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Il 9 maggio, come ogni anno, abbiamo ricordato Aldo Moro: la prigionia e l’uccisione da parte delle brigate rosse. Meno nota della sua azione politica, è stata la sua elaborazione intellettuale, il suo pensiero filosofico, che qui metto in relazione con quello del filosofo Giuseppe Capograssi. Non basta celebrare le grandi figure se poi non si conoscono le loro opere e le loro idee. L’educazione alla libertà e alla democrazia passa attraverso questa conoscenza.

Come è noto, il problema delle matrici culturali e filosofiche del pensiero di Moro è tutt’altro che risolto. Quella preziosa, ma non agevole fonte che è data dalle sue lezioni di filosofia del diritto tenute a Bari, offre alcune utili indicazioni, come già Bobbio aveva notato.

Da queste lezioni, che diventeranno negli anni la parte introduttiva dei suoi corsi di Istituzioni di diritto e procedura penale, emerge un Moro estremamente maturo rispetto alla sua età, con un pensiero giuridico politico già formato e una padronanza sorprendente dei temi affrontati, con la consapevolezza della complessità del fenomeno giuridico di contro alle visioni riduttive potitivistiche e idealistiche. È un Moro decisamente diverso anche nello stile rispetto alle monografie penalistiche di quegli anni anche perché, come ha scritto Bobbio, «queste lezioni non sono lezioni accademiche nel senso usuale della parola. Sono per molta parte espressione di un pathos etico-religioso che dà ad esse un timbro insolito, e le trasforma in discorsi vibranti e volti non solo a conoscere e a far riflettere ma anche a persuadere, a esortare, a scuotere, a suscitare emozioni e a formare convinzioni».

La gran parte delle ricostruzioni del periodo formativo di Moro sono orientate a rintracciare la maggiore fonte di ispirazione nel pensiero personalista in particolare in quello di Mounier e Maritain. Certamente questa presenza ha avuto un suo ruolo anche se occorrerebbe fare delle puntualizzazioni sia sulla effettiva ricezione in Italia di questi autori, sia sulla delimitazione di una corrente filosofica che, come per l’esistenzialismo, rischia di presentarsi con confini molto dilatati fino a includere un po’ di tutto. In particolare, sembra evidente questa influenza, non tanto per il generico riferimento alla persona, ma sulla delicata questione del rapporto cristianesimo-modernità (vero punctum crucis della filosofia cattolica) e sulla visione relazionale o comunitaria dell’esperienza. Il riferimento personalista, del resto, mi sembra abbastanza scontato, quasi istituzionale, per gli ambienti fucini e montiniani ma che produce i suoi frutti soprattutto in un periodo successivo, dalla Costituente in poi, nel momento in cui, cioè, l’impegno politico attivo moroteo diventa preponderante nella sua vita.

Più in sordina e mai realmente approfondita, ma a mio avviso altrettanto significativa, restando ferma la sostanziale originalità del pensiero di Moro, è la presenza di Giuseppe Capograssi, una delle figure più straordinarie della filosofia del Novecento, spesso colpevolmente trascurata o ignorata dallo stesso mondo cattolico.

Il ruolo di Capograssi (che in quegli anni aveva già pubblicato opere importantissime come Saggio sullo Stato, Riflessioni sull’autorità e la sua crisi, Analisi dell’esperienza comune, Studi sull’esperienza giuridica e Il problema della scienza del diritto e altri saggi sulla «Rivista internazionale di filosofia del diritto» che gli avevano dato una indubbia notorietà tra giuristi e filosofi) è centrale perché la sua filosofia rappresenta il più riuscito tentativo di superamento dell’idealismo, stante l’inabitabilità per il giurista della casa neohegeliana. La sua filosofia dell’esperienza comune, che è essenzialmente esperienza giuridica, che mette al centro l’individuo con la sua vita, i suoi bisogni essenziali, il suo percorso nella vita etica nella prospettica cristiana della speranza.

Capograssi rappresentava certamente, sul versante cattolico, la voce più originale nel campo filosofico-giuridico, e non solo, anche grazie alla sua capacità di cogliere e spesso anticipare i fermenti nuovi (fenomenologici, esistenzialistici, ermeneutici) del pensiero europeo. Ma Capograssi era anche il filosofo non allineato, nonostante sarà presentato più tardi come una sorta di Socrate cristiano, con le posizioni ufficiali che invece si istituzionalizzavano su tesi nostalgicamente antimoderne. Estremamente significativa in questa prospettiva la sua ripresa di un autore particolarmente “scomodo” come Antonio Rosmini.

Non risultano rapporti diretti tra Moro e Capograssi nonostante gli “sfioramenti”, gli interessi culturali comuni e la reciproca stima. Ma i punti di contatto sul piano filosofico-giuridico sono evidenti. Ne indico solo alcuni.

Innanzitutto, il concetto di esperienza giuridica. Si tratta del cuore dell’etica capograssiana, con la sua idea che il diritto sia concreta espressione della vita, come modalità della coesistenza umana, come esperienza comune degli individui che agiscono e che, agendo, creano vichianamente il mondo umano della storia. Le lezioni di Moro si aprono proprio con le riflessioni sulla vita e sull’esperienza giuridica, certo con diverse intonazioni e sfumature. Ed anche in Moro questo concetto è presente soprattutto come esigenza di individuare nell’esperienza la categoria filosofica utile a superare l’approccio idealistico (con le ben note riduzioni di Croce e Gentile) al diritto e alla filosofia del diritto.

Fuori dalle logiche positivistiche e formalistiche, Capograssi, che fu tra i primi severi critici di Kelsen in Italia, il diritto non è che un momento della vita etica, il percorso che porta l’individuo a raggiungere la sua individualità e poi a desiderare leopardianamente l’infinito e quindi a sperare in Dio. In Moro mi sembra che questa visione sia centrale: il diritto è espressione della eticità e si pone, come la politica, come un momento della vita etica intesa come il processo attraverso il quale il soggetto realizza la sua vita più vera, ascendendo dal piano della sua particolarità empirica a quello della universalità. Ecco perché lo Stato è etico, anzi necessariamente etico, non in senso idealistico come Stato che esprime la eticità in quanto tutto, ma capograssianamente come Stato che, scrive Moro nelle Lezioni, «accoglie e compone in armonia i valori sviluppati dai singoli e dagli aggregati sociali minori dei quali si compone e senza i quali non sarebbe», pertanto «la sua dignità è null’altro che la dignità stessa della vita e il suo valore nient’altro che il valore proprio dell’umanità».

Il corollario di questa visione dello Stato, ed ecco un altro aspetto importante che collega i due autori, è certamente l’avversione verso lo Stato onnipotente ma, allo stesso tempo, la diffidenza verso quelle visioni antistatualistiche, latamente sussidiarie o che tendano di ridurre al minimo la presenza dello Stato, presenti in tanta parte dell’arcipelago del cattolicesimo politico. Anche sul tema del giusnaturalismo e del problema del rapporto col diritto positivo si può cogliere qualche analogia.

Infine, un altro aspetto mi sembra importante sottolineare: c’è in Moro come in Capograssi la consapevolezza, agostiniana, dell’incompletezza della esperienza giuridica e più in generale della stessa vita etica, il loro non realizzarsi mai completamente, il loro continuo tendere verso un momento successivo più alto, che si completa solo in Dio.

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