Durante gli anni Settanta , lo Stato italiano ha subito un attacco durissimo: da un lato il terrorismo, quello di sinistra, con in testa le Brigate rosse, dall’altro la seconda guerra di mafia, con i corleonesi di Totò Riina decisi a voler conquistare il vertice di Cosa nostra. Lo Stato si è difeso, a volte con gli stessi uomini, in particolare col generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che fresco di vittoria contro i brigatisti, fu inviato in Sicilia a contrastare la mafia. In questo contesto si collocano le battaglie intellettuali di uomini come lo scrittore Leonardo Sciascia e il politico Giorgio Amendola. In questo breve saggio si tenterà di mettere ordine nei fatti e nelle polemiche, distinguendo il pregiudizio ideologico dal confronto intellettuale, l’attacco allo Stato, dalla sua difesa
Gli anni di contaminazione fra Mafia e Terrorismo. Gli anni Settanta .
La fine degli anni ’60 fu caratterizzata in Italia da una radicalizzazione dello scontro sociale che ebbe come protagonisti prima gli studenti, poi la classe operaia. La mobilitazione studentesca sfociò nel Sessantotto, che portò all’occupazione di numerose facoltà universitarie su tutto il territorio nazionale. (1) Il movimento studentesco, a partire dall’autunno del ’68, individuò il suo interlocutore privilegiato nella classe operaia. La ricerca di uno stabile collegamento col proletariato derivava in parte dall’influenza di gruppi intellettuali da tempo schierati su posizioni operaiste, imperniate cioè sull’affermazione del ruolo egemone della classe operaia. (2)
Il 12 dicembre del 1969, una bomba esplosa a Milano, in piazza Fontana, provocò 17 morti, e fu in questo contesto che si cominciò a parlare di “strategia della tensione” – messa in atto da forze eversive di estrema destra per incrinare le basi dello Stato democratico, così da favorirne soluzioni autoritarie.
Dopo la bomba di piazza Fontana, vi furono le bombe in piazza della Loggia a Brescia, nel maggio del 1974, e quella sul treno Italicus nell’agosto dello stesso anno. In ultimo, l’attentato alla stazione di Bologna con oltre 80 morti, nell’agosto del 1980.
La ragionevole convinzione di larga parte dell’opinione pubblica che attribuisce le stragi ad esponenti della destra eversiva, appoggiata da frange dei servizi segreti, non ha trovato ancora una conferma definitiva dalla magistratura. Ma l’immagine di uno Stato debole, la presenza di un attivo terrorismo di destra e la psicosi di un colpo di Stato, furono fra i fattori che contribuirono alla nascita del terrorismo di sinistra. Ed è proprio in questo contesto che Leonardo Sciascia non esitò a mostrare la sua diffidenza nei confronti di uno Stato che intendeva sempre più come un corpus repressivo. Fu una difficoltà di identificarsi nei simboli dello Stato, che lo portò dritto verso una dura polemica con Giorgio Amendola, uno dei più autorevoli dirigenti del Pci, partito che dopo aver imboccato la via del “compromesso storico” con la Democrazia cristiana aveva reso necessaria l’edulcorazione del suo ruolo di oppositore fermo e intransigente. (3)
Amendola criticò duramente Sciascia quando questi si rifiutò di condannare alcuni cittadini torinesi, datisi malati per non fare i giurati in un processo contro le Br.
Amendola evocò la storica «viltà» degli intellettuali (4), che mai si erano opposti alla tirannide. Sciascia replicò giudicando antistoriche le affermazioni di Amendola e soprattutto evidenziando il carattere autoritario dello Stato auspicato dal dirigente comunista. Ma, al pari di Sciascia, molti si dicevano preoccupati sulla trasformazione del Pci in un partito d’ordine che riportasse alla luce sue antiche e mai sopite pulsioni autoritarie. Le voci di protesta che si levarono arrivarono oltre che dalla sinistra, anche dall’area radical-socialista, in cerca di una via d’uscita dalla “tenaglia” del compromesso storico. Importanti intellettuali europei pubblicarono un appello, “contro la repressione”, un cartello variegato definitosi garantista, in difesa di quanti dalla repressione potevano essere colpiti. I garantisti accusavano la magistratura di elaborare teoremi, ovvero impianti accusatori basati su ragionamenti tutti deduttivi, per individuare nelle lotte sociali improbabili responsabilità penali individuali. Così ci si riferì ad un “teorema Calogero” dal nome di un giudice padovano che aveva incriminato Toni Negri e altri leader di Autonomia operaia per lo stillicidio di aggressioni delle quali erano autori militanti e simpatizzanti di quella specifica area, per una loro corresponsabilità nelle azioni delle Br. I radicali candidarono Negri, e lo elessero al parlamento per permettergli di affrontare il processo da uomo libero. Sciascia si avvicinò alla galassia radicale, declinando tutta la sua acredine intellettuale verso quel mondo, rifiutando di accettare che lo Stato italiano si trovasse in un uno stato di emergenza. In tal senso destò clamore un suo pamphlet pubblicato a pochi mesi dal rapimento e dall’assassinio del presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro.
Sciascia si impegnò in una analisi testuale delle lettere dalla prigionia dell’uomo politico democristiano, che lo portò ad attestarne l’autenticità, contro la gran parte dei commentatori che giudicavano questi testi falsi o estorti. Criticò aspramente la linea della fermezza, cioè quanti avevano rifiutato di trattare con i rapitori, e sentenziò che Moro era stato ucciso da due «stalinismi», quello delle Brigate rosse e quello del Pci riconvertito alle logiche da «fronte nazionale» dall’ossessione della collaborazione con il partito di maggioranza, la Dc. (5)
Queste prese di posizione segnarono ulteriormente la distanza dello scrittore dalle istituzioni preposte alla garanzia dell’ordine e della giustizia. I motivi di polemica si accentuarono nel 1983 con l’arresto del boss Raffaele Cutolo, che valse a demolire la Nuova camorra organizzata, ma che portò anche alla carcerazione di Enzo Tortora, il quale poi risultò del tutto innocente, ma solo dopo un’estenuante odissea giudiziaria. L’intento di Sciascia era quello di dimostrare come tutta la tecnologia investigativo-giudiziaria, creata per combattere il terrorismo, si stava trasferendo nel contrasto alla criminalità organizzata, e insieme a questa strumentazione anche i rischi e gli eccessi, insiti nei meccanismi e negli istituti repressivi “speciali”, le carceri di massima sicurezza, i maxiprocessi con la grande enfasi posta sui reati associativi, e con la grande difficoltà poi di dimostrare la colpevolezza dei singoli e, infine, la legislazione premiale per i pentiti, intesa ad incoraggiare la loro collaborazione. (6)
Tra gli anni settanta e gli anni ottanta si realizzò un ben più ampio contatto e contagio non soltanto fra gli strumenti di contrasto alla violenza politica e criminale, ma tra le due fenomenologie in sé; uno scambio di modelli, di riti e valori, un fenomeno complesso e tortuoso che non può essere ricondotto ad una ingenua credenza popolare secondo cui i mali peggiori del nostro Paese, hanno tutti un’origine comune, un grande vecchio che mai nessuna indagine è riuscita a sgominare, ma che tutte le ricostruzioni dietrologiche, pongono come eterogenesi dei fini. Ma quello che balzava agli occhi era che la violenza durante quegli anni creava un consenso. Fu proprio quello il contesto storico e culturale in cui le mafie si rafforzarono nelle aree di più antico “inquinamento”, insediandosi pressoché ex novo in regioni del Sud come la Puglia o la Sicilia orientale, fino a quel tempo non eccessivamente pervase. Di questo contagio la Nuova camorra organizzata di Cutolo ha rappresentato la manifestazione più evidente, la stessa sigla, Nco, almeno nell’assonanza letterale, richiama tante sigle di estrema sinistra, e come molto bene ha spiegato Isaia Sales (7), Cutolo la violenza l’ha reclutata nella devianza giovanile, nei suoi luoghi di aggregazione, carceri e periferie sperdute.
La mafia siciliana arrivò all’appuntamento degli anni ottanta con una forte coscienza di sé, una coscienza che gli è derivata dalla sua storia secolare. Ma se fino a quel momento aveva comunque e sempre ostentato una grande deferenza nei confronti del potere, e degli uomini di potere, da quel momento cominciò a credere nell’efficacia di una violenza non solo praticata, ma anche ostentata. La logica di tutto questo ci appare nella necessità, in un momento di fratture interne e di riorganizzazione degli equilibri di potere, come avviene durante la seconda guerra di mafia, di legittimarsi attraverso una competizione violentissima e intestina alla stessa mafia, legittimazione ch’è arrivata soltanto dalla capacità di dimostrare “geometrica potenza”, di fuoco, dunque.
Cede la rete del consenso
La rottura della rete del consenso, sollecitata dall’incalzare degli eventi non era facile da realizzarsi. Accadeva che per pagare un debito, un commerciante accettasse un mafioso come socio, come fornitore o come finanziatore, fungendo da riciclatore di danaro sporco. Erano meccanismi allora in piena espansione. Molti degli imprenditori che nelle inchieste del giudice Cesare Terranova degli anni sessanta figuravano come vittime delle estorsioni, in quelle successive del nuovo pool di inquirenti e soprattutto di Giovanni Falcone, furono identificati come partecipi e profittatori dell’economia criminale. La malattia in questi anni diventa contagiosa, investendo in pieno Catania, città orgogliosa della sua presunta modernità, nei confronti di Palermo. Catania in quegli anni si segnala come uno dei maggiori centri criminali del Mezzogiorno. I partiti di governo sembrano non vedere nulla, e i comunisti al massimo cercano di ipotizzare un patto dei produttori con i cosiddetti cavalieri del lavoro. La stampa locale tace, fino a quando Pippo Fava fonda prima “Il giornale del Sud”, dal quale viene subito estromesso dall’incarico di direttore, e poi “I Siciliani” dove ripropone il suo attacco al potere mafioso, in maniera adesso radicale. La tesi di Pippo Fava era che l’economia dei cavalieri dipendeva dai favori politici e da flussi di danaro pubblico: era il brodo di coltura nel cresceva il potere della mafia catanese e del suo boss, Nitto Santapaola. Fava nel 1984 fu ucciso in pieno centro a Catania, ma le sue inchieste hanno raccontato come il tessuto economico e politico della sua città fosse completamente permeato dagli interessi mafiosi.
Le oscillazioni del mondo politico isolano di fronte all’esplosione della seconda guerra di mafia e alle inchieste degli anni ottanta si spiegano con il moltiplicarsi di quelle che solo in apparenza si presentavano come posizioni terze. Rosario Nicoletti, segretario regionale della Dc, interveniva ad un convegno antimafia richiamandosi alla necessità di una riappacificazione generale (8), e Michelangelo Russo, leader del Pci all’Assemblea regionale, dichiarava l’impossibilità di fare l’esame del sangue alle imprese con cui la Pubblica amministrazione entrava in rapporti d’affari. Il ragionamento più usuale al tempo, come spesso ancora oggi, è il seguente: per combattere la mafia non c’è bisogno di più polizia o più controlli, ma soltanto di più danaro pubblico alle imprese siciliane. Argomento che trovava vasto consenso nell’opinione pubblica, anche se in quel preciso momento storico i trasferimenti statali erano copiosi, ma venivano con altrettanta solerzia intercettati, in buona parte, dalle organizzazioni mafiose. Accanto a questo discorso, spesso ritornava lo stereotipo antropologico del siciliano uomo selvaggio e violento, come sostiene lo stesso Salvo Lima, capo della corrente andreottiana nell’isola, sindaco del sacco edilizio di Palermo, quando afferma «La mafia che cos’è? È una parola, scusi: come si fa a rispondere ad una domanda del genere. La mafia è il comportamento di chi vuole imporre la sua visione…» (9); contrariamente a come la si rappresentava, la mafia durante quegli anni ha mostrato il suo volto più feroce e organizzato, insieme al suo tratto di crescente modernizzazione. Lo dimostrano gli omicidi eccellenti portati a termine in quel periodo.
Cesare Terranova, che a lungo aveva indagato sui corleonesi, viene ucciso nel 1979, e Pio La Torre, che per primo aveva intuito gli scambi in corso fra mafia e terrorismo, viene ucciso nel 1982. (10) Con Terranova e La Torre fu colpito il maggiore partito d’opposizione, ma pagò un alto prezzo anche la Dc. Nel 1980 venne ucciso il presidente della Regione, il democristiano Piersanti Mattarella, che si era orientato verso una politica di rinnovamento. Su questa stessa linea si collocarono pure Elda Pucci, e Leoluca Orlando, identificatosi dopo, proprio come il sindaco antimafia di Palermo. Orlando metteva a confronto l’organizzazione, primario punto di forza della mafia, con la disorganizzazione della società civile. Il politico, quindi, durante la sua “primavera di Palermo” strutturò un tessuto associativo antimafia che rappresentò il suo punto di riferimento nel dialogo con la cittadinanza. In questi gruppi convogliarono ex-sessantottini, sinistra radicale, cattolici del dissenso.
Tutto questo appariva a Sciascia come assimilabile al compromesso storico, da lui visto con sospetto. Più in generale, l’esaltazione della magistratura e della repressione penale nella Palermo degli anni ottanta gli ricordava quegli anni venti in cui si era perpetrata l’operazione antimafia del prefetto Cesare Mori. Sciascia pensò subito a lui quando nel 1982 vide nominato prefetto di Palermo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il suo giudizio non mutò nemmeno quando il generale fu ucciso. (11) Le polemiche tornarono a riaccendersi in occasione del maxiprocesso apertosi a Palermo nel 1986, e che vide portati alla sbarra centinaia di mafiosi. Il fronte antimafia tornò a mobilitarsi, anche se a volte appiattendosi – in modo ingenuo – sulle strategie processuali della Procura. Le voci del racconto, divise e contrapposte, sono quelle di Giampaolo Pansa, che raffigurò Palermo come una palude, pronta ad inghiottire il processone. Sul fronte opposto, si registrarono le ritrosie del maggiore quotidiano cittadino il “Giornale di Sicilia”, e le proteste del mondo forense che misero in discussione la legittimità stessa del processo, fondato sulle accuse di alcuni pentiti. Assai sospettoso nei confronti dei pentiti si dimostrò anche, insieme a Sciascia, Michele Pantaleone, il polemista più noto a livello nazionale, proveniente da sinistra e in rotta di collisione con i comunisti. Erano voci palermitane che si sovrapponevano a quelle che già si erano schierate su scala nazionale sulla linea garantista al tempo del terrorismo. (12)
Pentiti e professionisti dell’antimafia.
Si deve alle rivelazioni dei “pentiti” la gran parte delle conoscenze che abbiamo maturato in relazione alla criminalità organizzata. Non soltanto pentiti di mafia, ma anche pentiti brigatisti. Il motivo per cui Tommaso Buscetta si pentì, almeno stando alle sue dichiarazioni, è da trovare nell’effetto perverso provocato dai processi di centralizzazione all’interno di Cosa nostra, che portarono l’organizzazione lontano delle sue finalità originarie. La mafia, sosteneva Buscetta, era nata come alleanza fra uomini d’onore, per moderare i conflitti interni alle famiglie, e considerare la violenza come extrema ratio. (13) L’effetto perverso stava proprio nella manifestazione, quasi iperbolica, della violenza corleonese. Anche i pentiti della sinistra rivoluzionaria, di fronte ai disastri conseguenti agli anni di piombo, spiegarono la loro scelta con la raggiunta convinzione dell’inutilità delle loro battaglie per la rivoluzione proletaria, la quale anzi, peggio, rischiava di mettere in discussione quella democrazia formale che tutti i rivoluzionari di ispirazione marxista promettono di inverare nella loro società futura. Quei militanti dunque si pentirono commisurando un effetto perverso dei propri scopi.
Ma il fatto che alcuni fra i più importanti processi di mafia fossero stati istruiti grazie alle rivelazioni di alcuni pentiti, gettava, secondo alcuni, Sciascia in testa, insieme a Lino Jannuzzi e Michele Pantaleone, una luce non proprio positiva sulle operazioni giudiziarie in corso. (14) Sciascia era fortemente convinto che il problema non fosse tanto quello della mafia, ma quello di una giustizia ormai al collasso. Allo scrittore siciliano non poteva non risultare sospetta la deduzione dall’ipotetica superdirezione mafiosa delle responsabilità penali dei singoli.
Il problema che stava sullo sfondo del dibattito. Era quello che faceva la differenza fra una “vecchia e buona” mafia da una cattiva mafia attuale, quella che ammazza donne e bambini, contro quella che in fondo, come ce l’ha descritta Buscetta, era una società di uomini d’onore, nata per difendere i propri interessi. La realtà processuale fu molto più truce e frastagliata di quella descritta da Buscetta. Il pentito, come molto spesso accade, ha cercato di edulcorare le sue posizioni, attribuendo ogni male ai corleonesi. In realtà Buscetta, uscito sconfitto dalla seconda guerra di mafia, maturò la sua vendetta attraverso il pentimento, identificando nella violenza di Totò Riina e soci, la componente che più di ogni altra aveva destrutturato un sistema di valori solido, la vecchia mafia. Ma se usciamo dallo stereotipo, ci accorgiamo che la seconda guerra di mafia scoppiò per il riequilibrio dei profitti del traffico degli stupefacenti fra le famiglie palermitane, con sponde importanti negli Usa. Buscetta fu uno dei boss, che più di altri organizzò quel traffico e dal quale trasse ingenti guadagni. I corleonesi con la forza delle armi si imposero come i nuovi padroni del traffico di droga.
La corrente garantista dunque, capitanata da Sciascia, sollevò dubbi utili a meglio inquadrare la portata delle dichiarazioni dei pentiti. Gli inquirenti si trovarono in effetti a dover difendere le rivelazioni della loro testa d’ariete da calunnie e insinuazioni, e non sempre vollero prendere o seppero prendere le distanze dalla loro ideologia così mistificante, tant’è che Iannuzzi arrivò a parlare di teorema Buscetta, sarebbe stato più opportuno parlare di teorema Falcone.
Falcone era il cervello, l’elemento più lucido e straordinariamente intuitivo del pool antimafia che aveva istruito il maxiprocesso (15). Queste sue capacità che lo portarono ad accettare il “codice della sicilianità” proposto da Buscetta, lo stesso codice che lo portava ad una comprensione profonda anche delle sfumature che caratterizzavano lo stato d’animo del pentito durante la collaborazione. Ovviamente Falcone usò questo come una leva per portare la vicenda a volgere in suo favore, a rassicurare Buscetta, mentre gli svelava un mondo sotterraneo e ignoto. Qui ancora una volta torna la questione della concordia discors fra terroristi e mafia; se i primi avevano una ideologia forte, spiegò più volte Falcone, anche i secondi, contrariamente al sentire comune, non erano privi di ideologia. Sull’elemento ideologico bisognava intervenire perché la battaglia per il consenso era fondamentale per vincere la guerra in corso fra Stato e mafia. Alla lotta sul campo, si affiancava quindi una lotta intellettuale, fra garantisti, e procura. Questo stato di cose si è inevitabilmente riflesso anche sul Maxiprocesso. È ancora Jannuzzi a sostenere che la procura si è troppo concentrata sull’accusa dei corleonesi, lasciando impunita la collusione della Dc palermitana, dei Gioia Lima e Ciancimino, con il potere mafioso (16). Questa posizione va commisurata con quella di Falcone, che sin dal 1982 aveva ribadito la sua necessità primaria, ovvero quella di una rigorosa ricostruzione degli aspetti criminali delle organizzazioni mafiose, rispetto alla rete di complicità e connivenze, e dunque a maggior ragione sugli aspetti politici e contestuali, stando bene attento a non fare annacquare le sue inchieste, passando da una connessione all’altra. Questa sua estrema convinzione lo avrebbe portato qualche tempo dopo a gravi scontri con una parte importante dell’antimafia cittadina, quella impersonata da Orlando, sindaco di Palermo. Ed è proprio nel bel mezzo del maxiprocesso che cade il famoso articolo di Sciascia, pubblicato sul “Corriere della Sera” e redazionalmente intitolato ai Professionisti dell’antimafia (17). L’articolo che tante polemiche ha destato è strutturato in tre parti, e quella più sorprendente è la terza, dove viene attaccato con nome e cognome Paolo Borsellino, membro del pool antimafia con Falcone, e appena nominato dal Csm procuratore della Repubblica di Marsala.
Sciascia vibra la sua protesta contro questa nomina, poiché nonostante Borsellino non fosse il candidato più anziano ottenne ugualmente quella nomina. In suo vantaggio c’era soltanto la sua più lunga esperienza di processi di mafia. La deduzione finale era che per fare carriera nella magistratura nulla sarebbe stato più vantaggioso che partecipare a processi di mafia. Le reazioni furono forti, su tutte possiamo ricordare quella dei giovani del coordinamento antimafia, che simbolicamente lo espulsero dalla società civile, sentendosi traditi da quel padre nobile dell’antimafia, con il quale tante battaglie avevano condiviso. Forse non avevano percepito per tempo la distanza siderale che li separava dal loro antico maestro. (18)
Epilogo
Riportando il discorso all’origine, possiamo dire che sia sul fronte del terrorismo sia su quello della mafia non vennero incrinati, negli anni settanta e ottanta, i diritti individuali e le pubbliche libertà. Questo però non esclude l’utilità delle polemiche garantiste, considerando la mole di persone che contro il terrorismo invocarono la pena di morte e, contro la mafia, la legge marziale. Sciascia considerò inconcepibile che degli assassini potessero lasciare il carcere solo perché confessi. Anche se adesso è molto più semplice smentire Sciascia su questo punto, poiché le rivelazioni dei pentiti si sono dimostrate condicio sine qua non per conseguire successi nel contrasto di organizzazioni strutturate, terroristiche e mafiose. Di valore assoluto fu la testimonianza di Buscetta , nonostante le sue reticenze. Resta da dire sui rischi insiti in ogni commistione fra sfera politica e sfera penale, cruciale per Sciascia. A nostro avviso il problema esiste, poiché la lotta alla mafia non può che muoversi a cavallo fra politica e giudizio penale, poiché è la stessa criminalità che si muove a cavallo tra queste due sfere, e in questo contesto i riferimenti di Sciascia al totalitarismo erano piuttosto eccessivi. In tempi diversi e in modi diversi, sono stati molti i partiti politici che si sono appellati alla repressione delle criminalità. Qualche indicazione ci viene data dalla Rete di Leoluca Orlando, movimento costituito nel 1991 con l’intento di ricompattare le fila dell’antimafia palermitana degli anni ottanta, cercando un collegamento nazionale con il cattolicesimo del dissenso di Milano e del Trentino. Dopo un grande iniziale successo, l’esperimento gradualmente si affievolì fino a scomparire (19). Ancora più controvertibile è la questione della reciproca congruenza dei due momenti – politico e istituzionale – dell’antimafia. Sciascia ancora una volta gridò in faccia al coordinamento antimafia, che lo aveva attaccato duramente, la sua rabbia per la loro volgare protesta seguita all’articolo sui professionisti dell’antimafia, comparso sul Corriere. Allo stesso modo Orlando non risparmiò critiche a Falcone, accusandolo di tenere i processi politici del “terzo livello”nel cassetto. Premesso che non esiste alcun terzo livello, alcun ignoto puparo, ma una rete criminale organizzata e verticistica, questa è diventata una storia di padri disconosciuti dai figli, di etiche contrapposte, che ha come immediato antecedente la polemica fra Sciascia e Amendola. Forse Amendola, nel merito, ha visto in profondità, ma nel metodo non possiamo non apprezzare la ritrosia del liberale Sciascia nell’accettare di svolgere ancora la funzione pedagogica rivendicata dai comunisti per il loro partito–padre. Un po’ come in quegli anni fece quell’altro grande indipendente, Pier Paolo Pasolini. Entrambi rifiutarono il ruolo dell’intellettuale organico, e Sciascia non ebbe mai paura di manifestare le sue posizioni anche se, come accadde, corse il rischio di essere precettato, in maniera errata, dal fronte della cultura delle manette. Ovviamente la produzione letteraria dell’autore di Racalmuto non può essere ridotta alla congiuntura da noi analizzata in questo frangente. Nondimeno proprio questo provò a fare nel 1993 Sebastiano Vassalli, parlando di una tradizione culturale siciliana particolarmente omertosa, che parte da Pirandello e culmina appunto in Sciascia. (20) Polemiche strumentali, quelle di Vassalli, ma che comunque gettavano uno sguardo nazionale sulla Sicilia, che per nulla fugava dal mito attraverso il quale la Sicilia era stata rappresentata.
Note
1) D. della Porta, Movimenti collettivi e sistema politico in Italia, 1960 – 1995, Laterza, Roma-Bari 1996.
2) G. Trotta – F. Milana, L’operaismo degli anni sessanta. Da «Quaderni rossi» a classe operaia, Derive e Approdi, Roma, 2008.
3) S. Belligni, (a cura di), La giraffa e il liocorno. Il PCI dagli anni Settanta al nuovo decennio, Angeli, Milano 1983.
4) N. Ajello, Il lungo addio. Intellettuali e PCI dal 1958 al 1991, Laterza, Roma- Bari 1997.
5) L. Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio, Palermo, 1994, pp. 64-5.
6) Per un’analisi completa sul fenomeno del pentitismo mafioso cfr. A. Dino, Pentiti, Donzelli, Roma 2007.
7) I. Sales, La camorra, le camorre, Editori Riuniti, Roma 1988.
8) C. Battiato – N. Vara, Catania. La Mafia, i cavalieri, la sinistra, Edizioni associate, Roma 1993.
9) Intervistato da P. Guzzanti, “Palermo una città modello”, in La Repubblica, 10 settembre 1982.
10) S. Lupo, Storia della Mafia, op. cit.,; P. La Torre, Se terrorismo e mafia si scambiano le tecniche, in “Rinascita”, 16 novembre 1979.
11) L. Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1989.
12) M. Pantaleone, Mafia: Pentiti? Cappelli, Bologna 1985.
13) S. Lupo, Che cos’è la mafia, Donzelli, Roma 2007.
14) L. Sciascia, Così parlò Buscetta, Sugarco, Milano 1986.
15) Di particolare interesse è il libro intervista G. Falcone, Cose di Cosa nostra, a cura di M. Padovani, Rizzoli, Milano 1991.
16) L. Jannuzzi, Così parlo Buscetta, op. cit., p. 103 e segg.
17) In Sciascia, A futura memoria, op. cit. pp. 123-130.
18) Il testo del coordinamento contro le affermazioni di Sciascia è riportato in G. Marino, Storia della mafia Newton & Compton editori, Roma, 2000, .p. 306.
19) L. Orlando, Palermo, a cura di C. Fotia e A. Roccuzzo, Mondadori, Milano 1990.
20) La polemica servì al tempo per lanciare il romanzo di Vassalli, Il Cigno, Einaudi Torino, 1993, ambientato in Sicilia ai tempi del delitto Notarbartolo, seconda metà dell’Ottocento.
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