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Il racconto è liberamente ispirato ad una storia vera accaduta nella provicina di Buenos Aires, dove nel 2010 il bambino boliviano Ezequiel Ferreyra è morto per un tumore al cervello a soli 7 anni dovuto alla manipolazione di prodotti agrochimici nella fattoria dove lavorava insieme alla famiglia. Questa storia si inserisce nell’ambito più ampio di uno scandalo nell’industria avicola in Argentina, dove si è scoperto come l’impresa Nuestra Huella sfruttava il lavoro di immigrati boliviani (molto spesso irregolari) con metodi da medioevo, costringendoli ad avvalersi del lavoro dei loro bambini. L’impresa era uno dei maggiori produttori ed esportatori di uova in Argentina. C’è stata un’inchiesta, ma a quanto ho capito (potrei sbagliarmi) credo che al momento sia ancora aperta e nessuno sia stato condannato in via definitiva. Hanno girato anche un documentario su questo scandalo, si chiama “La cascara rota” di Florencia Mujica. In tutto ciò, io sono rimasta particolarmente colpita dalla storia del bambino Ezequiel, e così ho deciso di scrivere un piccolo racconto di fiction per sensibilizzare sul tema dello sfruttamento dell’immigrazione e del lavoro minorile. Spero di essere riuscita a rendere la mia storia abbastanza efficace.

Da quando Oscar Fernandez se n’era andato, Pablo Duarte non era più riuscito a mangiare nemmeno un uovo. Non poteva fare a meno di pensare a lui. Soprattutto quel giorno, mentre camminava sulla strada vicino alla granja parandosi di tanto in tanto lo sguardo con la mano. In quella campagna il sole delle tre del pomeriggio bruciava gli occhi e le braccia scoperte ma non picchiava in testa, il verde lo rendeva mite. Una campagna ricca. Ricca e verde come i campi da golf della vicina Pilar. Il maestro delle elementari procedeva a passo lento e pensava a Oscar, a quando si addormentava sul banco. Quel bambino era stato il suo alunno più sfortunato. Figlio di emigranti boliviani, proprio di quelli che stavano lì alla granja. E lavorava anche lui a raccogliere le uova, insieme a tutta la sua famiglia. Il pomeriggio dopo la scuola, a volte anche la sera. Non ce l’avrebbero mai fatta i suoi genitori senza le sue mani e quelle dei suoi fratelli, che si occupavano delle griglie più basse e spesso anche del veleno per le mosche. Tre anni prima si erano trasferiti nella provincia di Buenos Aires in cerca di una vita migliore, a suo padre avevano promesso un lavoro stabile e una casa confortevole. Invece erano finiti a vivere accanto a migliaia di galline, in un capannone senza porte o finestre; e dovevano tenere un ritmo di raccolta di almeno 11.500 uova, uccidere le mosche e spazzare montagne di guano. Da lunedì a lunedì, fino a sedici ore al giorno.

Alla faccia di giganti come Borges e Cortazar, al maestro Duarte venne in mente Bukowski, anche se con la sua terra non c’entrava niente. “La vita non sa nulla degli anni” recitò ad alta voce il verso di una delle sue poesie, pensando con amarezza che l’ubriacone di Los Angeles aveva proprio ragione, visto che in angoli come quello il mondo era stato capace di fermarsi al Medioevo. Oscar aveva sette anni e non solo dormiva sul banco per colpa del lavoro, ma spesso arrivava a scuola con il volto graffiato dagli arbusti dei campi o dal filo spinato dei recinti che non riusciva a passare bene. Perché era distratto, quel bambino, e probabilmente dormiva anche per strada oltre che in classe. Ma il maestro lo lasciava fare e lui, chissà, forse sognava un mondo libero dal lavoro e senza galline. Un posto come la Patagonia dove, gli avevano raccontato, i grandi sono ricchi e i bambini non passano la vita rinchiusi in una granja. A Oscar piacevano le balene di Puerto Madryn, e uno degli ultimi giorni di scuola aveva disegnato un uovo grande come tutto il quaderno. Un po’ perché non ci vedeva bene, ma soprattutto perché quello lì non era un uovo di gallina. “È di balena .” aveva detto, e non c’era stato verso di convincerlo dell’assurdità della cosa. “Le balene sono mammiferi, Fernandez, non sono mica come le galline!” Ma il mondo di quel bambino funzionava a uova e lui aveva risposto che ci sarebbe andato un giorno a Puerto Madryn, e che le avrebbe trovate. Perché è lì che le balene s’incontrano, s’innamorano e mettono su famiglia. Questo gli raccontava sua mamma la sera prima di andare a dormire, e tanto bastava a Oscar per sognare.

Su quella strada di campagna, oltre a Bukowski il maestro Duarte pensò anche al passaggio di un libro, L’Idiota di Dostoevskij. Con un’ondata di affanno, sempre la stessa, come ormai gli capitava da due settimane a quella parte. La granja si trovava a soli 100km dalla civilissima Buenos Aires dove le uova sporche del lavoro dei bambini se ne stavano impilate nelle corsie dei supermercati, dentro a insospettabili cartoni immacolati. Pablo scacciò un paio di mosche che gli ronzavano attorno, e poi alzò per l’ennesima volta gli occhi al cielo. Anche quel giorno era di un azzurro intenso, come sempre a inizio estate. E come faceva sempre ogni volta che lo ammirava, nonostante tutto, brevemente sorrise. Forse aveva lo stesso colore del mare di Puerto Madryn, e il suo pensiero andò di nuovo alle balene. Il piccolo Oscar gli aveva raccontato che arrivavano in primavera e, una volta fatte le uova, all’inizio dell’estate si dirigevano altrove. In cerca di un posto migliore, come avevano fatto i suoi genitori. E prima di andarsene in esplorazione lasciavano le loro uova al sicuro, lontano dalla vista degli uomini. Così Pablo sperò che quel bambino fosse proprio lì adesso, e che finalmente le avesse trovate le sue uova di balena . E nell’amarezza anche questo gli strappò un sorriso, breve e incolore. In tutti quegli anni i bambini gli avevano insegnato moltissimo: che bisogna vivere con le regole del cuore e della fantasia, fermarsi a guardare, alzare la testa, usare tutti i sensi e trovare le cose che i grandi non sanno più vedere. Ma subito dopo il maestro elementare ricordò con rabbia che quell’angolo di mondo era maledettamente ingiusto, perché lì alcuni di loro erano costretti a lavorare invece che fare tutto questo. E con la rabbia venne a galla pure la solita domanda, quella che aveva in gola ormai da due settimane. Lo investì di nuovo, in un’ondata d’affanno. Era la domanda di quel libro, L’Idiota di Dostoevskij. Una domanda cui, come il principe Myškin, anche Pablo non sapeva dare una risposta. “Perché, Signore, i bambini muoiono?” Mormorò abbassando gli occhi a terra. Poi li alzò di nuovo, puntando lo sguardo alla fine della strada. Un uomo stava arrivando nella direzione opposta. Era vestito con un paio di jeans e una camicia di stoffa buona. E quando furono uno davanti all’altro, il maestro si fermò per scambiare due parole di convenienza. La figlia era una delle sue alunne. E poi, “Lo sa cosa fanno in quella granja?” gli chiese a bruciapelo dopo i convenevoli, senza nemmeno pensarci. E un attimo dopo, tornando in se, si stupì della sua stessa audacia.

Pure l’uomo che gli stava di fronte si stupì, ma solo perché la domanda gli sembrava sin troppo ovvia. Il maestro delle elementari ha una certa autorità, così ci mise qualche secondo per sputare fuori la risposta che giudicò più opportuna. “Si lo so, ci lavorano gli immigrati.” Disse infine in un tono tra il contrito e il seccato, adatto a qualsiasi corrente di pensiero. Pablo scaccio l’ennesima mosca. Forse con un gesto un po’ troppo marcato, visto che l’altro si sentì in obbligo di interpretare malamente il suo silenzio. “Ha ragione, signor maestro, è uno scandalo. La raccolta delle uova è una vera porcheria. E noi siamo fortunati, qui. Mio cognato vive a Pilar, dice che loro non possono nemmeno fare un barbecue in giardino per colpa delle mosche. Arrivano a frotte. Roba da Medioevo!” E poi agitò anche lui la mano a scacciarne una, con lo stesso gesto di stizza. Sì, sapeva di Oscar Fernandez, commentò quindi di sfuggita, in risposta alla seconda domanda scomoda del maestro. I giornali non ne avevano parlato, ma gli sembrava di ricordare che quel bambino fosse in classe con sua figlia. Anzi, proprio lei glielo aveva raccontato. Una ragazzina sveglia, anche se troppo piccola per capire.

Pablo scosse il capo, in silenzio. D’altronde, neanche lui capiva come si possa morire a soli sette anni di un tumore al cervello a causa della manipolazione di prodotti agrochimici. Proprio quelli che dovevano uccidere le mosche, avevano finito per uccidere Oscar. E poi lo scosse ancora, una seconda volta. Perché un bambino era morto sul lavoro, nessuno ne aveva parlato e nessuno era stato ancora punito. Si, Pablo proprio non capiva. Invece il signore di fronte a lui non si chiedeva molto. “È triste” sospirò facendo cadere le braccia sui fianchi. “Ma in quelle condizioni sono incidenti che possono succedere” chiosò. E forse di fronte allo sguardo severo del maestro si sentì un po’ colpevole, perché poi aggiunse che non era una questione d’indifferenza, ma che semplicemente gli era passato di mente, con tutto quello che aveva da fare non ci aveva più pensato a quel bambino boliviano morto nella granja. Era una cosa vecchia di due settimane, ormai. E poi le scuole avevano già chiuso, e il Natale era alle porte. E comunque sì, qualcuno avrebbe dovuto fare qualcosa, intervenire, risolvere il problema. Per colpa delle mosche nemmeno quell’anno si sarebbe riuscito a fare un barbecue decente.

© Sintesi Dialettica – riproduzione riservata

Foto di Kyle Peyton – Unsplash.com

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