Cominciamo dalla fine. Se il tempo contrassegnato da COVID-19 ha reso chiara una cosa è che è l’epilogo, e non l’inizio, che connota. Vale per ogni serie TV, di quelle sulle piattaforme digitali viste nelle serate senza alternativa. Vale per noi stessi: quello che siamo oggi conta più di quello che eravamo fino a febbraio 2020 e più di tutti i modi in cui ci eravamo immaginati di poter essere.
Mentre viviamo quello che speriamo sia l’ultimo capitolo della crisi sanitaria, ci rendiamo parimenti conto che con la pandemia, abbiamo in qualche modo sperimentato la “fine di un mondo”.
Dopo i primi mesi pervasi dall’idea di un ritorno al “come prima”, ci siamo dovuti arrendere al fatto concretissimo che qualcosa stesse per finire, senza aver chiaro cosa oggi si sia generato.
Partire dalla fine significa farsi ispirare dall’etnologia di Ernesto de Martino, o meglio dalla sua opera postuma La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali. La forza di tale pensiero si manifesta ogni volta in cui la storia umana, come nel momento attuale, si trova di fronte a punti di svolta, che abbiano un escaton o meno, ossia che evolvano verso un futuro operabile o che si accartoccino attorno a un “cattivo passato” che non passa.
Tre (+ una) lezioni apprese da COVID-19
Lezione numero zero: non dare più nulla per scontato.
Con la pandemia, è stato messo in crisi un intero mondo fatto di abitudini, prassi e simboli. Ne derivano sette parole: non possiamo dare più nulla per scontato. Vale per nostre comunità, che si sono trovate a fare i conti con il distanziamento fisico, con la didattica digitale, con la chiusura temporanea delle attività commerciali e con il palesarsi di rinnovate esigenze: non sappiamo se siano divenute migliori o peggiori, ma certamente diverse. Vale per le reti, intese come i legami più solidi interni ad una comunità: potrebbero aver trovato nuovi modi di costituirsi, ancora non considerate.
Vale per i bisogni: quelli riscontrati prima della pandemia non è detto siano gli stessi con cui ci troveremo a fare i conti oggi e nel futuro. Che cosa resta, quindi, di stabile?
Lezione numero uno: il vissuto della pandemia come memoria fondativa.
L’evento pandemico, avendo coinvolto tutte e tutti contemporaneamente e ponendo oggi a chiunque le medesime sfide, può fungere da elemento fondativo di un rinnovato senso di comunità.
Per dirla con Edgar Morin e le sue “comunità di destino”, il COVID-19 sarà l’elemento caratterizzante del prossimo decennio e delle generazioni che lo abiteranno.
Occorre essere consapevoli che i giorni trascorsi si sedimenteranno nella nostra memoria collettiva, e la costruzione di questa sarà un obiettivo di non poco conto, perché in base a ciò si dispiegherà l’operabilità sul reale, o meglio si apriranno una serie di possibili realtà di futuro.
Lezione numero due: ai bisogni di comunità si risponde con processi di comunità.
L’antropologia demartiniana racconta come si possa superare un vissuto di “fine” solo tramite processi mai singoli, ma portati avanti di una collettività: «la condizione umana è sempre nell’oltrepassare la vita nel valore, e una di queste valorizzazioni è quella della progettazione comunitaria dell’utilizzabile, per entro la quale si costruiscono un interno rispetto a un esterno, il proprio corpo rispetto agli altri corpi, la serie delle resistenze e delle abilità, l’esistenza singola nel quadro di un mondo».
Solo una seria progettazione comunitaria potrà aiutarci a pensare un futuro post-pandemico, quindi. Ciò che vale per tutte le culture della storia, vale per noi oggi, per quanto digitalmente evoluti possiamo essere.
Lezione numero tre: siamo a un bivio.
Sempre de Martino scriveva negli anni Sessanta relativamente al suo tempo: «Se dovessi individuare la nostra epoca nel suo carattere fondamentale, direi che essa vive nell’alternativa che il mondo deve continuare ma che può finire; che la vita deve avere un senso ma che può anche perderlo per tutti e per sempre; e che l’uomo, solo l’uomo, porta intera la responsabilità di questo deve e questo può».
Anche noi siamo giunti, per tramite della crisi pandemica, a un necessario punto di svolta della nostra democrazia. Da un lato uno scenario in cui finiremo a delegare decisioni, azioni e cura del bene comune a un piccolo gruppo di persone con un fare fideistico; dall’altro uno scenario contraddistinto dalla consapevolezza che possiamo e dobbiamo evolvere verso una “democrazia monitorante”, in cui il ruolo della società civile organizzata si fa cruciale.
Le comunità monitoranti del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (PNRR).
Il concetto, nella sua versione inglese di “monitory democracy”, è stato teorizzato dal sociologo John Keane: una «forma storicamente innovativa di democrazia, che poggia sulla rapida diffusione di molte nuove istituzioni di controllo: cani da guardia, se così vogliamo chiamarli, che all’occorrenza non smettono di abbaiare», si legge in una sua recente intervista per «Avvenire».
Per meglio accordarci alla cultura italiana e per mettere a sistema tutte le lezioni apprese dette prima, possiamo definire “comunità monitoranti” quelle istituzioni di controllo a cui Keane fa riferimento: gruppi di persone, organizzati su base territoriale o d’interesse, che condividono l’obiettivo di vigilare il bene comune in tutte le sue forme.
Nel futuro post pandemico, uno dei catalizzatori reali attorno a cui generare tali comunità (e tutte le nostre comunità) sarà certamente il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Il programma che definisce come spendere 235 miliardi di euro di risorse per la ripartenza nell’arco di pochi anni necessiterà di un importante numero di “occhi civici” che contribuiscano a fare in modo che non si disperdano investimenti e speranze.
Un’iniziativa a ciò finalizzata è il progetto LIBenter (libenteritalia.eu), dove Università Cattolica del Sacro Cuore, Fondazione Etica, Libera e CNEL, contando sulla partnership di una pluralità di soggetti che vanno ad aggiungersi, collaboreranno per rendere monitorabile dal basso ed effettivamente monitorato il PNRR.
«Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti», sono le parole tratte dal vangelo di Luca con cui papa Francesco apre il Motu proprio sulla trasparenza nella gestione della finanza pubblica vaticana. Il PNRR è quanto più di importante ci troviamo a vivere dal dopoguerra: richiede fedeltà da parte di chi lo pianifica e lo applicherà, ma anche capacità di monitoraggio da parte di coloro i quali non possono rimanere spettatori silenti.
Se siamo ancora con lo sguardo in alto a chiederci se la crisi sanitaria sia finita per davvero, occorre parimenti volgerlo al piano dell’orizzonte, perché il futuro dipenderà da quanto riusciremo a vigilare che il PNRR non si disperda in corruzione, opacità e sprechi.
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