Non mi propongo certo di ripercorrere la lunga vicenda umana e politica di Benedetto Croce e Luigi Sturzo , entrambi nati in un Meridione ormai associato istituzionalmente al Regno d’Italia; né intendo riformulare due biografie molto note perché vi si possa aggiungere qualche elemento inedito.
Due liberalismi “convergenti” nella crisi costituzionale italiana (1922-1925)
Non mi propongo certo di ripercorrere la lunga vicenda umana e politica di Benedetto Croce e Luigi Sturzo , entrambi nati in un Meridione ormai associato istituzionalmente al Regno d’Italia; né intendo riformulare due biografie molto note perché vi si possa aggiungere qualche elemento inedito. Mi limito perciò ad affrontare un tema più circoscritto quale è quello del loro rapporto con il liberalismo. E lo faccio prevalentemente sulla base della documentazione relativa ad un periodo storico decisivo nella loro maturazione intellettuale e nelle vicende politiche dell’Italia, che va dal 1922 al 1925. Credo che soltanto in questo modo sia possibile riguadagnare tratti di originalità.
Un’analisi convincente di tale rapporto implicherebbe un approfondimento della cultura e della lotta politica in Italia nei primi due decenni del Novecento, e un’adeguata comprensione delle posizioni in cui i due personaggi si collocano in epoca giolittiana, giacché per entrambi quest’età rappresenta la fase più rigogliosa della loro lunga vita intellettuale e politica. Nel 1925 Croce ha già compiuto la definitiva elaborazione e sistemazione del suo complesso mondo filosofico e concettuale e Sturzo ha operato la più grande svolta politica nella storia dell’Italia contemporanea con la brillante costruzione del Partito Popolare e la decisa opposizione al totalitarismo. Il filosofo napoletano ha ormai tradotto il suo liberalismo in una categoria eterna dello spirito e il sacerdote siciliano è già in esilio e ha trasferito il suo Cristianesimo nella forma plastica di un liberalismo inattaccabile dal clericalismo: “La libertà è come la verità: si conquista; e quando si è conquistata, per conservarla si riconquista; e quando mutano gli eventi e si evolvono gli istituti, per adattarla si riconquista. E’ un perenne gioco dinamico, come la vita, nel quale perdono quei popoli che non l’hanno mai apprezzata abbastanza per difenderla, e non ne hanno saputo usare per perderla. Perché usare della libertà vuol dire non consentire né la dittatura, né la licenza” (1).
In occasione della pubblicazione della fortunata Storia del liberalismo europeo di Guido De Ruggiero, ne La Critica del 20 settembre 1925 Croce scrive una nota per sottolineare la scottante attualità dell’opera, che serve alla “causa liberale”, compiacersi di una pressoché completa concordia con l’autore e definire teoreticamente la categoria liberale: “Il De Ruggiero ha scelto la migliore via per servire alla causa liberale, che è quella della storia nella sua oggettività, coi fatti e la dialettica dei fatti […] Liberale è chiunque accetti l’idea dello Stato liberale: conservatore, moderato, democratico e perfino socialista, sempre che il socialismo, rinunziando alle rivolte e dittature proletarie e alle utopie, prenda a operare entro quel quadro […] In questo largo senso il liberalismo non si oppone se non ai regimi autoritari, quali che siano, di estremo reazionarismo o di estremo rivoluzionarismo, assolutistico-cattolici o comunistico-materialistici, e altrettali” (2). Di qui ha inizio la lunga e paziente riflessione crociana sul liberalismo, che appare subito, già in prima teorizzazione, contrario ad ogni tendenza totalitaria o dispotica e ad ogni minaccia autoritaria anche se proveniente dalla direzione pseudo-democratica. Nello sfondo (ma, più che nello sfondo, nella sostanza attuale) vi è l’opposizione al fascismo come movimento e come regime, di fronte al quale il liberalismo rimane l’unica difesa della condizione civile, sicché l’epoca giolittiana comincia a raccogliere pure sul piano storiografico il pieno consenso di Croce poi lucidamente espresso nella famosa Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928) , grazie al confronto ravvicinato con il sistema totalitario: “L’opera legislativa e amministrativa, che si venne eseguendo, fu veramente insigne e, poiché non è lontana dalla memoria, basterà ricordarla per sommi capi […] Attivissima la legislazione sociale, con la riforma delle leggi sulla sanità pubblica, le opere pie, gli infortuni del lavoro e il lavoro delle donne e dei fanciulli, coi provvedimenti per la cassa d’invalidità e vecchiaia, con le nuove leggi sul divieto del lavoro notturno dei fornai, sull’obbligo del riposo festivo e settimanale nelle aziende commerciali e negli esercizi pubblici, sull’istituzione degli uffici del lavoro […] Non meno notevole la serie dei provvedimenti a favore del Mezzogiorno e delle isole” (3). E insomma l’azione parlamentare e governativa dell’età giolittiana non viene meno alle concrete attese liberali, persino in ambito culturale con la fioritura di molteplici iniziative editoriali, e l’Italia si avvia a diventare una grande nazione moderna sotto lo sguardo accorto e attivo di un uomo semplice e frugale, devoto alla patria e vigoroso nel senso dello Stato, e la vita scorre “per oltre un decennio feconda di opere e speranze […] e furono quelli gli anni in cui meglio si attuò l’idea di un governo liberale” (4).
Nei Frammenti di etica, che compaiono in volume nel 1922 e che vengono ripubblicati nel 1931 in Etica e politica, si trova una nota molto esplicativa in grado di definire, pur in un momento di grave turbamento e sconforto politico di Croce, la sua tendenza antitotalitaria: “Del resto, quando si sia esperti nei problemi della filosofia pratica e nella storia dell’etica, si vede non vi ha luogo a trattare come problema a sé […] il problema dello Stato. Perché sta bene che si parli dello Stato e, nel parlarne, lo si metaforeggi quasi un’entità; ma, in effetto, lo Stato non è altro che l’uomo nel suo pratico operare e, fuori dell’uomo praticamente operante, non serba realtà veruna” (5). Niente di più fittizio dunque della concezione sostanzialistica e organicistica dello Stato tipica dei sistemi totalitari, di cui Hegel aveva fornito dialetticamente l’idea. Rimane tuttavia che lo Stato liberale non può essere amorfo e indifferente, pur essendo laico anziché teocratico: “A coloro che assegnavano allo Stato la cura del corpo e alla Chiesa quella dell’anima, allo Stato la potenza materiale e il braccio secolare e alla Chiesa i compiti della moralità e della cultura o, peggio ancora, che considerano lo Stato come una forza brutale, peccaminosa e spesso malvagia, che la Chiesa doveva raffrenare, ribenedire e indirizzare, conveniva rispondere che esso ha cura di anime e non di soli corpi, che esercita per suo conto gli uffizi della moralità e della cultura, e non li delega ad altri o non ne accetta da altri il beneficio” (6). Ciò non significa statalismo, né tanto meno esaltazione dello Stato etico, bensì affermazione di uno Stato non neutrale o semplicemente di uno Stato come sintesi di utilità e moralità in virtù di una classe dirigente che non può essere immediata espressione di un solo gruppo di interessi particolari e non possedere invece una visione degli interessi generali e quindi una solida eticità. Come poi il ceto dirigente dello Stato venga selezionato, questo è un altro problema che Croce sfiora nel recensire gli Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca: “Cosicché il problema della formazione di una classe dirigente, di una durevole classe dirigente, si riporta al problema generale e religioso. Né sono io che compio questo riportamento, ma lo stesso Mosca il quale vede la necessità di una religione come forza di coesione morale e, avvertendo che, bene o male, la religione tradizionale o il cristianesimo ha perduto gran parte del suo prestigio e della sua efficacia per una serie di cause […] avvertendo il fallimento della sostituzione della religione cristiana con le tre vuote parole <libertà, eguaglianza, fraternità>, che formano la idiota religione massonica” (7). E’ significativa la totale adesione salveminiana alla teoria di Mosca.
L’ambiguità del pensiero di Croce è qui abbastanza palese, ma non può essere questa a determinare il suo cosiddetto filofascismo, cioè non può essere la proposta (o l’ipotesi puramente teorica) di classe dirigente forte e non fiacca, frutto di una dura selezione politica, destinata ad imporsi violentemente sulla società, a stabilire una vicinanza ideologica che non c’è: “Il Mosca sembra incline a spiegare la fortuna del socialismo in Italia, presso i giovani e gli intellettuali, sullo scorcio del secolo decimonono, come una sorta di ribellione morale contro la corruttela dello Stato liberale. E ci sarà stata anche questa, ma non bisogna dimenticare che in quella dottrina del socialismo marxistico c’era anche, e in primo luogo, una reazione contro l’ideologia democratica, della quale il Marx fu nemicissimo e in favore della teoria della lotta e della forza e della dittatura, sia pure concepita come dittatura del proletariato o dei rappresentanti del proletariato (cioè di una classe dirigente e politica, come poi si è visto in Russia). Ciò spiega come dai giovani marxisti di allora siano venuti tanti nazionalisti, imperialisti, autoritari, conservatori e fascisti, che quasi si può dire che i presenti sostenitori in Italia dello Stato forte non abbiano avuto, direttamente o indirettamente, altra origine. Insomma, il marxismo italiano, se non m’inganno, ha adempiuto in politica lo stesso ufficio di intermediario a ripigliare una più seria tradizione, che in altro mio scritto ho cercato di mostrare avere adempiuto nella filosofia e nella storiografia” (8). La lunga citazione ha lo scopo di evidenziare il movimento oscillatorio del liberalismo crociano negli anni fatidici, più che la pseudo-adesione fascistica, e quel caldo appellarsi al marxismo denuncia una grave difficoltà ideologica, che del resto si ripropone puntualmente nella critica agli “astratti” ideali giusnatualistici e illuministici. La politica come potenza è in realtà una tentazione che attraversa il pensiero di Croce almeno fino al 1924 e non è un caso se nella Prefazione del 1917 alla terza edizione di Materialismo storico ed economia marxistica egli manifesti ancora ammirazione per Marx, “il vecchio pensatore rivoluzionario” che nella teoria politica ha introdotto “il concetto di potenza e di lotta” e ha compreso “come anche ciò che si chiama rivoluzione, per diventare cosa politica ed effettuale, debba fondarsi sulla storia, armandosi di forza e potenza […] e non già confidare nei sermoni moralistici e nelle ideologie e ciarle illuministiche. E oltre l’ammirazione, gli serberemo […] altresì la nostra gratitudine per aver conferito a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni della Dea Giustizia e della Dea Umanità” (9). Simili oscillazioni materialistiche non si trovano certo in Luigi Sturzo , il cui liberalismo è senz’altro molto più limpido e lineare, nonostante tutte le complicazioni contingenti dell’appartenenza ecclesiastica. Ora, è precisamente qui uno degli aspetti della diversità dei due liberalismi, cioè la fiducia incondizionata nella legge superiore e comune oppure l’accettazione realistica della dura legge della storicità. Nei momenti più tragici della storia, il realismo diventa un vizio pericoloso, quasi un cedimento e un tradimento, come lo ha ben descritto Julien Benda. Croce se ne accorge nel 1925 e comincia a correggere le sue formulazioni, che poi daranno il frutto definitivo della Storia d’Europa (1932) dove l’ideale liberale si concretizza nel legame sia con il Cristianesimo che con il giusnaturalismo illuminista.
Luigi Sturzo non perde mai il legame con la profondità libertaria del Cristianesimo che senza alcun dubbio antepone all’apertura modernizzante del giusnaturalismo costituzionale francese: “E’ un errore affermare che la libertà si sia conquistata con la rivoluzione francese e che prima di allora non esistesse;tutto il cammino umano dalla barbarie alla civiltà è stato uno sforzo di liberazione dai vincoli di ingiusta soggezione o di perfida schiavitù;ma chi parlò di una libertà dei figlioli di Dio ed elevò l’uomo all’eguaglianza della vita spirituale, fu quel Vangelo di Gesù Cristo che non conobbe ebrei e gentili, padroni e servi, schiavi o liberi, e che chiamò l’uomo ad adorare Dio in spirito e verità. Egli solo rivendicò interamente la personalità umana, base della vera libertà” (10). La Rivoluzione francese, in quanto movimento conclusivo della moderna liberazione giuridica, è una conquista importante nello Stato costituzionale e democratico, ma essa viene solo ad integrare – dice Sturzo – la profonda libertà del Cristianesimo: “La conquista dello stato moderno fu quella del regime rappresentativo e democratico, il quale domanda come esigenza di vita alcune forme di libertà sociali, che ne rendono effettiva la funzione;cioè libertà di stampa, di riunione e di associazione. Questo passo notevole nella vita dei popoli, che eleva il suddito a cittadino, toglieva alla libertà sociale la caratteristica di privilegio di classe o di casta o arbitrio di dominanti, e la faceva divenire legge uguale e legge propria, metteva sopra uno stesso livello di importanza morale e politica tanto la libertà che l’autorità, i due termini necessari della vita sociale, e tentava di evitarne i contrasti con organismi di compensazione. La divisione dei poteri nel soggetto e nella funzionalità doveva servire a garantire il cittadino dal facile abuso del potere raccolto e confuso nelle mani di pochi o di un solo. La uguaglianza di tutti di fronte alla legge doveva servire a moralizzare tanto l’esercizio dell’autorità che l’esercizio della libertà” (11).
Il punto più basso di torbidezza politica Benedetto Croce lo raggiunge nel 1924, quando in una delle sue Postille, dopo aver accennato alla riforma scolastica di Gentile, difendendola dagli attacchi di Marinetti, prende le distanze dal futurismo ma non dal fascismo e comunque non dalla violenza di piazza: “E non vorrei che con questo, rammentando la mia costante freddezza e avversione al futurismo […] rammentando la mia completa sfiducia verso la fecondità di quel movimento, si pensasse che io, con l’affermare le origini futuriste di quel movimento, intenda estendere lo stesso giudizio di riprovazione dall’uno all’altro. Le mie negazioni, come quelle di ogni uomo ragionevole, sono sempre secundum quid, e non escludono che ciò che è riprovevole per un verso, sia ammirevole per l’altro, ciò che è invalido a un certo ordine di effetti sia valido a certi altri. Io negavo che col futurismo, movimento collettivo e volitivo e gridatorio e piazzaiuolo, si potesse generare poesia […] ma non negavo, e assai riconoscevo, il carattere pratico e praticistico del movimento futurista. Fare poesia è un conto, e fare a pugni è un altro, mi sembra;e chi non riesce nel primo mestiere , non è detto che non possa riuscire benissimo nel secondo, e nemmeno che la eventuale pioggia di pugni non sia, in certi casi, utilmente e opportunamente somministrata” (12). Sono queste le gravi cadute di stile, che esprimono una tendenza realistica pericolosa di fronte alla furia di una violenza ottusa che culmina nell’assassinio di Giacomo Matteotti. Un discorso di questo tipo è certamente fuori della portata morale e religiosa di Luigi Sturzo, costantemente consapevole del pericolo di una trasformazione dei “mezzi” politici in “fini” permanenti dell’organismo totalitario. Nel pensiero del prete di Caltagirone è costante l’idea che la violenza della piazza precede sempre l’abbattimento dell’ordinamento costituzionale e dell’istituto parlamentare e democratico e s’innesta organicamente nel tessuto del regime autoritario di massa.
D’altra parte, Croce entra in contrasto con Giovanni Gentile sin dal gennaio del 1924 per una serie di ragioni filosofiche puntualmente presentate sotto la forma di una dura recensione al secondo volume del Sistema di logica come teoria del conoscere pubblicato da Laterza alla fine del 1923. La critica è davvero pesante sul terreno filosofico e manifesta l’aperto dissidio delle mentalità e delle “predilezioni” culturali. Adesso nell’idealismo dell’amico siciliano egli vede, accanto al misticismo teologizzante, anche una vera confusione concettuale di filosofia e politica, di attualismo e fascismo, sicché la linea del disaccordo si allarga ad un terreno inedito: “Taluni si meravigliano che, col disaccordo di sopra lumeggiato nella concezione filosofica, il Gentile ed io continuiamo a collaborare;ma la loro maraviglia crescerebbe d’assai se apprendessero che quel disaccordo c’è stato sempre, sin dai primi tempi che io conobbi Gentile, sin dalle prime conversazioni tra noi” (13). Non si tratta evidentemente solo di disaccordo filosofico, giacché vi è di mezzo il fascismo e le dispute teoretiche hanno valenza politica, tanto più in quanto Gentile pretende di trasformare il suo attualismo in filosofia della prassi fascista. La rottura totale si verifica puntualmente qualche tempo dopo, nel 1925. A Bologna , nel mese di marzo, si tiene il convegno per la cultura fascista, il cui risultato è il documento stilato da Gentile e sottoscritto da un gruppo eterogeneo di nazionalisti, futuristi, sindacalisti, artisti e scrittori. Diffuso il 21 aprile, il documento ha grande risonanza, sicché viene affidato a Croce il compito di redigere un contromanifesto che porta la data del 1° maggio 1925: “Gli intellettuali fascistici, in congresso a Bologna, hanno indirizzato un manifesto agli intellettuali di tutte le nazioni per spiegare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista […] Nella sostanza, quella scrittura è un imparaticcio scolastico, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocinamenti” (14). La fede fascistica nello Stato etico viene energicamente contrastata con la fede nella libertà delle soggettività e delle coscienze moralmente costituite, “con quella fede che da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva, dell’Italia moderna;quella fede che si compone di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l’educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento (15).
Non vi sono più dubbi. Il liberalismo crociano diventa la componente essenziale di ogni forma di antifascismo in Italia. Persino Gramsci e Salvemini lo devono alla fine riconoscere. E il filosofo napoletano dai primi giorni del 1925, dopo il discorso di Mussolini del 3 gennaio, chiarisce il senso antifascista e antitotalitario del liberalismo, senza riserve mentali: “Con particolare insistenza si ode ripetere in questi giorni che l’ufficio del liberalismo è ormai esaurito e che presente e avvenire spettano al contrasto e alla lotta tra le due fondamentali tendenze, il socialismo o comunismo da una parte, e il reazionarismo o <fascismo> dall’altra. Che questa asserzione non abbia alcun valore dottrinale è cosa che non merita neppure di essere dimostrata: i tentativi che si sono fatti da taluni filosofi di costruirla dottrinalmente mercé i concetti dello Stato forte e dello Stato etico sono filosoficamente illegittimi e versano nel sofisma e nel bisticcio verbale. E, quanto al suo valore di previsione e di profezia, questo non supera il valore di tutte le previsioni e profezie storiche, tutte assai mal sicure ed esposte a inaspettate e ironiche smentite” (16). La guerra contro Gentile, gentiliani e clerico-fascisti è ormai in corso ed è una guerra di culture e di civiltà.
Giovanni Gentile pensa che il liberalismo sia dialetticamente superato e inglobato nel fascismo, ritiene che la nuova dottrina liberale sia incarnata dalla filosofia politica del fascismo e si ostina a credere che la diversità grande dal vecchio liberalismo consista nella condanna del giusnaturalismo contrattualistico e che bisogna dire onestamente “che rispetto al liberalismo di questi piagnolosi oppositori chiusi in quattro formule che son luoghi comuni vuoti di ogni pensiero sinceramente meditato, i fascisti han ragione da vendere quando del liberalismo si fanno bersaglio pei loro colpi più spietati. Nessuna opposizione di principii fu mai più radicale e più rigida […] E quando io per invito della sezione romana dell’Associazione liberale tenni, or non ricordo se nel 1920 o ’21, al Collegio Romano una conferenza sulla dottrina del liberalismo, illustrai largamente la diversità grande dei due modi di concepire la libertà politica, condannando quello classico, giusnaturalistico e contrattualistico, degl’individualisti, dimostrandone l’inconsistenza e il carattere anacronistico” (17). Qui si esprime il contrasto crudele con Croce che si fa esplicito nei “piagnolosi oppositori chiusi in quattro formule”, che sono le quattro categorie crociane dello spirito, e successivamente nella dura critica a “certa vecchia e facile satira dell’idea dello Stato come sostanza etica che fu una volta tenuta per la forma più alta della coscienza liberale laica, ed è ora a base del concetto fascista dello Stato” (18). L’attacco è spietato perché coinvolge una certa interpretazione di Hegel comune in effetti al neoidealismo italiano;ma ai cattolici liberali non può essere mosso lo stesso rimprovero, poiché il loro pensiero si è sempre tenuto lontano dalle derive hegeliane. Perciò Luigi Sturzo non deve attendere il 1925 per nutrire tutte le sue perplessità nei confronti del fascismo e dello Stato etico. Egli può anticipare l’antifascismo liberale con una visione generale coerente e trasparente.
Già nei primi giorni del 1922 il pensiero di Sturzo è chiarissimo. Il 18 gennaio, terzo anniversario della fondazione del Partito Popolare, egli tiene a Firenze un discorso assai notevole su Crisi e rinnovamento dello Stato, nel quale, è vero, assume il solito tono antigiolittiano, ma soprattutto fa presenti i pericoli di un movimento come quello fascista ancora in cerca di un programma “che gli permetta di avere un’idea nel campo della politica interna ed estera” e tuttavia già in possesso di un metodo della violenza consolidato e sperimentato: “Il metodo della violenza è sostanza, è anarchia, è un attentato allo Stato;e dovrebbe essere un fenomeno passeggero. Se tale non sarà, se invece si estenderà, non può non rilevarsi che lo Stato sia impotente, che i suoi organi funzionino male;che una profonda causa dia alimento a questo pullulare e svolgersi di forze antistatali che tendono a investirne i valori morali e giuridici sì da far valutare come nuova fonte di riordinamento sociale coloro che intendono ottenerlo con la violenza privata” (19). Contro ogni eventuale Stato etico vale la concezione sturziana che precede e accompagna la nascita del Partito Popolare, in una rigorosa linea democratica e liberale. Nel discorso tenuto a Milano il 17 novembre 1918, sui Problemi del dopoguerra, peresempio, erano stati già esattamente delineati i fondamenti democratici sia di un partito popolare che di uno Stato liberale, mentre si presentava il programma della partecipazione delle masse alla vita della società italiana: “Farà meraviglia certo a spiriti superficiali e ai liberali dello stampo classico sentire che oggi il problema più significativo e l’elemento di contrasto si basa sopra una ragione di libertà. E non è certo di una libertà formale ed esteriore che intendo parlare, ma di una libertà intima e sostanziale che pervade e informa tutto il corpo sociale” ( (20).
Paradossalmente, Croce sembra adesso (nel 1925) il filosofo di un liberalismo eterno che guarda al tutto e non al particolare, il teorico di un liberalismo giusnaturalistico e metafisico, e Sturzo il filosofo del liberalismo contingente che ha il coraggio di inquadrare immediatamente il fenomeno fascista e di contrastarlo subito nelle sue manovre machiavelliche. Un tale filosofo elabora un suo liberalismo politico, che non si presta forse ad essere assunto per un antico pregiudizio come il liberalismo di tutti, ma che possiede una potenza teorico-pratica di gran lunga più sconvolgente delle varie tergiversazioni di Croce, che stacca il valore assoluto della libertà dalle istituzioni empiriche e mette l’accento sui fini e non sui mezzi. Ciò stranamente suscita attorno a Croce un antifascismo più largo e attorno a Sturzo un antifascismo più ristretto, almeno per l’immediato. L’appello crociano alla dignità del fine aggrega forze e volontà diverse e promuove eterogenee energie morali di opposizione al fascismo, mentre l’istanza sturziana di un liberalismo dei mezzi rischia di essere rinviata a tempi meno drammatici e di promuovere, come in Salvemini, un’aristocratica opposizione al fascismo. Non è un caso se Sturzo e Salvemini sono i primi fuorusciti e Croce il primo resistente “interno” dopo il discorso mussoliniano del 3 gennaio 1925, assieme a Gramsci, al gruppo torinese di Godetti e al nucleo fiorentino dei Rosselli. La dignità della coscienza morale si prende la rivincita sul primato della politica e della forza come somma potenza della realtà storica, e Croce rielabora il nuovo storicismo che si ritrae impaurito di fronte alla potenza bestiale della realtà storica. Se l’interpretazione storiografica del fascismo è debole in lui, la sua opposizione morale diventa sempre più forte e capace di superare gli stessi contrasti tra conservazione e rivoluzione e di accomunare nell’unico dramma e nell’unità della lotta e dell’impegno. Cosa che assume una dimensione religiosa: “Ora chi raccolga e consideri tutti questi tratti dell’ideale liberale, non dubita di denominarlo, qual esso era, una<religione>; denominarlo così, ben inteso, quando si attenda all’essenziale e intrinseco di ogni religione, che risiede sempre in una concezione della realtà e in un’etica conforme, e si prescinda dall’elemento mitologico, pel quale solo secondariamente le religioni si differenziano dalle filosofie” (21). Qua lo storicismo piega verso la metafisica, e in effetti ve n’è bisogno poiché il liberalismo non può vivere senza un’anima, specie di fronte alle circostanze della pericolosa navigazione nel regime totalitario.
Sturzo non ha bisogno di trovare le certezze liberali nei supplementi religiosi della laicità. Egli è un credente vigoroso e può attingere la forza libertaria in tutti gli strati della sua spiritualità e scontrarsi sia con i fascisti che con i clericali o con i socialisti. La novità del suo popolarismo sta proprio nell’imprevedibilità, che è il risultato di un autonomo processo di ripensamento storico, e quindi nell’indipendenza morale e politica. Un capolavoro d’imprevedibilità è la sua relazione tenuta al congresso torinese del Partito Popolare il 12 aprile 1923, dopo l’avvento del fascismo al potere ed il passaggio di molti cattolici in campo fascista: “Oggi la nostra assemblea ha il compito delicato, non facile e importantissimo, di riconsacrare l’unità, l’autonomia, le finalità del nostro partito in momenti quando non mancano insidie interne ed esterne opposizioni;e quando una nuova corrente, che è divenuta potere, tende ad assorbire in sé le forze e i valori di ogni partito nazionale come in un crogiolo per formare una nuova classe dominante e di governo” (22). Ma la relazione è un capolavoro di tempestività nel riconoscere il pericolo che sta davanti e che molte intelligenze liberali ancora non riescono a vedere: “Altra differenza sostanziale tra noi e tutti i partiti politici operanti in Italia, e quindi tra noi e il fascismo, è nella concezione dello stato. Siamo sorti a combattere lo stato laico e lo stato panteista del liberalismo e della democrazia;combattiamo anche lo stato quale primo etico, e il concetto assoluto della nazione panteista o deificata che è lo stesso. Per noi lo stato è la società organizzata politicamente per raggiungere i fini specifici;esso non sopprime, non annulla, non crea i diritti naturali dell’uomo, della famiglia, della classe, dei comuni, della religione;soltanto li riconosce, li tutela, li coordina, nei limiti della propria funzione politica. Per noi lo stato non è il primo etico, non crea l’etica: la traduce in legge e le dà forza sociale. Per noi lo stato non è la libertà, non è al di sopra della libertà […] Per noi la nazione non è un ente spirituale assorbente la vita dei singoli”. Il discorso è talmente chiaro che segna una svolta morale e politica e attira l’attenzione tanto del governo fascista quanto del Vaticano. Il 25 giugno arriva il famoso articolo di mons. Pucci, apparso sul Corriere d’Italia, che ammonisce Sturzo a non creare difficoltà alla Santa Sede, mentre Il popolo d’Italia aveva apertamente definito “il discorso di un nemico” quello di Sturzo a Torino. Il prete “sinistro” è ormai un nemico giurato del fascismo, ostenta il suo antifascismo e pertanto non può conservare la carica di segretario del Partito Popolare e nemmeno rimanere in Italia. La stagione del fuoruscitismo comincia con lui.
E’ inutile che si continui con le citazioni in un lavoro di confronto politico tra due personaggi e due liberalismi maturati storicamente all’interno di un’epoca determinata. Già tanto è sufficiente a dimostrare affinità e divergenze, al di là delle macroscopiche differenze di stile e di tono. La presa di posizione sturziana contro Giolitti non risulta nella sostanza un elemento decisivo di contrasto, dato che si tratta di una valutazione politico-pratica, anche se assai grave, poiché contribuisce non poco a determinare la crisi definitiva del sistema parlamentare e la formazione del ministero presieduto dall’inetto Facta. Né bastano le giustificazioni successive ad attenuare le responsabilità della caduta di Giolitti e dell’avvento al potere del fascismo. Il “veto” di Sturzo a Giolitti è un fatto politicamente rilevante ma moralmente comprensibile, se si pensa che anche Salvemini esprime la medesima intransigenza nei confronti dell’uomo di Dronero considerato un volgare corruttore del sistema parlamentare e un anticipatore del fascismo per brogli, violenze e cinismo. Ma la differenza vera tra i nostri due personaggi ed i loro liberalismi consiste nel giudizio complessivo sul Risorgimento e la formazione dello Stato unitario. Qui emergono le differenti vedute tra le due posizioni: l’una, quella di Benedetto Croce, più risorgimentale e conservatrice e l’altra, quella di Luigi Sturzo , meno astratta e più democratica e partecipativa, sicché è proprio a questo livello che si fa chiara la distanza tra due concezioni della libertà. Se noi partiamo dalla convinzione che il liberalismo debba essere anche democratico e riconoscere tutti i diritti personali, politici e sociali a tutti i cittadini, allora certamente quello sturziano è più moderno e progressivo;ma, nel momento storico di cui stiamo parlando, quello di Croce, pur non occupandosi dell’immissione delle grandi masse popolari nella vita dello Stato, è più adeguato alla difesa di uno Stato costituzionale e al sopravvento della borghesia illuminata o comunque di una classe dirigente più avanzata e si presenta più disponibile alla lotta antitotalitaria, in quanto non deve fare i conti con le strette necessità del Vaticano. Ma per l’avvenire la strada è certamente aperta al liberalismo sturziano che propone un rafforzamento e un allargamento democratico del sistema liberale, anche in direzione del decentramento amministrativo e delle autonomie locali (24).
Sul terreno storico-teoretico, il liberalismo di Sturzo sembra però afflitto dal complesso della Riforma protestante e quindi presenta un impedimento “genetico” che si avverte quando si toccano i temi più scottanti di ordine costituzionale. Nel recensire l’ottimo lavoro di Guido De Ruggiero Storia del liberalismo europeo, egli mette in luce il grande tentativo di sintesi, il “taglio sicuro” dell’opera e la “limpidezza dello stile”, ma soprattutto lo sforzo pregevole di “far derivare il liberalismo dalla concezione della libertà basata sulla personalità umana”, che tuttavia-egli sostiene – non è un prodotto della Riforma calvinista e del successivo movimento illuminista, in quanto tale concezione viene attinta direttamente dalla fonte originaria rappresentata dal Cristianesimo: “Dal punto di vista storico la concezione di una personalità umana spirituale operante nel tempo, uguale nei diritti e doveri, soggetto di libertà, è una concezione che nasce col cristianesimo e per il cristianesimo. Che la personalità umana acquista coscienza della libertà insieme alla coscienza dei diritti e doveri […] è nei Vangeli e nelle Epistole molto chiaro” (25). Il che è vero, com’è vero che si afferma nel mondo moderno il principio del libero esame e del rispetto della persona dopo le varie tempeste delle notti di San Bartolomeo e delle guerre di religione. La Riforma entra dunque in questo processo, come appunto De Ruggiero sostiene, e vi entra grazie ad una soggettività religiosa che ne costituisce l’elemento fondativo, sicché gli argomenti di Sturzo appaiono pretestuosi e spuntati: “L’individualismo della riforma basato sul principio del libero esame, logicamente porta o all’anarchismo religioso e politico ovvero ad una società convenzionale, che non ha la forza intrinseca ad obbligare i suoi membri. Rousseau era logico quando stabiliva che i dissidenti potevano uscire dallo stato;solo vi era un guaio, che tale diritto non era realizzabile” (26).
Il guaio non sta nell’impossibilità di realizzare il diritto di esilio, bensì nello stabilire il diritto di cittadinanza. Che è la prerogativa della modernità cui nessuno può sottrarsi proprio a seguito della Riforma protestante e delle lotte religiose. Il liberalismo autentico non viene prodotto soltanto dall’egualitarismo del Cristianesimo evangelico, ma anche dal travaglio religioso e civile della storia moderna che induce a fare dello Stato la comunità di tutti i cittadini. Cosa che del resto Sturzo sa molto bene, poiché di questa “comune cittadinanza” è fatto il suo popolarismo. Qui egli solleva il dubbio che i cittadini in quanto uomini liberi siano rimasti fuori dello Stato liberale e che la classe politica li rappresenti in modo poco autentico: “I cittadini […] esprimono lo stato come una propria organizzazione;o meglio essi, in quanto organizzati, divengono lo stato. Che questa sia una concezione filosofica, ne convengo;ma che sia stata la realtà dello stato liberale e di ogni qualsiasi altro tipo di stato è lecito dubitare. I sociologi più in vista ormai accedono alla tesi del predominio della classe politica che sempre esprime, in modo diretto o indiretto, il potere che in sostanza è la più visibile esplicazione dello stato, e quella che determina l’antitesi delle forze […] è provato che lo stato non è mai il prodotto di tutti i cittadini” (27). Insomma, i vantaggi recati dal liberalismo rischiano di essere apparenti, di fronte all’effettivo esercizio della cittadinanza ed al regime fascista che esclude non solo il metodo del libero confronto, ma anche quello rappresentativo. Ma le libertà politiche e civili sono ormai insopprimibili, anche se domani, sconfitta la dittatura, il liberalismo dovrà trovare per vivere “altri contenuti positivi ed economici e dovrà confondersi con movimenti sociali più vasti e più complessi” che costituiscono la strutturazione della vita democratica.
Il popolarismo sturziano si può conoscere e valutare nei suoi caratteri essenziali e nei suoi limiti reali soltanto se lo si storicizzi e lo si colga entro la sua naturale cornice socio-politica e specialmente nel suo rapporto con il liberalismo. Ed è ancora questo rapporto che viene illuminato dalla sorprendente recensione alla Storia d’Italia di Croce. Siamo già nella fase avanzata di costruzione del regime fascista e si possono avvertire con sufficiente chiarezza le varie posizioni. Accanto ai clerico-fascisti caduti nella rete, esistono i cattolici-democratici caduti sul campo o andati in esilio ed i liberali definitivamente convertiti all’opposizione. La Storia d’Italia è il frutto alquanto anticipato dell’opposizione liberale, oltre che un lavoro di alta e seria ricostruzione scientifica, e Sturzo riesce a comprenderne subito l’importanza: “Fra molte interpretazioni esistenti, quella di Croce è certamente la più significativa e interessante. E’ facile vedere che egli considera l’attuale fase fascista come antitesi della passata metà del secolo dello sviluppo italiano […] Parimenti forte è il contrasto fra il valore ch’egli dà al pensiero liberale e alle istituzioni politiche di ieri, con la servitù odierna – un contrasto che non può sfuggire a nessun lettore di questo ben riuscito libro” (28). L’unica cosa che egli non riesce a spiegarsi dopo aver letto il libro di Croce è come mai “fu possibile al fascismo di sopravvenire in Italia, se la vita pubblica dal 1900 al 1915 era così prospera, libera, saggia e bene equilibrata” (ivi, p. 334). Ma la convergenza con il filosofo napoletano è ormai piena su tutto il resto. Ora è arrivato il momento per il popolo italiano di prendere coscienza, al di là delle singole pretese partitiche e settarie, cattoliche e protestanti, della perdita della libertà e quindi della relativa lotta per riconquistarla, cioè della necessità di un secondo Risorgimento, di cui libri come quelli di Croce sono“agenti di preparazione spirituale”. Allora ha un senso il liberalismo teoretico e militante. La parola d’ordine di fronte al fascismo violento e totalitario è il suo “rovesciamento” sotto l’unica bandiera liberale e costituzionale dell’antifascismo: “Di fronte al fascismo, non vi è che un atteggiamento possibile: il rovesciamento del regime operato da tutti i cittadini e da tutti i partiti, uniti sotto l’unico vessillo dell’antifascismo” (29).
Note
1) L. Sturzo , Il problema della libertà e la crisi italiana, in I discorsi politici, Istituto Luigi Sturzo , Roma 1951, p. 431.
2) B. Croce, Guido De Ruggiero-Storia del liberalismo europeo, su La Critica, anno XXIII, 20 settembre 1925, pp. 305-306.
3) B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1928, pp. 234-235.
4) Ibidem, p. 376.
5) B. Croce, Lo Stato etico, in Etica e Politica, Laterza, Bari 1967, pp. 147-148.
6) Ibidem, pp. 146-147.
7) B. Croce, Gaetano Mosca-Elementi di Scienza politica, ne La Critica, annoXXI, 20 nov. 1923, pp. 375-376.
8) Ibidem, p. 376.
9) B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, 4^ edizione riveduta, Laterza, Bari 1927, pp. XIII-XIV.
10) L. Sturzo , Il problema della libertà e la crisi italiana, in I discorsi politici, cit. p. 432.
11) L. Sturzo , Ibidem, pp. 432-433.
12) B Croce, Postille, ne La Critica, anno XXII, 20 maggio 1924, p. 191.
13) B. Croce, Giovanni Gentile-Sistema di logica come teoria del conoscere, vol. II, ne LaCritica, anno XXII, 20 maggio 1924, p 54.
14) La protesta contro il “Manifesto degli intellettuali fascistici”, ne La Critica, annoXXIII, 20 settembre 1925, p 310.
15) Ibidem, pp. 311-312.
16) B Croce, Liberalismo, ne La Critica, anno XXIII, 20 marzo 1925, p. 125.
17) G. Gentile, Prefazione a Carmelo Licitra, Dal liberalismo al fascismo, L. De Alberti, Roma 1925, pp. XIII-XIV.
18) Ibidem, p. XIX.
19) L. Sturzo , Crisi e rinnovamento dello stato, in I discorsi politici, cit. p. 199.
20) Cfr. L. Sturzo , I problemi del dopoguerra, in I discorsi politici, cit. p. 388.
21) B Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza, Bari 1967 p. 20.
22) L. Sturzo , La funzione storica del Partito Popolare Italiano, ne I discorsi politici, cit. p. 311.
23) Ibidem, pp. 322-323.
24) Gabriele De Rosa, nel segnalare questo tipo di liberalismo, coglie il senso dell’operazione complessiva di Sturzo nel tentativo di responsabilizzare un’Italia rimasta fuori dello Stato liberale: “Ora, l’analisi del recupero democratico di questa massa di esclusi costituisce per lo storico il problema fondamentale del popolarismo” ( Sturzo , UTET, Torino 1977, p. 241).
25) L. Sturzo , Liberalismo Europeo, in Il Partito Popolare Italiano, Vol. III (19231926) , prima edizione riveduta, Zanichelli, Bologna 1957, p335.
26) Ibidem, pp. 337-338.
27) Ibidem, pp. 338-339.
28) L Sturzo , Benedetto Croce-Storia d’Italia dal 1871 al 1915, in Miscellanea Londinese, vol. I (anni 1925-1930) , Zanichelli, Bologna 1965, pp. 333-334.
29) L Sturzo , Italia e Fascismo, Zanichelli, Bologna 1965, p. 197. L’opera è scritta e pubblicata a Londra nel maggio 1926, nella traduzione di Barbara Barclay Carter, e attira l’attenzione di Gaetano Salvemini: “Caro Amico, ho letto il suo libro in treno. Mi è piaciuto molto”. Nelle ultime pagine di questo saggio la grave riflessione del momento: “In questo periodo occorre il raccoglimento del pensiero, il risparmio delle forze, la cautela nell’evitare rischiose avventure, la formazione di nuclei sicuri […] Occorre rimettere in primo piano la questione istituzionale dell’Italia […] Ora è bene che ogni partito che dissente dal presente stato di cose, e che concepisce la vita politica come partecipazione attiva del popolo al suo regime, che ogni partito il quale non si sente finito con la caduta dello statuto albertino […] si riproponga il problema della vera democrazia” (ivi, p. 261). Che è il problema della riconquista cattolica della libertà e del liberalismo costituzionale messo in luce generalmente dai diversi autori dell’interessante volume a cura di Pietro Scoppola e Francesco Traniello, I cattolici tra fascismo e democrazia, Il Mulino, Bologna 1975.
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