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Ogni giorno ingenti somme di denaro si muovono all’interno del Paese, talvolta raggiungendone gli estremi e oltrepassandone i confini. Qualcuno, soprattutto di questi tempi, direbbe che l’economia deve girare, o meglio, ripartire, e che quindi si tratta di una buona cosa. Sicuramente può apparire come tale in superficie. Basta tuttavia esercitare il dubbio, andando più a fondo delle dinamiche, interrogandosi sulla provenienza e sulla destinazione del denaro, sul perché esso circoli, per capire che può esserci altro dietro. Molti gli interrogativi possibili sul denaro: da dove parte? Chi raggiunge? Il suo valore rimane immutato o, in virtù delle risposte alle prime due domande, cambia? Il fine giustifica i mezzi? E se si trattasse di possibili operazioni sospette?

È recente il rimbalzo mediatico della “segnalazione di operazione sospetta” di riciclaggio (cosiddetta “SOS”) inviata l’8 aprile 2020 da un istituto di credito italiano all’ufficio anti-riciclaggio della Banca d’Italia (UIF – Unità di Informazione Finanziaria) e indirizzata da quest’ultima alle procure. Oggetto della segnalazione un giro “strano” di compensi per una conferenza tenutasi nel dicembre 2019 negli Emirati Arabi Uniti, cui ha partecipato, in veste di relatore, il senatore Matteo Renzi, leader di Italia Viva (considerato pertanto soggetto PEP – Political Exposed Person). Il sospetto nasceva dal fatto che il compenso di 33 mila euro veniva versato non direttamente al relatore ma passando per una società italiana di organizzazione di convegni – nata pochissimi giorni prima – mediante un bonifico di 75 mila euro, effettuato da una società statunitense di comunicazione e marketing.

Ma che cos’è il riciclaggio? Fenomeno trasversale, operante su più livelli, il riciclaggio di denaro attraversa l’economia, la finanza, e dunque i mercati, la giustizia, la legge, la concorrenza e, più in generale, l’etica.

Ultimo stadio dell’attività delle organizzazioni criminali, il reato (rectius: delitto) di riciclaggio rappresenta la tecnica mediante la quale il ricavato derivante dalla commissione di delitti (tra cui il traffico di sostanze stupefacenti, il sequestro di persone, il traffico di armi, le estorsioni, il racket) viene fatto riemergere nell’economia legale tramite reinvestimenti effettuati con operazioni – fittizie e non – che ne “smacchiano” la provenienza clandestina. Come di recente evidenziato dal Procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri, per la camorra, la ‘ndrangheta, e ogni altra associazione criminale, il problema non è dato tanto dall’aumentare gli introiti, quanto piuttosto dal riciclarli. La detenzione di denaro contante, infatti, ne limita anche il relativo utilizzo per determinate operazioni. Si cerca allora di ripulire le entrate, così da giustificarle e legittimarle.

Volendo essere più precisi, si potrebbe distinguere tra riciclaggio di denaro sporco e di denaro nero, frutto di evasione fiscale. Quale che sia l’aggettivo da utilizzare di volta in volta, i protagonisti (rectius: gli attori) del money laundering sono sempre più spesso professionisti e intermediari. Il danaro illecitamente percepito miracolosamente riaffiora, ripulito, su qualche conto corrente. Nascono le cartiere, le società veicolo, e il loop degli affari sporchi prosegue: quelle somme verranno riutilizzate in banca, ma anche nell’imprenditoria e nel settore immobiliare e finanziario. Roberto Vito Palazzolo, “in arte” Robert Van Palace, sul quale aveva indagato anche Giovanni Falcone, riciclava dal Sud Africa i soldi sporchi della mafia muovendosi con disinvoltura nelle ambasciate italiane e dicendo di vendere elicotteri per conto di Finmeccanica.

Il punto è che il riciclaggio non riguarda più il solo contante, che rientra sotto l’egida della Banca d’Italia, l’Autorità di Vigilanza più alta in grado. Si tratta anche di lingotti d’oro, di diamanti, di opere d’arte, di guadagni derivanti da slot-machines e da videogiochi online. Col proliferare delle smart technologies, poi, anche il crimine cerca di stare al passo coi tempi. Ecco allora che il riciclatore camaleontico si adegua e s’inventa nuovi metodi di “purificazione”, avvalendosi delle blockchain, facendo breccia anche nella crypto arte.

Da tempo l’ordinamento giuridico italiano combatte il fenomeno adottando la linea della repressione preordinata alla tutela di molteplici interessi: l’ordine pubblico, l’ordine economico e, in particolare, la libertà e correttezza del mercato economico-finanziario. Vari sono gli strumenti a disposizione: il codice penale (che agli articoli 648-bis e 648-ter descrive e punisce due fattispecie di riciclaggio), il Decreto legislativo n. 231 del 2007 (il Decreto Antiriciclaggio, con le modifiche intervenute nel corso degli anni) e la normativa di settore emanata dalle Autorità competenti (capofila delle quali è la Banca d’Italia). La mancata osservanza degli obblighi imposti a più livelli viene accertata dagli uffici ispettivi, dalle Authority e dalla Guardia di Finanza. Ne consegue l’applicazione di sanzioni, sia penali che amministrative (queste ultime sicuramente più immediate) che vengono comminate dalle Autorità di settore (UIF, Banca d’Italia, Consob, IVASS) o dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, con un aggravamento della pena nel caso in cui il reato venga compiuto nell’esercizio di un’attività professionale (bancaria, di intermediazione mobiliare ecc.).

Negli ultimi anni le forze politiche hanno iniziato a incentivare i pagamenti elettronici scoraggiando il contante (è il caso del cashback di Stato 2021), tuttavia ciò non basta ad arginare il problema. Occorre mettere in discussione il brocardo «pecunia non olet», perché è chiaro che – con buona pace di Vespasiano – i soldi un odore ce l’avevano e ce l’hanno tuttora. Più che del passato, il riciclaggio è un fenomeno dei nostri tempi. Per cambiare le cose bisogna agire sul piano della legittimazione, della compartecipazione, del sano esercizio del dubbio e del pensiero critico: per riuscire ad accertare l’origine illecita o riprovevole, anche solo moralmente, del denaro. È la rivincita di Tito, che con “olfatto morale” rimproverava il padre per aver tassato, con la «centesima venalium» (una sorta di Iva) quelli che tuttora sono conosciuti come “vespasiani”.

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