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Lo studio di Antonio Rosmini sulla Rivoluzione francese e, più in gener al e, sulle lotte collettive contro il dispotismo, oltre a proporre un saggio di liber al ismo cattolico, suggerisce una riflessione sul risentimento giuridico e sul desiderio di libertà e giustizia che accomuna ogni uomo. L’articolo, oltre a riproporre le posizioni di Rosmini sugli avvenimenti francesi, sintetizza il suo pensiero , sostenuto da una visione dell’uomo come fonte di diritto da tutelare nel cammino verso la perfettibilità, sulla Chiesa e sulla lotta per la libertà.

La riflessione politica di Antonio Rosmini, è segnata dal viaggio a Milano e dall’incontro con il Manzoni. Due avvenimenti che offrono al Roveretano una diversa prospettiva dei temi legati alla rivoluzione, al liberalismo e alla difesa dei diritti civili, orientandolo verso quel liberalismo cattolico di cui  diverrà un fulgido esempio.

Rosmini accantona, infatti, le idee giovanili e rivaluta le sue posizioni sulla rivoluzione. Non più male assoluto, opera di elementi opposti ai valori del Cristianesimo, bensì esperienza umana di giustizia. Erano divenuti intollerabili i comportamenti tipici del diritto individuale, “si chiedeva insomma, anche se non ancora con parole chiare, meno privilegi e più giustizia, meno individualismo e più solidarietà, meno stato e più società. E il diffuso risentimento giuridico  per questi diritti negati era il segno più chiaro che i popoli orami stavano per volgere le spalle all’assolutismo, e cercavano a tentoni la democrazia” (1).

Nel descrivere la riflessione rosminiana sulla Rivoluzione Francese è necessario premettere alcuni elementi. Innanzitutto occorre riflettere sul ruolo degli intellettuali che hanno operato affinché la rivoluzione si potesse realizzare e su chi, invece, nulla ha fatto per perfezionare e guidare gli ideali di giustizia ed uguaglianza. Inoltre, è necessario comprendere le diverse forme di dispotismo che si oppongono al sentimento di libertà.

Rosmini si pone una domanda basilare: di chi è la vera colpa del mancato controllo di sentimenti giusti scaturiti all’inizio della Rivoluzione? Inutile negare che il difetto è da addossare alla Chiesa Cattolica, che mancando l’appuntamento con la storia, ha lasciato libera la strada a chiunque si proponesse come garante della libertà (2).

Un errore denunciato anche da Tocqueville, che nella riflessione contenuta in “L’Ancien Regime e la Rivoluzione” scrive: “grave errore è il pensare che le società democratiche siano naturalmente ostili alla religione: nulla nel cristianesimo, e naturalmente nel cristianesimo, è radicalmente contrario allo spirito di tali società, anzi molti elementi essi contengono per queste favorevolissimi” (3).

I principi fondamentali dell’ ’89 non erano contrari alla dottrina cattolica, se di dottrina si stava parlando, e non, invece, di un ingiustificato rifiuto politico ad un qualsiasi confronto circa i diritti reclamati dalla popolazione francese. La mancanza di un leader morale determinava il compimento di un nuovo dispotismo, governato da una classe dirigente protetta da una sfera di onnipotenza. Si restringeva in maniera evidente lo spazio di libertà dell’individuo, perché, come sottolinea Muratore (4), il dispotismo individuale divenne dispotismo collettivo.

Non può essere tralasciato il fatto che per “il Roveretano la Rivoluzione francese rappresenta in primo luogo il culmine di quella tensione a ridefinire l’ordine sociale e politico in maniera conforme alla dignità di ogni uomo, dalla quale è interamente percorsa l’epoca moderna” (5).

La libertà per la quale un popolo intero lottava era calpestata e violentata. Infatti: “la libertà «questo nome terribile scritto sul carro degli uragani» è al principio di tutte le rivoluzioni. Senza di essa, la giustizia sembra inimmaginabile al ribelle. Eppure viene il momento che la giustizia esige la sospensione della libertà. Il terrore, piccolo o grande, viene allora a coronare la rivoluzione. Ogni rivolta è nostalgia d’innocenza e anelito all’essere. Ma la nostalgia prende un giorno le armi e si assume la colpevolezza totale, cioè l’omicidio e la violenza” (6). 

La Rivoluzione Francese: dall’idea al fatto. Evoluzione del pensiero rosminiano e centralità della Rivoluzione nel cammino sociale dell’uomo.

Analizzare in maniera compiuta la riflessione rosminiana sulla Rivoluzione aiuta a comprendere il cammino sociale dell’uomo, osservando errori e opportunità.

È bene premettere che in Rosmini sussiste un pessimismo di fondo che non condanna aprioristicamente gli uomini, bensì li giustifica perché consapevole del loro limite, nella misura in cui le azioni siano rispettose dei diritti e della libertà e permeate di realismo.

Con la Rivoluzione Francese pensiero e storia si fondono. La società diventa più consapevole, i governanti si confrontano con un caso storico che li pone, o così dovrebbe, in una situazione di sostanziale insicurezza, inducendoli a scelte orientate a garantire il bene comune.

Gli elementi positivi della Rivoluzione favoriranno l’emergere di esperienze positive che si realizzeranno nei decenni successivi, quelli negativi saranno protagonisti di mostruosità che, ingiustamente, hanno indotto parte della cultura cattolica a dimenticare quelle positività che non sono tralasciate dalla riflessione rosminiana.

Dopo il viaggio a Milano del 1826, Rosmini considera la Rivoluzione francese un fatto storico, da giudicare in quanto tale, abbandonando i pregiudizi, prettamente ideologici, in lui plasmati da una giovanile adesione alle teorie di Maistre, Bonald, Haller.

Un giudizio approssimativo ed ideologico di un fatto talmente importante risultava insoddisfacente per chi, come Rosmini, intendeva portare avanti una seria indagine sul tragitto storico della società. L’evento non era valutabile esclusivamente sulla base dei momenti più drammatici che lo caratterizzano: il Terrore, il Tribunale rivoluzionario, la Vandea, la scristianizzazione e il tentativo di instaurare il culto della Dea ragione (7). La Rivoluzione Francese è finalmente da lui analizzata, scrive Campanini, “non come irruzione del demoniaco nella storia ma come evento storico nel quale sono inestricabilmente connessi bene e male, valori e disvalori” (8).

Innanzitutto, ad avviso del Roveretano, è necessario proporre una valutazione storica.

I fatti francesi ponevano fine all’Antico Regime, fondato sul feudalesimo e sugli intollerabili privilegi dell’aristocrazia. Lo stesso feudalismo che rese la Chiesa “equivoca”, perché assoggettata al potere temporale. Emerge un primo giudizio: la Rivoluzione come fatto storico che conclude l’esperienza del feudalesimo, favorendo il processo di civilizzazione, basato soprattutto sulla tutela della libertà e dei diritti.

Rosmini riconosce, infatti, delle virtù ai movimenti che, pur utilizzando modalità antireligiose, sono caratterizzati da un’istanza di libertà che li lega al Cristianesimo. Bada alla sostanza delle proposte di innovamento, in quanto “forse quell’inquietudine stessa dei popoli che nel manifestarsi prende delle forme al tutto materiali, perché un sentimento che ha bisogno di espandersi, si veste si quelle forme che per primo incontra, sebbene a lui inadeguate (…) e si nasconde per avventura un bisogno di religione dove pare che più trionfi l’irreligione” (9).

Come evidenziato prima, la serietà del giudizio consiste nella qualità della lettura dei bisogni delle masse. Bisogni che, ad avviso del Roveretano, è doveroso purificare e guidare. Senz’altro, tale leadership spettava alla Chiesa, che, mancando l’appuntamento, ha perso il controllo sulle istanze rivoluzionarie, proponendo una sterile denuncia e un’inconsistente accusa di empietà. Eppure, doveva essere la Chiesa la protagonista del passaggio da una società segnata dalla prevalenza dell’elemento signorile, alla società civile, nella quale si sarebbero potute realizzare le indicazioni cristiane di solidarietà e amore.

Le parole di Rosmini sono chiare: “accordisi dunque che già da molto tempo la società civile sentiva il bisogno di fare un passo innanzi verso il suo ideale. Non v’ha dubbio, che se le presone più rette e religiose avessero preso a coltivare amorosamente il buono istinto sociale, aiutando la società a dare innanzi quel passo a cui ella aspirava, esse avrebbero meritato immensamente dell’umanità, salvandola dagli orrori rivoluzionari, e accreditata la virtù, glorificata la religione. Ma le più rette e le più religiose persone sgraziatamente non intesero allora il fervido voto, il bisogno pressante della società in cui vivevano, né la propria vocazione. È questa la più grande sciagura delle nazioni” (10).

Inoltre, continua Rosmini, la Chiesa non ha saputo leggere i meccanismi della storia che pure avrebbero offerto l’esatta visione del problema e, di conseguenza, di tutte le rivolte sociali.

Come scrive Camus: “perché tale impresa divenisse possibile e si sentisse legittimata, è occorso innanzitutto che la Chiesa, che ha in questo una responsabilità infinita, con un movimento che si determina pienamente nell’Inquisizione e si perpetua nella complicità con i poteri temporali, si mettesse dalla parte dei padroni assumendosi il compito d’infliggere il dolore. Michelet non s’inganna quando vuol vedere, nell’epopea rivoluzionaria, due soli grandi protagonisti, cristianesimo e rivoluzione” (11).

Ed è proprio nella proposta di una “teoria delle rivoluzioni” che Rosmini approfondisce il problema da un punto di vista più generale, utile a spiegare anche gli avvenimenti storici precedenti.

Nella Naturale Costituzione della società civile propone una speculazione che contrappone, nelle diverse epoche storiche, il dispotismo e la rivoluzione. Uno è diretto prodotto dell’altro. La rivoluzione si realizza per opposizione alla soppressione della libertà e dei diritti, ma quando si conclude, è un altro dispotismo a prendere il posto del precedente. Questo accade perché ad essere sovvertita non è la sostanza della società bensì la forma, che contiene gli stessi vizi del precedente potere.

La domanda di giustizia, inoltre, è proporzionale al grado di civiltà, e, ad avviso di Rosmini, è possibile distinguere due tipologie di le rivoluzioni. La prima è quella aristocratica, in cui l’esigenza di libertà e quindi il grado di civiltà, è presente solo in una parte della società. È il caso della rivoluzione inglese del 1688.

La seconda è quella rivoluzione collettiva, definita “democratica” perché coinvolge una larga maggioranza della popolazione, e quindi testimonia una larga condivisione di valori tra gli associati. È il caso della rivoluzione francese.

La rivoluzione democratica, se dal punto di vista teorico è apprezzabile perché esalta le esigenze di un intero popolo, dal punto di vista pratico, presenta difficoltà di gestione che, come scrive Rosmini, possono condurre ad “un assolutismo talora anco maggiore”. Una esecuzione deviata delle istanze popolari, conduce a una successiva sommossa contro il nuovo potere. “Così gli stati camminano di rivoluzione in rivoluzione, e non possono arrestarsi in questa serie di dolorose vicende fino a tanto che non abbiano espulso dai visceri de’ loro governi il dispotismo sotto tutte le forme, e così non li abbiano resi veramente civili obbligandoli ad operare non più con l’arbitrio ma secondo la norma di giustizia” (12).

Come si applica tale sistema alla Rivoluzione francese?

Rosmini, non critica i rivoluzionari, bensì, come scritto precedentemente, la Chiesa che nei secoli precedenti aveva guidato e moderato le problematiche della popolazione, ma che, nell’89, era venuta meno al suo compito di accompagnatrice, lasciando che le passioni prendessero il sopravvento sulle giuste esigenze.

La Rivoluzione, scrive D’Addio (13), “mette a nudo la crisi profonda della cultura ecclesiastica del Settecento, la sua incapacità di corrispondere alle nuove esigenze della società”. Di fianco a tale critica, Rosmini denuncia gli eccessi della Rivoluzione, incurante del limite degli individui e, pertanto, votata ad un assurdo perfettismo.

Nella Filosofia Politica sono presenti riflessioni che si completano con quanto scritto nella Filosofia del Diritto. Infatti, se nella Filosofia Politica, si struttura la critica anti-perfettistica, nella Filosofia del Diritto, si concretizza tale disapprovazione.

Nella Filosofia politica emerge l’idea di una rivoluzione fallita perché densa di un’astrattezza fatale, che ha dato vita ad un sistema fragile e feroce.

Nella Filosofia del Diritto, la Rivoluzione Francese, viene considerata come un momento storico necessario, provocato dall’insurrezione contro l’assolutismo e l’elemento signorile (14).

Il fallimento di questa espressione popolare è da rintracciare nelle teorie perfettistiche dei capi rivoluzionari. I giacobini hanno irrigidito i principi morali eterni, perché avevano soppresso ciò che fino a quel momento sosteneva tali principi, “predicatori del Vangelo, hanno voluto fondare la fraternità sul diritto astratto dei romani. Ai comandamenti divini hanno sostituito la legge che ritiene dovesse essere riconosciuta da tutti, poiché era espressione della volontà generale. La legge trovava la propria giustificazione nella virtù naturale, e a sua volta la giustificava. Ma non appena si manifesta una sola fazione, il ragionamento crolla e ci si accorge che la virtù ha bisogno di giustificazione per non essere astratta” (15).

Rosmini riconosce alla Rivoluzione una funzione determinante, perché portatrice di esigenze e istanze degne della massima considerazione, concludendo che “dopo la sanguinosa esperienza, dopo tanta discussione di principi esausta non possiamo ora portarne tranquillo giudizio, ed accordiamo senza pericolo, che dentro all’abisso della malignità, s’agitava un germe buono e salutare” (16).

Un germe che, di fronte alla violenza, alle ingiustizie e agli errori commessi durante una così decisiva epoca storica, ha dato vita ad una concezione dello stato e del potere nuova, perché consapevole dei diritti e dei doveri fino omessi dai governanti europei.

L’abbaglio dei rivoluzionari è stato quello di assolutizzare il conflitto tra l’elemento signorile e quello sociale e, valutazione decisamente ingannevole, aver pensato di poter risolvere le questioni sociali attraverso l’azione politica. Voler invadere qualunque campo sociale con la politica, implica, come necessaria conseguenza, l’assegnazione ad un individuo, o ad un gruppo di legislatori, di un potere di intervento del tutto incontrollato. Un simile dispotismo ha posto in secondo piano la peculiarità tipica rivoluzionaria, da difendere con tutte le forze perché ancora in stato embrionale: la lotta al dispotismo. È, difatti, con la Rivoluzione francese che viene, per la prima volta, esaltato con smisurato vigore un problema di simile importanza. Con la Rivoluzione trova spazio, almeno nello fase iniziale, la necessità del confronto, della libera discussione.

“Lunga, pubblica, libera discussione: gli individui di cui un popolo è composto non si possono intendere se non parlano molto tra loro (…) se finalmente a forza di ragionare insieme non si giunge a convincersi, che in molte cose già si conviene senza saperlo, le sole espressioni, le sole forme variando, non il pensiero intimo che è uguale” (17).

È da tale convergenza che nasce la consapevolezza collettiva dell’ingiustizia, formandosi quello che Rosmini definisce “risentimento giuridico”, che non può essere solo il privato dissenso, artefice di un vago donchisciottismo, apprezzabile ma inefficace.

“Sotto le società medioevali,” scrive Muratore, “segnate dal rapporto signore-servo, una larga fascia di popolazione non aveva coscienza di tanti suoi diritti. I margini di libertà dei sudditi erano molto ristretti, ma non avendo essi consapevolezza di essere privati di qualcosa cui avevano diritto, non sorgeva in loro il risentimento giuridico, quindi sotto quest’aspetto non creavano grossi problemi a chi li governava. L’avvento della modernità coincide proprio con la graduale presa di coscienza, da parte dei cittadini, dei propri diritti. I popoli spingono i governi a concedere le libertà dovute, e non possono essere fermati, perché la giustizia, una volta che se ne ha coscienza, più è calpestata più splende davanti ai popoli, tenendoli inquieti fino all’attuazione del diritto violato.” (18). Lo sbaglio dei governanti è rintracciabile nell’idea di ritenere il potere una “quantità fissa”, che conduce adun’azione politica volta al mantenimento di un potere privo di socialità e altruismo.

Il monito di Rosmini è quanto mai attuale: “il diritto razione prescrive che si conceda di mano in mano più libertà a quegli individui o a quei popoli che più ne pretendono: riuscendo contrario allo stesso diritto il ritenere costantemente una uguale porzione di potere sopra gli uomini, quasi che questa porzione di potere fosse una proprietà così ben determinata e definita, come sarebbe un terreno, di cui una volta divenuto l’uomo proprietario, più non ne perda la proprietà, ma la tiene entro confini immutabili, che da nessuno possono smuoversi senza ingiuria” (19).

Conclusione

Alla luce di quanto scritto appare chiara la lettura della Rivoluzione francese, e in generale di tutte le rivoluzioni politiche, considerate come il momento in cui viene posta la centralità della persona umana, unico vero fine della società. 

Rosmini, concludendo che la persona è diritto, esalta le ragione delle rivoluzioni che lottano per questo principio. “Rosmini” scrive Addante “fa un’analisi filosofica, pedagogica e sociologica. Le radici sono nella perdita del concetto ontologico di persona, con la chiusura dell’uomo nelle strettoie della corporeità e della “sola vita animale”. L’uomo depersonalizzato è un uomo sganciato dal pensiero retto (…) la morte della persona dell’uomo e della società produce l’eclissi della ragione e dei valori, l’uomo dal pensiero malato, la violazione della libertà, della verità, della virtù e della felicità, la perdita della dimensione comunitaria. Tutti questi mali sono segni della morte della persona” (20).

La rivoluzione, quindi, come momento fondamentale di unione collettiva, spinta dalla necessità di progresso civile, provocata da uno smisurato “risentimento giuridico” e guidata da una forza capace di renderla libera dalle passioni fuorvianti. “Rosmini vide tutta l’intimità spirituale e l’alto senso delle rivoluzioni politiche, quando le concepì come la graduale presa di possesso che una parte sempre maggiore di umanità fa, sempre più, di se stessa” (21).

Un lavoro lungo e ed esaltante dedicato alla realizzazione di una società mai perfetta e, proprio per questo, sempre perfettibile. 


Note

1) U. Muratore, Rosmini e la cultura della Rivoluzione francese, in Atti del XXIII Corso della Cattedra Rosmini, Sodalitas- Spes, Stresa-Milazzo 1989, p. 15.

2) Ivi. p. 16.

3) A. Tocqueville, L’Ancien Régime e la Rivoluzione, in Scritti politici, a cura di N. Matteucci, Utet, Torino 1969, p. 613.

4) U. Muratore, Rosmini e la cultura della Rivoluzione francese, Stresa – Milazzo, 1989, p. 18.

5) E. Botto, La rivoluzione francese e l’idea di democrazia – Note sul dibattito filosofico- politico del primo Ottocento, in «Vita e pensiero », 1989, n. 10, pp. 671-682.

6) A. Camus, L’uomo in Rivolta, Bompiani, Milano 2002, p. 121.

7) M. D’Addio, Rosmini e la rivoluzione francese, in Rosmini e la cultura della Rivoluzione francese, Stresa- Milazzo 1989, p. 72.

8) G. Campanini, Rosmini Politico, Milano 1990, p. 85.

9) A. Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, a cura di C. Riva, Brescia 1966, pp. 258-259.

10) A. Rosmini, Filosofia del diritto, cit. n. 2089, Padova 1969, p. 1401.

11) A. Camus, L’uomo in rivolta, Milano 2002, p. 128.

12) A. Rosmini, Della naturale costituzione della società civile, in Filosofia Politica, a cura di S. Cotta, Milano 1985, p. 690.

13) M. D’addio, Rosmini e la Rivoluzione francese, Stresa-Milazzo 1989, p. 81.

14) G. Campanini, Rosmini Politico, Milano 1990, p. 63.

15) A. Camus, L’uomo in rivolta, Milano 2002, pp. 147-148.

16) A. Rosmini, Filosofia del diritto, cit. n. 2088, Padova 1969, p. 740.

17) Op. cit. n. 2105, pp. 1407-1408.

18) U. Muratore, Conoscere Rosmini, Edizioni Rosminiane, Stresa 2002, p. 131.

19) A. Rosmini, Filosofia del diritto, cit. n. 592, Padova 1969, p. 333.

20) P. Addante, La centralità della persona in Antonio Rosmini, Edizione Spes – Milazzo 2000, p. 49.

21) G. Capograssi, Saggio sullo Stato, vol. I, in Opere, a cura di M. D’Addio; E. Vidal, Milano 1959, p. 110.

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