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Declinare al femminile le professioni è un’attività linguistica dovuta, come per ogni altra parola del vocabolario, semplicemente perché (ancora) la lingua italiana lo prevede. 

Già nel 2022 il «Dizionario Treccani» ha inserito a lemma esplicitata le forme femminili di aggettivi e nomi, riequilibrando – al pari di quello che faticosamente avviene o dovrebbe avvenire nella società – questioni su cui da secoli gravano asimmetrie e stereotipi di genere.

Quella prospettata, tuttavia, non è una disputa risolta, poiché se ne discute quotidianamente, non raramente con espedienti argomentativi singolari (si pensi a: «non mi piace, suona male») o mediante dichiarazioni politiche anche grottesche. 

Nel dibattito pubblico, la resistenza ai termini al femminile riguarda le professioni in cui si eserciti in qualche modo autorità o potere, tipicamente riferibili alla sfera maschile. Tale resistenza o polemica non si incontra, invece, nei mestieri casalinghi, di cura o assistenza, agevolmente attribuibili alla sfera femminile.

La questione non è esclusivamente linguistica, ma politica e culturale. 

L’uso del maschile come termine neutro e categoria onnicomprensiva è un espediente discriminatorio per negare presenza e definizione relegando l’essere donna a elemento indifferente.

Eppure, i nomial femminile ricorrono in tutta la storia della nostra lingua: Dante utilizzava il termine ministra; nella cultura cristiana la Madonna viene chiamata avvocata così come Santa Rita, nell’accezione anche più vicina alla professione forense, avvocata dei casi impossibili; Eleonora D’Arborea veniva chiamata giudicessa e Plautilla Bricci architettrice.

Declinare, oggi, i nomi delle professioni secondo il genere significa riconoscere identità e autorevolezza alle donne in ambiti in cui la loro presenza per molto tempo non è stata accordata (le prime magistrate fecero ingresso in un’aula di tribunale soltanto il 5 aprile 1965) o non significativamente rappresentata, per i motivi storico-culturali che hanno plasmato un modello di soggezione femminile noto a chiunque. 

La questione identitaria è di fondamentale importanza per definire o ripristinare una struttura sociale equa e simmetrica in quanto chiarisce lo stato delle cose e dice, di una persona, chi è e cosa è, con riferimento al contesto storico e sociale in cui è inserita. 

Omettere o sminuire il valore del femminile nel linguaggio delle professioni, soprattutto di prestigio, significa determinare l’annullamento linguistico della presenza delle donne in tali ambiti, con conseguenze concrete per la narrazione della stessa realtà e dello stato della questione di genere in un determinato periodo storico.

Una lingua corretta non soltanto dal punto di vista lessicologico, ma anche etico, sociale e politico, segue o può arrivare a ridefinire le esperienze e le persone, e costituisce una sorta di biografia di una società, della sua storia e dei suoi cambiamenti.

© Sintesi Dialettica – riproduzione riservata

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