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Quella fra sostenitori del sistema maggioritario e sostenitori del sistema proporzionale è una delle battaglie più longeve della scienza politica. Tanto che pretendere di farla avanzare anche di un solo piccolo passo significa peccare di gravissima protervia; e, ancor di più, significa non capire che – come molti degli scontri caratteristici delle scienze umane – anche questo non procede poiché è ormai giunto a porre la questione nei termini di una alternativa di valori, o, se vogliamo essere meno raffinati, di gusti.
E, come dicono i francesi, di gusti e di colori, si sa, non si discute.
Ciononostante, vi è un aspetto della battaglia che sembra poter essere indagato proprio a partire dalla riflessione che si tratta, in effetti, di un’alternativa valoriale.
Per farlo, occorre rispondere in via preliminare ad una domanda: si tratta di una battaglia ad armi pari? No.

Confessiamolo: fra proporzionalisti e maggioritaristi a sopportare l’onere della prova sono sempre questi ultimi. Quel che è anche più interessante: di ciò essi non paiono lamentarsi, e sembra che trattino questa sproporzione fra i compiti come qualcosa di ovvio. Quasi condividessero essi stessi, in ultima analisi, l’idea che il sistema che propugnano è artificioso, e dunque sospetto. Perché?

È evidente: perché il sistema proporzionale si fonda su quel principio, apparentemente inattaccabile, per cui tanti cittadini pensano x, tanti parlamentari in proporzione devono pensare x (1). Non c’è modo, si direbbe, di evitare che qualsiasi dipartita da questo semplice assioma sia interpretata né più né meno che come un furto.

Per carità: un furto la cui legittimità può ben esser giustificata in base ad una serie di altre ragioni: la riduzione del numero dei partiti, la costruzione di un bipolarismo o perfino di un bipartitismo, la stabilità di governo (2). Ragioni, che si possono genericamente definire efficientistiche, che in ultima analisi non intaccano l’apparente carattere fraudolento del maggioritario.

Eccola qui, l’alternativa di gusti, pardon, di valori: rappresentatività, efficienza.

La domanda è quindi: ma è davvero così? Cioè: è davvero certo che il sistema proporzionale è quello che assicura la rappresentatività; e il sistema maggioritario (3) assicura soltanto che, al prezzo di un tanto di rappresentatività, si guadagni un tanto di efficienza?

Se si aprono i libri di scienza della politica e di analisi dei sistemi elettorali, l’apparente ovvietà della risposta viene in parte intaccata; ma non in un senso favorevole al sistema maggioritario: salvo che sotto una serie di condizioni ben precise, il nesso fra governi stabili (ed efficienti) e sistemi maggioritari è tutt’altro che certo (4).

Il che però induce ad un’altra considerazione: se il senso comune in effetti è in parte fuorviato quando dà per scontato che il sistema maggioritario favorisce la stabilità, non giova forse indagare l’altro dogma, e cioè che esso diminuisce la rappresentatività?

È a questa questione che il testo si rivolge, senza particolari pretese, ma nella maniera più limpida possibile.

L’argomentazione

  1. Per cominciare: che cosa intende il senso comune quando sostiene che il proporzionale garantisce maggiore rappresentatività del maggioritario? Esso si riferisce ad un concetto in effetti non politico-giuridico, ma socio-economico: cioè al concetto di “somiglianza”. Un sistema elettorale è rappresentativo, insomma, quando è in grado di riportare al livello parlamentare le posizioni (in senso lato) politiche dell’elettorato: ovvero quando vi è un rapporto di somiglianza fra i due livelli, quello dei rappresentanti e quello dei rappresentati

Di qui, però, una domanda: chi può essere il “giudice della rappresentatività”? Ovvero, chi è idoneo a definire il soddisfacimento della condizione della rappresentatività? Non disponendo di un osservatore esterno cui rimettere tale giudizio, sembra che il modo migliore sia costruire quello che in microeconomia viene definito un ordinamento sociale indiretto (5), e cioè un sistema in cui sono gli attori stessi a fornire un dato attraverso il grado della loro soddisfazione: dunque, un partito (6) è rappresentativo di un elettore quando l’elettore preferisce che sia quello, piuttosto che altri, a rappresentarlo. Ne consegue che un sistema elettorale è rappresentativo quando fornisce risultati che tendono a massimizzare, nel numero maggiore di elettori, il soddisfacimento di tale condizione (7).

  1. Ma come si deve interpretare il concetto di “preferenza”? Cioè, la preferenza che entra in gioco nel discorso è del tipo: desideri il vino bianco o rosso? Oppure è del tipo: quali sono i tuoi gusti in fatto di vini?

In altri termini, il modo di esprimere le proprie preferenze può essere di due tipi. Da un lato vi è il metodo per cui un soggetto, posto di fronte ad un gruppo di alternative, indica quella che preferisce: l’ipotesi sottesa è che quella specifica alternativa gli garantisce felicità totale e tutte le altre felicità nulla. Possiamo chiamarla preferenza “digitale” (alternativa x : felicità 1 ; alternative y,z,n,… : felicità 0) o, se vogliamo essere meno sofisticati, preferenza “semplice”.

Dall’altro lato, vi è il metodo per cui il soggetto deve indicare per ciascuna delle alternative qual è il grado di felicità o infelicità che gli provocano (misurato per esempio su una scala fra +1 e -1). Possiamo definirla preferenza “ordinale”, poiché un altro modo per concepirla è che si chieda al malcapitato di porre le singole alternative in ordine – appunto – di preferenza.

  1. Domanda: qual è nella vita il concetto di preferenza che si adopera più spesso? Risposta: evidentemente il secondo.

L’idea è a questo punto che nella preferenza per i partiti gli individui non si comportino troppo diversamente da come si comportano nelle altre scelte della loro vita: essi, più o meno consapevolmente, in base alle proprie posizioni su una serie di tematiche che considerano rilevanti, prediligono un partito rispetto a tutti gli altri (una forte affermazione di quel partito garantirebbe loro felicità molto alta), quindi dispongono gli altri in maniera ordinale, a cominciare da quelli che non distinguono troppo dal primo, e giù fino ad un certo numero di partiti che detestano (per le loro posizioni, una loro forte affermazione garantirebbe loro infelicità), o fino a quello che li repelle.

  1. Appurato questo, è evidente che quando si vota con il sistema proporzionale, si esprime la preferenza per un partito perché nella nostra lista esso, magari per poco, supera tutti gli altri. (Anche con il maggioritario, si dirà: ma è meglio lasciare la risposta a dopo).

Si tratta in realtà di un elemento di strozzatura, cui siamo ben disposti a cedere perché ci siamo abituati. Questo non implica però che esso sia ininfluente.

  1. Un esempio lo può dimostrare bene. Ipotizziamo un Paese con cinque partiti che rispondono ciascuno alle preferenze (semplici) di un quinto dell’elettorato; in questo Paese, però, uno dei  partiti è assolutamente odiato dall’insieme di tutti coloro che non lo votano (nel senso che tutti lo collocano unanimemente nel gradino più basso sulla scala delle loro preferenze); un altro, invece, costituisce (ad esempio per la sua moderazione) la seconda scelta di tutti gli elettori (oltre che la prima dei suoi).

La domanda è: il Parlamento che ne deriva, in cui ciascuno dei cinque partiti ha il 20\% dei seggi, è un parlamento davvero rappresentativo del Paese?

Risposta: no.

  1. A questo punto, l’obiezione che si è rinviata sopra: ma non avviene lo stesso col maggioritario?

Risposta: no.

Il maggioritario costringe ciascun elettore ad una scelta: egli può

-manifestare col voto la sua preferenza semplice verso un partito, come nel proporzionale; in questo caso però egli rischia di sprecare il suo voto, se pensa che la maggior parte degli altri elettori non colloca tale partito nel gruppo di quelli che preferiscono. E così egli è costretto a esprimersi in favore di quel partito che trova sufficientemente (anche se non pienamente) rappresentativo delle sue posizioni, ma che ritiene anche che buona parte degli altri elettori giudica altrettanto rappresentativo delle loro.

  1. Che tipo di preferenza si è manifestata qui? È evidente, la preferenza ordinale.
    Quel che è forse anche più significativo, poi: ciascun elettore attraverso questo ragionamento è costretto a porsi il problema non solo della propria preferenza ordinale; ma anche della preferenza ordinale dei suoi concittadini. Il che consente una sorta di doppio calcolo delle preferenze di ciascuno (8).
  2. Nell’esempio che si è fatto prima, quindi, che tipo di Parlamento ci possiamo aspettare? Potenzialmente, un Parlamento pressoché monocolore di quel partito che è l’oggetto della seconda preferenza di tutti.

E se pure è vero che probabilmente, tenuto conto delle aspettative e delle conseguenti alleanze (9), il risultato non sarebbe affatto di questo tipo, comunque: sarebbe poi un Parlamento del genere così fortemente disrappresentativo? La risposta, una volta di più, è no: è infatti per ipotesi che si è posta una anomala (e pressoché impossibile) convergenza delle seconde preferenze verso quel solo partito. Il che rende perfettamente ragionevole che, una volta che il sistema elettorale si tolga la benda che lo rende cieco alle “seconde preferenze”, esso ritorni un risultato fortemente influenzato da quel dato.

La conclusione

Quello che si è dunque cercato di dimostrare in questo articolo è come l’ipotesi, propria del senso comune, per cui il sistema proporzionale costituisce un “sistema naturale”, poiché garantisce la rappresentatività, è in effetti falsa: il sistema maggioritario, infatti, costruisce assemblee almeno altrettanto rappresentative, ove si faccia riferimento alle preferenze ordinali e non solo alle preferenze semplici degli elettori.


Note
1) Giova qui sottolineare subito che tale principio, quello della rappresentatività, è in effetti tutt’altro che inattaccabile. Perché un Parlamento debba essere rappresentativo, è una questione che può esser tanto strana quanto difficile da risolvere. Infatti, in effetti, è stato notato giustamente che il concetto di rappresentanza (che è invece essenziale all’ordinamento liberale-democratico contemporaneo) è assai più legato con il concetto di responsabilità che con quello di rappresentatività.
Senza entrare nelle asprezze del ragionamento, sia sufficiente notare che non è necessario che un Parlamento sia rappresentativo perché esso risponda al criterio democratico di portare avanti le istanze richieste dalla società civile nell’ambito dei limiti posti a tutela dei dissenzienti.
Ciononostante nel prosieguo del testo si adotterà come postulato il valore della rappresentatività, dal momento che è in tali termini che viene consuetamente giustificato il primato del sistema proporzionale.
2) Per citare le spiegazioni più diffuse, ancorché sia innegabile che ve ne sono altre che godono di almeno altrettanta forza argomentativa: la tendenza del maggioritario a responsabilizzare i cittadini e a moderarli, moderando le loro pretese (inducendoli a confrontarsi col principio cardine di qualsiasi sistema economico – e quindi in ultima analisi anche di quello politico – il principio delle risorse scarse); la costituzione di un legame più stretto fra rappresentanti e rappresentati, attraverso l’introduzione del collegio in luogo della circoscrizione proporzionale (giocoforza assai più ampia).
3) Il lettore si potrebbe qui domandare: sì, ma quale maggioritario? E lo farebbe legittimamente, poiché vi è un solo proporzionale, ma vi sono tanti maggioritari. Ci si accontenti qui di parlare del sistema anglo-americano del “first-past-the-post”, cioè dell’uninominale a turno unico.
4) La letteratura in materia è oggi sconfinata: si faccia riferimento anche solo a Sartori, G., Ingegneria costituzionale comparata, Il Mulino, Bologna, 1994.
5) Su questa scelta, cfr. Acocella, N., Elementi di politica economica, Carocci, Roma, 2001;
6)  D’ora in avanti ci occuperemo esclusivamente del “partito”, come se alle elezioni di fatto i cittadini avessero come alternative esclusivamente partiti, e non anche candidati: ciò può dare adito a qualche obiezione, ma non influenza la linea espositiva del testo.
7) Il passaggio dal concetto di rappresentatività a quello di preferenza merita forse di essere illustrato anche in maniera differente, poiché tale percorso mentale nasconde in realtà una impostazione culturale ben precisa, e cioè un’impostazione di tipo liberale.
È di qui infatti che si deriva la definizione della rappresentanza politica come rappresentanza di volontà, ovvero, in termini solo in parte differenti, rappresentanza degli interessi del singolo per come egli li concepisce.
Da ciò consegue che un sistema elettorale è “rappresentativo” in quanto consenta al singolo di manifestare le proprie preferenze (ovvero i suoi interessi per come egli li concepisce).
L’inciso ricorrente “per come egli li concepisce” consente di differenziare questa impostazione da quella della “rappresentanza degli interessi”. La quale può avvenire anche attraverso strumenti di tipo non democratico (in quanto vi possono essere enti astratti – il “pianificatore saggio” dell’analisi economica – in grado di definire più correttamente del singolo i suoi interessi).
Sull’intera tematica cfr. lo splendido saggio di Pietro Costa “Il problema della rappresentanza politica”, in Il Filangieri, 2004, n° 3, pp. 329-400.
8) Nonché, se si vuole, una serie di altri vantaggi: e in particolare la diffusione dell’habitusdemocratico a ragionare ponendosi anche la prospettiva dell’altro.
9) L’assurdo dell’ipotesi del Parlamento monocolore sta nel fatto che il sistema elettorale non influisce solo sulla rappresentanza dei partiti ma anche sui partiti stessi. Potremmo dire che il risultato descritto ipoteticamente nel testo si verificherebbe esclusivamente nel caso in cui il sistema elettorale passi per magia da maggioritario a proporzionale il giorno prima delle elezioni, in modo che gli elettori possano fare i propri calcoli, ma i partiti non i loro.
Nel mondo reale, invece, i partiti ideologicamente non troppo dissimili (a parte quello ipoteticamente vittorioso) si alleerebbero, ovvero modificherebbero i loro programmi in modo da raggiungere una quota di consensi quasi pari a quello, e il Parlamento risulterebbe più o meno diviso a metà, com’è quasi costantemente in tutte le democrazie maggioritarie.

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