Dei delitti e delle pene» è un trattato sul diritto penale e contro la pena di morte.
«Dei delitti e delle pene» è un trattato sul diritto penale e contro la pena di morte. In un’età come quella illuminista, incentrata sull’esaltazione della ragione e segnata dalle radicali riforme culturali, giuridiche e istituzionali in tutta Europa, Beccaria sente l’esigenza di creare un’armonia precisa e chiara all’interno dei diversi ordinamenti condannando l’ingiustizia del sistema giuridico vigente all’epoca. Beccaria è contrario alla pena di morte e formula alcune argomentazioni. La prima è sull’illegittimità: la vita dell’uomo appartiene solo a Dio, e un giudice non può certamente decidere le sorti di un altro uomo. L’uomo, stipulando un contratto sociale, non accetterà mai una condizione che permetta allo Stato di ucciderlo perché andrebbe contro il fine stesso per cui è nato lo Stato: la protezione e la difesa dei propri consociati. La pena di morte è contraria al diritto naturale e la sua applicazione significherebbe una contraddizione dello stato sociale, sorto per difendere i diritti naturali dei contraenti.
La seconda argomentazione verte sull’inutilità della pena di morte: da una parte non necessaria in presenza di un ordine politico e sociale, dall’altra, colpevole di generare sensazioni intense, ma brevi ( Beccaria sostiene che la sanzione riguardi solo le impressioni forti e durature. Si riferisce al carcere).
Una terza argomentazione è da ricondurre alla meditatio mortis: la pena di morte è vana perché la morte è una condizione che accomuna tutti gli uomini. La vera sofferenza e la vera punizione consistono nel pensiero della morte da parte di un vivente. Il filosofo, inoltre, critica la religione poiché essa tende alla redenzione del delinquente attraverso un pentimento capace di assicurargli la salvezza eterna.
Beccaria afferma che le pene debbano svolgere una funzione rieducativa e non repressiva in modo da favorire una sicurezza sociale e un’integrazione sociale del criminale pentito. Il fine delle pene è quello di provocare una forma di coazione psicologica nella mente degli uomini in modo da dissuaderli dal commettere i reati assicurando così una pace sociale. L’autore critica aspramente anche la pratica della tortura perché infligge atroci sofferenze sia ai criminali sia agli innocenti – che per sfuggire a tale supplizio si professano ingiustamente colpevoli – con l’intento di sottoporre il presunto reo a parlare. Beccaria condanna questa assurda pratica perchè l’innocente occupa una posizione disagiata rispetto al reo: l’innocente, una volta assolto, avrà subito un’ingiustizia, mentre se il reo, non confessando, sarà assolto.
Si distingue, inoltre, anche il peccato dal reato definendo quest’ultimo come una realtà terrena legata ad un sistema legislativo concordato dagli uomini. La vera giustizia conclude Beccaria consiste «nell’impedire i delitti e non nell’infliggere la pena di morte».
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