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Uno strumento contro le mafie e per la ricostruzione dei legami sociali attraverso il lavoro.

In un contesto riflessivo dedicato alla conoscenza sociologica del limite – quindi apparentemente distante dal tema che ci proponiamo di affrontare in queste righe – De Vita (1995, 147 e segg.) richiama l’inversione logica effettuata da Hans Jonas (1991) rispetto al kantiano “puoi, dunque devi”, dove la sfera del dovere è conseguente a quella dell’agire. Jonas propone di rovesciare l’imperativo kantiano accordando alla dimensione del dovere una sorta di primazia rispetto al fare: “Devi, dunque fai, dunque puoi”. Il “potere” unisce dunque la volontà e il dover essere, e la responsabilità, tema assai caro a Jonas, si colloca in questo modo al centro della morale. Morale e moralità sono “assoluti terrestri” in risposta al paradosso della continuità della vita umana sulla terra. La moralità è un “imperativo categorico” fondato sulla necessità di garantire anche alle generazioni future “la possibilità di vivere degnamente”, quindi moralmente, la “vicenda dell’umanità” (De Vita 1996, 152).

Devi, dunque puoi. A fondamento della grande stagione del lavoro come riscatto dalle catene imposte dalle organizzazioni mafiose sulle persone e sui territori di una porzione sempre troppo ampia del nostro Paese non c’è l’improvvisa comparsa di una opportunità di genere normativo o economico, quanto la definitiva emersione di un imperativo categorico legato alla dimensione del dovere. La precondizione per il successo economico e politico del lavoro come strumento dell’antimafia consiste nell’affermazione di una moralità superiore, un “assoluto terrestre” come dice Jonas. Le cose si fanno perché devono essere fatte. Come spiegare altrimenti l’accettazione di percorsi lunghi, rischiosi e non garantiti di affrancamento dal dominio delle mafie e dei loro brodi di coltura, attraverso la prassi del lavoro e del recupero alla collettività dell’idea di dignità e di legalità, prima ancora che di accesso alle risorse economiche disponibili?

A questa domanda va data una risposta di fondo, propedeutica alla successiva considerazione del tema “empirico” del lavoro come liberazione dalle mafie e dalla sottomissione economica e personale a queste associata. E la risposta – parziale, come è ovvio – deriva dalle potenzialità liberate dal riconoscimento dell’imperativo morale sopra enunciato. A fronte di una spaventevole certezza di ineluttabilità, squarciata qua e là da isolati, benché luminosi, gesti di riscatto, gli individui si interrogano sulla desiderabilità di un destino diverso da quello loro assegnato dal contesto di nascita (dai caratteri ascrittivi, potremmo dire). E lo fanno costituendosi come “attore sociale collettivo”, divenendo dunque soggetti, dotati di una identità progettuale volta ad una “vita diversa, magari a partire da una identità oppressa” (Castells 2003 [1997], 10) ed interrogandosi, come sostiene Giddens nella ricerca della definizione di essere umani (1999 [1991]), sulla natura e sulle motivazioni del proprio fare. Questa ricerca – di una vita diversa ed anche della propria natura squisitamente umana – non è mai certa, non potendosi necessariamente fondare sull’esistente. Lo ricorda bene Fromm (1994 [1941, 208] quando, discutendo sulla distinzione tra ideali veri e fittizi, trova l’elemento comune tra i primi nel fatto di esprimere il desiderio di un qualcosa di ancora non attuato ma allo stesso tempo desiderabile per lo sviluppo e della felicità degli individui. La ricerca di un qualcosa di ancora non attuato, tuttavia, non deve sconfinare nella “metafisica”, essendo ciò che è bene o male per l’uomo, secondo Fromm “un problema empirico” (ivi). Di certo, “la miseria, l’intimidazione e l’isolamento” sono contro la vita, mentre coraggio e forza di essere se stessi la favorisce.

Ecco dunque che l’idea di dover fare (gli ideali di cui parla Fromm) si situa a monte dei percorsi attuativi successivi, che rappresentano il momento “empirico” comunque necessario. L’ideale e la sua attuazione (ma prima ancora la sua identificazione) sono le due fasi del riscatto delle società oppresse, quelle dominate proprio dalla miseria, dall’intimidazione e dall’isolamento. Il processo di identificazione della sfera degli ideali desiderabili ha a che fare con la definizione della propria condizione e con la autocollocazione all’interno di un campo simbolico definito da confini certi, processo che in definitiva riguarda ancora una volta la problematica della costituzione dell’identità (collettiva) (Bagnasco 1999, 30).

L’ideale dunque dell’affermazione di se stessi in quanto portatori di soggettività – in reazione allo spossessamento e alla dipendenza generati sistematicamente dalle economie criminali nei confronti delle loro vittime – si trasforma in progetto empirico di liberazione mediato dal lavoro e dal valore che questo ricopre nella sfera simbolica dell’emancipazione individuale e collettiva. In una società (una economia, anche) bloccata questo processo può contare solo in parte sullo sviluppo delle forze endogene. Può contarvi prioritariamente in termini di “produzione di dover fare”, ossia di disponibilità alla definizione di nuovi confini tra sé e l’ambiente esterno (per usare una terminologia in voga qualche anno fa) produttore sistematico di incertezza. A questa disponibilità endogena ad immaginarsi “nuovo” soggetto sociale deve tuttavia, in un contesto di sviluppo bloccato, corrispondere una azione esogena, una “somma” di volontà collettive (anche non territorialmente omogenee) che sostenga l’avvio dei processi virtuosi in quello stesso contesto. Il primo effetto del sostegno è proprio di carattere simbolico, di definizione e tracciamento dei confini identitari tra la nuova società e la società bloccata, tra la produzione di economia legale (la possibilità, quantomeno) e l’agire criminale e criminogeno. Prima fase fondamentale, proprio in ossequio alla necessità di produrre ideali riconoscibili e desiderabili. Poi viene la fase attuativa, l’affrontare il “problema empirico” della traduzione dell’ideale in pratica di emancipazione. Il problema empirico è anzitutto normazione, poi strumentazione istituzionale e quindi identificazione delle prassi più coerenti.

Per quanto riguarda la costruzione dei nuovi confini, l’aspetto più cruciale sembra essere la costruzione e/o la ricostruzione di un capitale sociale non tanto alternativo quanto contrapposto a quello in essere all’interno delle reti mafiose (Sciarrone 2006), e ciò proprio perché la mancanza percepita da Putnam (1993 [1993]) di capitale sociale nel Mezzogiorno d’Italia può essere letta con diverse lenti, ma certamente la presenza di reti familiari e familistiche, parentali e comunitarie non può essere disconosciuta. Meglio dunque operare una distinzione, come fa Trigilia (2005), tra un capitale sociale generato per appartenenza(quindi in contesti più radicati, con il rischio della sovrascrittura collusiva e criminale) ed uno per sperimentazione, più dinamico pur nella sua maggiore difficoltà di radicamento “virtuoso” (ivi, 36), dove quest’ultima dinamica soccorre le società bloccate attraverso la possibilità dell’innovazione, anche nelle architetture istituzionali. In questo caso funzionano bene anche le reti lunghe, che si fanno carico di un agire solidaristico e cooperativo non legato ad una specifica appartenenza territoriale. Lunghe quanto una intera collettività nazionale, ad esempio, come nel caso del milione di firme raccolto da “Libera” (1) a sostegno dell’approvazione della legge 109/96 (2).

La contrapposizione di una rete sociale “altra” rispetto a quella del radicamento malavitoso ha, com’è intuibile, una fondamentale funzione esemplare e di testimonianza rispetto al tessuto sociale su cui va ad impattare, vale a dire l’affermazione della possibilità di un agire fondato sul lavoro e sull’utilizzo delle risorse endogene, non di rapina o di rendita assenteistica o parassitaria, sulla produzione e non sullo sfruttamento, sulla capacità di pensare filiere produttive anche complesse. La sperimentazione, se ci si passa la forzatura rispetto al quadro interpretativo di Trigilia, consiste proprio e principalmente nel trasferimento di porzioni di economie “abbandonate” o funzionali all’agire criminale all’interno di una nuova rete di relazioni sociali testimoniali, in primo luogo, ma anche operative, che consentono di agire in condizioni di incertezza tipiche degli ambienti ad alto tasso di mafiosità.

La strategia che passa per il riutilizzo dei beni confiscati per gli usi sociali e per lo sviluppo del territorio risponde ad una esigenza di fondere assieme, per proporre una alternativa attraente, il sentimento dell’indignazione (elemento culturale, in primo luogo, funzionale a segnalare una difformità di collocazione rispetto ad un contesto segnato dal controllo delle organizzazioni mafiose) con quello della convenienza economica, una economia della legalità che oppone un modello possibile a quello “economico” mafioso (Orlando 2005) e che, come ha già suggerito su questa stessa rivista qualche anno fa Giusi Tuminelli (2003), traghetta nel regno dell’etica l’intrapresa economica.

Ovviamente l’attenzione al reale impatto economico – in primo luogo sull’occupazione – della 109/96 deve correre parallelamente alle valenze simboliche della stessa, pena una svalutazione dei suoi effetti nell’ambito di una economia marginale, di un counterpointconfinabile in una opposizione “gestibile” allo status quo mafioso. La questione è di non poco conto, in considerazione delle complesse sfaccettature connesse alla lettera e alla applicazione della 109/96 . Complessità evidente nella sola elencazione dei vincoli strutturali riscontrati nella destinazione e nell’uso sociale dei beni confiscati alle mafie, sia dal punto di vista della razionalità economica (il rischio d’impresa è molto elevato rispetto all’investimento), che da quello della sicurezza personale (sostanzialmente non garantita da un contesto ambientale in molti casi “neutro”, quando non ostile, e quindi di fatto contiguo con l’insicurezza), o inoltre da quello del consenso istituzionale (il sostegno al progetto è risultato spesso variabile) o procedurale (c’è un “affaticamento” che si traduce in dis-efficienza). Se riguardo quest’ultimo punto negli ultimi 12 mesi si sono registrati alcuni timidi segnali di mutamento rispetto alla stasi degli anni precedenti (3) – ad esempio con la recentissima nomina del nuovo Commissario Straordinario del Governo per la gestione e destinazione dei beni confiscati alle mafie (4), figura smantellata nel 2003 nella seduta del 23 dicembre del Consiglio dei Ministri – va altresì segnalato come rispetto agli elementi di vincolo sussistano ancora situazioni quantomeno ambivalenti. L’insicurezza dell’intrapresa e dei soggetti che vi operano è stata ribadita da una serie di recentissimi attentati avvenuti in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, ma anche nel Lazio, per citare una regione “esterna” (ma solo apparentemente, si veda ad es. De Ficchy, 2005) al classico elenco delle regioni ad alta densità mafiosa. L’affaticamento procedurale – in mancanza quantomeno della oramai improcrastinabile Agenzia nazionale per la gestione dei beni sottratti alle mafie (Libera 2007) – è ancora elemento caratterizzante il processo di assegnazione dei beni, se è vero che, solo per citare un elemento di vincolo, per ogni casa o terreno assegnati alla società civile ne giacciono ancora il doppio – confiscati e destinati – ancora non assegnati e quindi portabandiera dell’inefficienza dello Stato agli occhi della propaganda mafiosa (Ludovico 2007). Per non parlare della difficoltà di collaborazione da parte delle istituzioni pubbliche locali, più volte segnalate un po’ dappertutto nelle regioni a maggiore densità mafiosa e decisive nel creare una sensazione di sfiducia rispetto alle possibilità di emancipazione delle società locali, come ricorda Paci (2005, 230) nei riguardi del ruolo (cruciale) della leadership politica ed amministrativa locale nella promozione della partecipazione sociale. Citando Sabbatini (2005) sulla necessità di da parte del pubblico di farsi garante tra l’altro del senso di responsabilità, dialogo e fiducia al fine di creare partnership e connessioni sociali efficaci, Paci ci offre di fatto la possibilità di un rimando alla questione della costruzione (o ricostruzione) del capitale sociale come condizione di successo per il diffondersi di esperienze di lavoro “legale” in contesti difficili come quelli oggetto d’analisi. Da questo punto di vista il protagonismo dell’elemento cooperativo all’interno dell’esperienza dellagestione dei beni confiscati rappresenta una sintesi della riflessione poco sopra esplicitata riguardo la necessità di un mix tra elementi endogeni (una tradizione associativa già presente, ad esempio, unita ad un “saper fare” non ancora travolto dal para-assistenzialismo mafioso e, purtroppo, anche pubblico) ed esogeni (tra i quali spicca la recentissima stagione dell’imprenditoria etica, in buona parte di matrice cooperativa) soprattutto per maneggiare due dei vincoli evidenziati, l’efficacia economica al di là del rischio eccessivo d’impresa e la creazione di un contesto istituzionale favorevole. Il progetto “Libera Terra”, ad esempio (Barbieri 2005; Tumminelli 2003) , gode della confluenza di soggetti pubblici e privati, locali e nazionali (il Consorzio Sviluppo e Legalità, coi comuni di Corleone, San Giuseppe Jato, San Cipirello, Piana degli Albanesi, Monreale, Altofonte, Camporeale, Roccamena; Sviluppo Italia, Italia Lavoro e Sudgest) e del sostegno delle grandi centrali cooperative del Nord (attraverso Cooperare con Libera Terra – Agenzia per lo sviluppo cooperativo e la legalità) e fonda la propria ragione d’impresa nell’utilizzo del bene “territorio” nella sua più vasta accezione – agricoltura e trasformazione dei prodotti agricoli, ospitalità, educazione alla legalità, sostegno solidale agli svantaggiati, etc. La scelta della centralità dello sviluppo territoriale fondato principalmente sull’agricoltura meriterebbe ovviamente un’ampia trattazione qui impossibile, ma la fusione tra l’individuazione e lo sviluppo delle peculiarità locali (specificità dei prodotti agricoli, recupero delle competenze), la coltivazione biologica come elemento distintivo, la competizione tra produttivo e improduttivo quale terreno di sfida e di palesamento dell’inefficacia economica del sistema mafioso nei riguardi della collettività (non certo nei riguardi dei singoli affiliati, certamente), la simbolicità dell’elemento “terra” nel richiamo alle radici nobili del lavoro, tutto ciò va certamente in direzione di quell’idea affascinante di buono, pulito e giusto (Petrini 2005) quale fondamenti per una nuova etica del lavoro, della produzione e dello sviluppo.

La grande intuizione della legge 109/96 – colpire le mafie nella loro “ragione sociale” rappresentata dall’accumulazione della ricchezza tramite il controllo sulle persone e sul territorio – va ovviamente aggiornata con l’evolversi delle strategie mafiose e con il nuovo ambito d’opportunità rappresentato da quella globalizzazione così bene interpretata dalle criminalità organizzate mondiali (5). Dal punto di vista di una “sociologia dell’antimafia” ha tuttavia una forza di impatto estrema, forse per certi versi amplificata proprio dalle sue difficoltà di dispiegamento. Permette di fondere assieme gli imperativi morali sopra richiamati (il “dover fare”) e la esplicitazione di quanto risulti fondamentale per una società “sana” (non solo in riferimento all’assenza di mafia) la reticolazione e la profondità delle relazioni sociali fiduciarie; un concetto “non deviato” di identità e la necessità di far parte di una rete lunga e solidale; il volontarismo testimoniale e la razionalità d’impresa; la capability della società civile di farsi soggetto attivo e l’opportunità per le politiche pubbliche (per i decisori) di trovare finalmente un senso concreto all’abusato termine di governance.

I problemi applicativi della 109/96, evidenziati già nel 2003 nell’articolo della Tuminelli e qui richiamati, permangono sostanzialmente anche oggi (Libera 2007), forse amplificati da alcuni anni di attenuazione (e/o di diversione) della tensione in Italia nei riguardi della pericolosità del fenomeno mafioso (Scarpinato 2006). Paradossalmente, dunque, i frutti della legge raggiungono proprio oggi la loro piena maturità, pronti per essere colti da una nuova stagione di legalità e di vittoria del lavoro sull’oppressione mafiosa.

* Università di Camerino, Dipartimento di Scienze Giuridiche e Politiche


Bibliografia

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Barbieri C. (2005), Le mani in pasta, Coop Editrice Consumatori, Bo

Bolzoni A. e D’Avanzo G. (2007), “La mafia ha già fatto l’accordo sugli affari italo-americani”, La Repubblica, 13/07

Castells M. (2003), Il potere delle identità, Università Bocconi Editore, Mi

De Ficchy (2005), Le indagini giudiziarie contro la criminalità organizzata nel Lazio, in Libera e Magistratura Democratica (a cura di), Mafie d’Italia nel nuovo millennio: analisi e proposte, vol I, Roma

De Vita R. (1995), Razionalità ed etica. La conoscenza sociologica del limite, FrancoAngeli, Mi

De Vita R. (1996), Pluralismo ed etica, FrancoAngeli, Mi

Fromm E. (1994), Fuga dalla libertà, Mondadori, Mi

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Ludovico M. (2007), “Un’agenzia per i beni di mafia. Crollano le confische, il Governo pensa ad un ente di gestione”, Il Sole 24 Ore, 17/04

Orlando L. (2005), “La nuova antimafia”, Limes 2, 2005

Paci M. (2005), Nuovi lavori, nuovo welfare, il Mulino, Bo

Petrini C. (2005), Buono, pulito e giusto, Einaudi, To

Putnam R. (1993), La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Mi

Sabbadini A. (2005), “Parola chiave: governance”, Rivista delle Politiche Sociali, 2, cit. in Paci (2005)

Scarpinato R. (2006), Bernardo Provenzano e le armi di distrazione di massa, in L. Pepino e M. Nebiolo (a cura di), Mafia e potere, EGA, To

Sciarrone R. (2006), Il potere delle reti mafiose: nodi, intrecci, connessioni, in Pepino e Nebiolo (a cura di), cit.

Trigilia C. (2005), Sviluppo locale. Un progetto per l’Italia, Laterza. Roma-Bari

Tuminelli G. (2003), “I beni confiscati alla mafia”, Studi e Ricerche, AS 06

Ufficio Nazionale di Libera sui beni confiscati (2005), La confisca dei beni mafiosi, in Libera e Magistratura Democratica (a cura di), cit.

Note

1) Associazione di associazioni nata il 25 marzo del 1995 con “l’intento di coordinare e sollecitare l’impegno della società civile contro tutte le mafie”Presidente di Libera è don Luigi Ciotti, già fondatore del Gruppo Abele di Torino (dal sito www.libera.it).

2) Per un inquadramento della legge 109/96 si rimanda a Libera (1998), Tuminelli (2003), Ufficio Nazionale di libera sui beni confiscati (2005).

3) Giova ricordare a proposito, seppur in grandissime linee, che per quanto riguarda il numero di confische definitive di beni immobili si è passati dal picco di 1009 nel 2000 alle 216 unità nel 2006, mentre per quanto riguarda i beni aziendali si è passati dalle 89 del 2001 (78 nel 2000) alle 37 del 2006 (dati dell’Agenzia del Demanio riportati da Ludovico, 2007). Per il più recente prospetto riepilogativo (anno 2006) dei 7329 beni immobili confiscati sul territorio nazionale, divisi per regione (fonte: Agenzia del Demanio, Direzione generale), si rimanda a www.libera.it.

4) Nella persona del magistrato dott. Antonio Maruccia.

5) “Per fare certi investimenti, Cosa Nostra non si può più permettere di riciclare i suoi profitti in beni individuabili sul territorio, in immobili e terreni, come ha sempre fatto. Cerca nuove strade dovunque i ricavi del crimine possano diventare anonimi e puliti”. Così Pietro Grasso, in Bolzoni e D’Avanzo (2007). Il riferimento del Procuratore nazionale antimafia è evidentemente ad un mutamento profondo delle strategie operative delle mafie, meno propense alla “visibilità” dell’agire illecito e allo scontro frontale con gli apparati statuali. Di qui la necessità di un costante aggiornamento degli strumenti di contrasto, compresa ovviamente la legge 109/96.

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