un passo indietro, non sarebbero addivenuti ad alcuna concessione. Riporto brevemente quello che scrisse un noto storico a proposito di quanto appena detto: “Fu largamente diffusa l’impressione che la democrazia cristiana dovesse adempiere una consegna ricevuta dall’alto” (33), i suoi parlamentari sembrarono in quel frangente “…sentinelle con le quali non si discute” (34).

 Il primo successo in tal senso venne ottenuto in sede di Commissione dove avvenne la discussione del progetto costituzionale e in cui prese forma l’art. 5 (che ricordo divenne poi art. 7 della costituzione), in esso fu riconosciuta la Chiesa come entità indipendente e sovrana ma e questo fu il punto cruciale, vennero confermati gli accordi del 1929, ammettendo in questo modo che i Patti Lateranensi entrassero nel dettato costituzionale. Artefici di questo primo compromesso storico della repubblica italiana furono Giuseppe Dossetti per i democristiani e  Palmiro Togliatti per i comunisti. Se per il primo le motivazioni sono fin troppo logiche, anche la posizione comunista inizialmente poco comprensibile, ad una attenta analisi risultava fondata su un ragionamento razionale. Togliatti fece una disamina della situazione italiana che per certi aspetti risultò non molto dissimile da quella fatta da Mussolini nel periodo 1926-29, egli sapeva che riproporre in quel frangente lo scontro Chiesa – Stato, rialzare come si disse allora lo “storico steccato”, avrebbe messo in pericolo la futura egemonia del partito comunista su una larga fetta di quelle masse popolari che erano nella stragrande maggioranza cattoliche. A questo si deve aggiungere che la stessa questione delle relazioni tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica era vista come un problema minore rispetto a tematiche economico-sociali che rappresentavano i veri cavalli di battaglia del partito comunista. Si pensava, a ragione, che fare concessioni su un campo che oltretutto interessava meno avrebbe poi consentito, come avvenne, di ottenere concreti benefici su materie che si ritenevano più importanti. Non a caso quando il progetto sull’art.5 della Commissione passò all’esame dell’Assemblea Costituente divenendo l’art. 7 della costituzione, le discussioni furono tutt’altro che roventi, la politica ecclesiastica aveva un posto assolutamente secondario nei programmi dei partiti di allora (tutti tranne la democrazia cristiana),  gli schieramenti politici erano concordi nel non mettere in discussione né la portata dei Patti Lateranensi, né ricercavano un nuovo Concordato. Anche coloro che al momento della votazione si espressero contro, lo fecero in quanto ritenevano che su molte questioni non si era fatta chiarezza e sarebbe potuto sorgere di conseguenza, una contraddizione tra il detto articolo e altre norme costituzionali, senza per altro fare nessun altra preclusione teorica.

 La discussione generale sul progetto costituzionale avvenne in Assemblea costituente tra il 4 e il 21 marzo 1947, la discussione specifica si completò nella seduta del 25 marzo. L’art. 7 venne approvato definitivamente nella notte tra il 25 – 26 marzo 1947, questo fu il responso dell’Assemblea: voti favorevoli 350 (democrazia cristiana, partito comunista, fronte dell’uomo qualunque); voti contrari 149 (partito socialista, partito d’azione, partito repubblicano, democrazia del lavoro e un deputato cristiano – sociale); i libera li arrivarono divisi (Benedetto Croce e Ivanoe Bonomi erano assenti, Nitti, Ruini e Orlando votarono a favore) (35).

 Il vecchio paradosso libera le, in parte “sanato” dal fascismo, venne riproposto dalla costituzione repubblicana, una costituzione che sanciva l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (art. 3), l’eguaglianza e la libertà di tutte le confessioni religiose di fronte alla legge (art. 8), che stabiliva formalmente la natura laica e libera l – democratica dello Stato italiano, ammetteva al contempo nell’art. 7 il riconoscimento dei Patti Lateranensi. In altri termini riconosceva la confessionalizzazione dello Stato mettendo in pericolo la sua stessa sovranità e autonomia decisionale in tutti quei campi ove vi potevano essere gli interessi del mondo ecclesiastico (36). Da qui l’ambiguità di quel compromesso, il paradosso che tornava a riproporsi, come si poteva infatti parlare di eguaglianza di tutte le confessioni (art. 9) e nel contempo riconoscere validità costituzionale ad un atto come i Patti Lateranensi che conteneva sia nel Trattato che nel Concordato il richiamo all’art. 1 dello Statuto Albertino “la religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato”. Come si poteva giustificare l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, con l’art. 5 del Concordato, per cui qualsiasi sacerdote apostata o irretito da censura non poteva essere assunto come insegnante né confermato in tale ruolo, né poteva entrare a far parte di un ufficio o impiego pubblico (37). Si era creato più o meno volontariamente un autentico “mostro giuridico” che legittimava il cattolico a parlare di Stato confessionale e il laico a difendere la sostanza laica della costituzione. Era il solito imbroglio all’italiana che avrebbe creato in futuro tante incomprensioni e ambiguità. Come ha scritto giustamente Sergio Romano, il 1 gennaio 1948 i Patti Lateranensi e la Costituzione repubblicana erano stati chiusi insieme con un lucchetto che si poteva aprire solo se la Chiesa avesse voluto. Se è vero infatti che il II comma dell’art. 7 sostiene che eventuali modificazioni dello stesso, se accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale è altrettanto vero che entrambe devono avere la volontà di apportare tali modifiche. In altre parole lo Stato italiano non poteva   denunciare i Patti come se si fosse stati di fronte ad un normale trattato internazionale, se avesse voluto procedere su questa strada avrebbe dovuto adottare una legge di revisione costituzionale con lo scopo di modificare l’art. 7 della costituzione.

Conclusione

L’art. 7 non è stato sottoposto a revisione costituzionale come avrebbe meritato, le ragioni sono varie e in parte non dissimili da quelle che avevano portato Mussolini e Togliatti, non proprio due devoti seguaci della Chiesa , a farle così tante concessioni. I Patti Lateranensi campeggiano ancora nella confusa scena giuridico – politica italiana anche se non sono più gli stessi, una loro parte consistente, il Concordato, è stato modificato nel 1984 attraverso una intesa tra lo Stato italiano e la Chiesa , nel tentativo di sanare le molte ambiguità e i numerosi paradossi di cui ho sopra parlato. Non è oggetto di questa ricerca l’analisi di questo importante episodio che ha in parte corretto gli errori commessi in passato. Resta ancora molto da fare in termini di laicizzazione dello Stato, chi vuole questo non è un anticlericale è soltanto un cittadino che vorrebbe vivere in un paese che fosse  più moderno e libera le, in cui il cattolico potesse libera mente seguire i suoi precetti e il non cattolico fosse in grado di agire secondo la propria coscienza, senza ostacolarsi a vicenda o obbligare l’uno alle idee dell’altro. Non mi resta, a conclusione di questo breve riassunto storico di quelle che sono state le principali tappe dello scontro tra Chiesa e Stato, provare a dare una risposta al quesito con il quale avevo aperto questo lavoro. L’art. 7 della costituzione repubblicana è stato il coronamento del sogno risorgimentale (in parte vanificato dal concordato fascista) efficacemente racchiuso nella formula “ libera Chiesa in libero Stato”, o viceversa è frutto di un’altra impostazione politico – ideale? Come risulta piuttosto chiaramente dall’ultima parte di questo saggio è evidente la mia risposta. Non credo nell’art. 7 come una tappa conclusiva di un ideale tour nei rapporti Chiesa – Stato che si era aperto a partire dalla metà del XIX sec. Ritengo che l’art. 7 non abbia nulla a che vedere con la formula cavouriana che simbolicamente aveva fatto da corollario ideologico alla prima parte della dialettica tra le due istituzioni.

Politicamente il periodo 1946-48 appare profondamente diverso rispetto alla seconda parte dell’800, sono due fasi storiche completamente distinte e anche se sono d’accordo con coloro che sostengono che la storia muta molto lentamente, mai come in questo caso si ha l’impressione che tra i due periodi vi sia una distanza molto superiore al cinquantennio effettivo che li divide. Dalla nazionalizzazione delle masse, alle due guerre mondiali, all’emergere dei totalitarismi, lo scenario politico aveva assunto altre forme, per cui sembrava quasi fisiologico che certe fortunate idee potessero apparire (a mio avviso a torto) anacronistiche e non percorribili se lette nel nuovo contesto. Ma al di là di questo che può sembrare una giustificazione dei padri costituenti, l’aspetto che più lascia perplessi è la cesura ideale tra un mondo risorgimentale che aveva puntato alla creazione di uno Stato laico (se non nella forma, sicuramente nella sostanza) che sebbene incompleto aveva fatto dell’Italia un paese moderno e libera le, lontano parente di quei piccoli e bigotti staterelli che avevano imprigionato la penisola fino ad allora e la realtà post seconda guerra mondiale che è tornata a riproporre anche sostanzialmente il modello di Stato confessionale. L’Italia ne è uscita confusa, si è entrati in una fase di stanca, in termini di modernità e libera lismo e nonostante le varie correzioni nell’ultimo trentennio del ‘900, l’errore costituzionale commesso allora continua a creare problemi ancora oggi.

Avremmo bisogno di ridefinire meglio i rapporti Stato – Chiesa , in questo ambito sarebbe necessario creare una nuova cornice giuridico – costituzionale che metta fine a tante incomprensioni e chiarisca molte ambiguità rimaste in sospeso, occorrerebbe uno Stato che definisse la sua natura di ordinamento giuridico laico, libero da ogni interferenza religiosa e che nel contempo riconosca e difenda la libertà della Chiesa . Sarebbe necessaria una Chiesa che non abusasse della sua libertà per condizionare lo Stato ma al contrario fosse rispettosa delle sue prerogative. La formula “ libera Chiesa in libero Stato” pur se apparentemente datata continua ad apparire la più rispondente alla risoluzione di questa dialettica. Come nel 1861 l’Italia sembra essere non più al passo dei tempi, anzi in molti campi siamo in una fase di totale arretramento, è il caso della ricerca medico – scientifica e della tutela di elementari diritti individuali, come allora serve modernizzazione e liberalizzazione e come allora è la difesa della laicizzazione dello Stato che può garantirci questo, non la sua anacronistica confessionalizzazione. Il laicismo italiano è come un fiume carsico, emerge in certe fasi storiche per scomparire in altre, unica costante è il suo avversario, la Chiesa , che non lo riconoscerà mai è farà di tutto per boicottare le sue conquiste in ogni tempo e con modalità sempre differenti. Trovo illuminante la frase pronunciata da Stefano Jacini, cattolico e membro dell’Assemblea costituente “Non vi è mai stata, non vi è, e presumibilmente non vi sarà mai, la possibilità di separazione assoluta fra i due poteri, in un paese dell’Occidente europeo e in Italia in modo speciale. Non vi è mai stata e non vi sarà perché l’europeo non è divisibile. La Chiesa si può combattere; con la Chiesa si può patteggiare; ma la Chiesa non si può ignorare, e questo è un dato di fatto che diciannove secoli di storia confermano” (38). Era un dato di fatto quando si discusse e approvò l’art. 7 della costituzione, lo è tutt’oggi.


Note

1) Gabriele De Rosa, Il secolo che va dal 1848 al 1948, non è soltanto un periodo ricchissimo di eventi che hanno portata epocale nella storia italiana ( non ultimo la nascita del Regno d’Italia proclamata dal parlamento il 17 marzo 1861 e la fine del potere temporale della Chiesa avvenuto con la breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870), contiene in sé anche degli interessanti spunti simbolici, esso infatti si apre con la concessione da parte del re di Sardegna Carlo Alberto, il 4 marzo 1848, dello Statuto Albertino che rappresentò la carta costituzionale del futuro Regno d’Italia e si chiude con la promulgazione della costituzione repubblicana il 1 gennaio 1848, tutt’ora in vigore.

2) Gabriele De Rosa, Età Contemporanea, ed. Minerva Italica, Bergamo 1989, p. 202.

3) Le leggi Siccardi prendono il loro nome dal ministro della giustizia e degli affari ecclesiastici Giuseppe Siccardi che ne fu l’artefice teorico. In esse era previsto l’abolizione del foro ecclesiastico, delle eccezioni di incompetenza dei tribunali ecclesiastici a favore del clero, del diritto d’asilo di cui godevano le chiese e i luoghi di culto. Limitavano inoltre le pene per l’inosservanza delle festività religiose, vietavano agli istituti e ai corpi morali ecclesiastici e laici di acquistare immobili e di accettare donazioni e lasciti testamentari senza autorizzazione regia e senza un obbligatorio parere del Consiglio di Stato. Vennero promulgate dal re Vittorio Emanuele II  il 9 aprile 1850.

4) Fu l’impegno parlamentare del Cavour in difesa delle “leggi Siccardi” a farlo emergere nel panorama politico piemontese. Nell’ottobre del 1850 venne nominato ministro dell’agricoltura e del commercio dal presidente del consiglio D’Azeglio, e nel novembre del 1852 fu chiamato dal re a ricoprire la carica di presidente del consiglio.

5) Carlo Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia 1848-1948, ed. Laterza, Roma 1984, pp.65-67.

6) Ivi, pp. 78-79.

7) Arturo Carlo Jemolo, Chiesa e Stato in Italia, dalla unificazione a Giovanni XXIII, ed. Einaudi, Torino 1965, p. 23. Il Cavour si avvalse per la difficile trattativa, di due persone di sua fiducia, il padre Carlo Passaglia e Diomede Pantaleoni, un medico marchigiano molto conosciuto a Roma.

8) La legge delle guarentigie si divideva in due parti denominate titoli. Il titolo I disciplinava “le prerogative del sommo pontefice e della Santa Sede”, in esso si stabiliva che al papa sarebbero stati concessi i palazzi del Vaticano e Laterano e la villa di Castel Gandolfo, senza però riconoscergli alcuna sovranità territoriale. Gli erano assicurati onori sovrani, non sarebbe stato responsabile di fronte alla giurisdizione penale italiana. Gli attentati e le offese contro la sua persona venivano puniti con le stesse pene stabilite per gli attentati e offese al re. Poteva tenere proprie rappresentanze diplomatiche all’estero e accoglierne presso di sé, poteva disporre dei suoi consueti corpi armati ( guardia nobile, guardia palatina, guardia svizzera, gendarmi) e di un ufficio telegrafico. Lo Stato inoltre si impegnava a corrispondere una dotazione annua di L. 3.225.000 pari a quella che prima gravava sul bilancio dello Stato Pontificio. Il titolo II disciplinava “le relazioni dello Stato con la Chiesa ”, lo Stato rinunciava al controllo sugli atti e le leggi delle autorità ecclesiastiche, al giuramento di fedeltà dei vescovi, al previo assenso per la riunione dei concili. Manteneva il proprio controllo sulle nomine a benefici ecclesiastici e gli atti concernenti beni degli enti ecclesiastici.

9) Sergio Romano, Libera Chiesa . Libero Stato?Il Vaticano e l’Italia da Pio IX a Benedetto XVI,ed. Longanesi, Milano 2005, p.16.

10) Christopher Duggan, Creare la Nazione. Vita di Francesco Crispi, ed. Laterza, Roma 2000, p.391.

11) Arturo Carlo Jemolo, op. cit., p.49.

12) Il direttore spirituale altri non era che un sacerdote che in base alla legge Casati (1859), aveva il compito di impartire l’insegnamento religioso nelle scuole secondarie, la sua nomina spettava al ministro della pubblica istruzione.

13) Guido Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’Unità 1848-1876, ed. Laterza, Roma 1996, p.265.

14) Ibid.

15) Il Popolo d’Italia, 14 febbraio 1929. In una intervista rilasciata dal prof. Pacelli al giornale quale testimonianza di come si giunse alla conciliazione, viene descritta minuziosamente l’intera trattativa, in particolare il noto avvocato romano raccontò che tra lui e il Barone vi furono 110 conversazioni, mentre per ben 129 volte fu ricevuto in udienza privata dal Santo Padre, in molte di queste udienze partecipava anche il segretario di stato mons. Gasparri. Dopo i primi contatti informali la Santa Sede nominò un proprio delegato ufficiale nella persona di mons. Francesco Borgongini Duca, segretario degli affari ecclesiastici straordinari. Nel corso della trattativa emersero altre importanti figure da ambo i lati, fu il caso di Alfredo Rocco (ministro della giustizia), Dino Grandi (sottosegretario agli esteri), Francesco Giunta (sottosegretario alla presidenza del consiglio) e mons. Pizzardo.

16) Ivi, 12 febbraio 1929.

17) Agli inizi del 1923 vi furono i primi contatti ufficiosi tra Mussolini e il cardinal Gasparri, in essi si stabilì di mantenere aperti canali segreti tra il governo e la curia che delegò quale suo rappresentante il gesuita Pietro Tacchi Venturi. È noto come da questi contatti il governo chiese prima la testa del segretario del partito popolare don Luigi Sturzo (1923-24), quindi il suo esilio 25 ottobre 1924 (anche se su questa vicenda non si conosce fino a che punto si fosse spinta la richiesta del governo alla Santa Sede), ricordo che si arrivò fino allo scioglimento dello stesso partito popolare  nel novembre del 1926. La Chiesa sacrificò il partito popolare perché sapeva che questo avrebbe creato attriti con il regime, ma soprattutto perché Pio XI non era un estimatore né dei partiti cattolici, né tanto meno delle istanze democratiche più volte sollevate da don Luigi Sturzo.

18) Il Popolo d’Italia, 13 febbraio 1929.

19) La firma fu apposta dal primo ministro e capo del governo Benito Mussolini quale plenipotenziario del re Vittorio Emanuele III e dal cardinal segretario di Stato Pietro Gasparri, plenipotenziario di Pio XI.

20) Le autorità fasciste per giustificare il trattato sostennero che l’Italia aveva disconosciuta la sovranità territoriale del papa dal 1870 al 1929, sovranità che perdurava da almeno 12 secoli, era loro dovere porre termine ad una anomalia.

21) Sergio Romano, op. cit., p.75.

22) Il Popolo d’Italia, 12 febbraio 1929.

23) La Nazione, 12 febbraio 1929.

24) La Tribuna, 13 febbraio 1929.

25) Quasi in tutte le sezioni si votava a scheda aperta, le due schede, tanto la favorevole che la contraria erano riconoscibili, se a questo si aggiunge una situazione politica che vedeva la totale assenza di partiti, rimane poco altro da dire. Anche le poche migliaia di voti contrari sembrano essere volute ad arte  dal regime per giustificare l’enormità del risultato a suo favore.

26) Sergio Romano, op. cit., p.76.

27) Ibid.

28) Arturo Carlo Jemolo, op. cit., p.240.

29) Ivi, p. 258.

30) Sergio Romano, op. cit., pp. 96-97.

31) Ibid.

32) Arturo Carlo Jemolo, op. cit., pp. 300-301. La democrazia cristiana era divisa per aree geografiche con un nord repubblicano ed un centro – sud  monarchico, i quadri del partito erano però repubblicani e non a caso nel suo ultimo congresso la parte repubblicana era risultata in netta maggioranza.

33) Ivi, pp. 302-303.

34) Ibid.

35) Sergio Romano, op. cit., pp. 100-101; Arturo Carlo Jemolo, op. cit., p. 315.

36) Carlo Ghisalberti, op. cit., p. 414.

37) Sergio Romano, op. cit., p. 99; Arturo Carlo Jemolo, op. cit., pp. 304-314. Sulla contraddizione sorta tra l’art. 3 e l’art. 7, molto interessante fu il discorso tenuto in Assemblea costituente dal noto giurista e azionista Piero Calamandrei che affermò l’inconciliabilità tra la libertà religiosa e la libertà di coscienza da una parte e lo Stato confessionale riproposto dai Patti Lateranensi, dall’altra.

38) Sergio Romano, op. cit., p.100; Arturo Carlo Jemolo, op. cit., p. 307.

Bibliografia

Guido Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’Unità 1848-1876, Roma 1996, ed. Laterza.

Carlo Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia 1848-1948, Roma 1994, ed. Laterza.

Arturo Carlo Jemolo, Chiesa e Stato in Italia dalla unificazione a Giovanni XXIII, Torino 1965, ed. Einaudi.

Sergio Romano, Libera Chiesa. Libero Stato? Il Vaticano e l’Italia da Pio IX a Benedetto XVI, Milano 2005, ed. Longanesi & C.

Gabriele De Rosa, Età Contemporanea, Bergamo 1992, ed. Minerva Italica.

Christopher Duggan, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Roma 2000, ed. Laterza.

Fonti a stampa

Il Popolo d’Italia 1914-1945

Il Giornale d’Italia 1901-1944

La Nazione 1859

La Tribuna 1883-1929

l’Unità 1924

Corriere dell’Umbria 1870-1876

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