Il conflitto normativo sul piano costituzionale come punto di partenza dei problemi legati alla definizione giuridica di laicità; la separazione tra diritto e fattore religioso come antitesi al ruolo attivo dello Stato; il “principio pattizio” sancito dalla Costituzione e la “neutralità” del diritto; la collocazione costituzionale del fenomeno religioso; i rapporti tra l’articolo 7 della Costituzione ed i principi di laicità e di uguaglianza religiosa; definizione giuridica di “laicità”.
Professor Ainis, lei parla di conflitto normativo a livello costituzionale, che si riflette nella prassi, come punto di partenza dei problemi pratici della laicità, dunque in materia di rapporti tra la Chiesa e lo Stato. In particolare, l’articolo 7 della Costituzione definisce lo Stato e la Chiesa cattolica, ciascuno nel proprio ordine, come indipendenti e sovrani, prevedendo, altresì, che i loro rapporti siano regolati dai Patti Lateranensi, per le cui modifiche non è richiesto dalla nostra Carta Fondamentale alcun procedimento di revisione costituzionale. Dove emerge nella Costituzione tale conflitto normativo?
La contraddizione più vistosa nasce dal secondo comma dell’articolo 7 della Costituzione, che introduce un regime speciale per la Chiesa cattolica, a dispetto del principio di laicità e di quello d’eguaglianza religiosa. Del resto già Salvemini osservava come ogni concordato è sempre un privilegio per le autorità ecclesiastiche e per i cittadini di fede cattolica; ma il riferimento ai Patti lateranensi nel testo della Costituzione italiana trasforma questo privilegio in un rompicapo per gli interpreti.
La separazione tra diritto e religione (sancita nel primo comma dell’articolo 3 della Costituzione [1]) è contraddetta dal ruolo attivo dello Stato (imposto dal secondo comma dello stesso articolo [2]).
Come nasce questa prima antitesi e come si riflette nella sfera individuale e collettiva?
L’articolo 3 della Costituzione vieta discriminazioni fondate sul fattore religioso: tutti i cittadini sono eguali «senza distinzione di religione», recita per l’appunto questa norma. Ne deriva che l’ordinamento rimane indifferente rispetto all’appartenenza religiosa; in altre parole, ne deriva che l’appartenenza religiosa è giuridicamente irrilevante. Dunque per l’articolo 3 la religione non ha significato giuridico, e non ce l’ha perché diritto e religione abitano sfere separate. D’altronde questa separazione riecheggia il primo e più fondamentale connotato dell’idea di laicità, che a sua volta accompagna la genesi degli Stati nazionali. Come ha mostrato Böckenförde, lo Stato nasce laico, o altrimenti non sarebbe nato. Nasce quando il potere politico divorzia dal potere religioso, attraverso un processo storico che ha origine nella Lotta delle Investiture, e viene poi codificato dalla Costituzione francese del 1791, quando la libertà di fede sancisce la definitiva emancipazione dello Stato rispetto alla cura degli affari religiosi. Come diceva Locke, la salvezza delle anime non ricade fra i compiti dello Stato.
Insomma dopo il secolo dei lumi la laicità implica l’irrilevanza della dimensione religiosa nel campo del diritto, e per l’appunto di questa irrilevanza è specchio il primo comma dell’articolo 3.
Tuttavia il secondo comma afferma ciò che il primo comma nega: l’appartenenza religiosa può ben tradursi in un fattore di discriminazione sociale, che perciò reclama interventi compensativi in nome del principio di eguaglianza sostanziale. Al pari del sesso o della razza, anche la fede quindi scivola dal piano dell’irrilevanza a quello della rilevanza giuridica se osservata con le lenti dell’eguaglianza formale ovvero di quella sostanziale. Questa disciplina pone allo Stato l’obbligo di definire l’appartenenza religiosa, di regolarla, di qualificarne gli ambiti. È un vincolo logico, ancor prima che giuridico.
Se la Costituzione garantisce la libertà di culto, i poteri pubblici non potranno trattare una chiesa o una moschea come un qualsiasi altro edificio, né assimilare una celebrazione sacra ad un comizio. Se le confessioni religiose hanno il diritto di stipulare intese con lo Stato, quest’ultimo dovrà quantomeno individuare il titolare del diritto.
Ma che cos’è una confessione religiosa? Lo è per esempio Scientology, un’organizzazione a metà del guado fra religione e psicanalisi, con una rigida gerarchia al suo interno e l’uso di tecniche di marketing all’esterno? Sta di fatto che non solo l’Italia, ma vari altri ordinamenti hanno dovuto prendere partito su Scientology, così come sul concetto di religione. Ma questo compito costringe le istituzioni pubbliche ad un’alternativa (è il caso di dire) diabolica: se in nome del principio di autonomia delle confessioni religiose lo Stato si limita a recepire le autodefinizioni dei singoli gruppi, esso rischia d’offrire una patente religiosa anche ad organizzazioni come quella fondata negli Usa durante gli anni Ottanta, dove si diventa ministri di culto spedendo 25 dollari per posta alla coppia fondatrice; se viceversa lo Stato forgia una definizione vincolante, dovrà usare giocoforza i materiali che gli propone l’esperienza, rischiando di cucire un vestito su misura per le vecchie religioni, e perciò di discriminare quelle nuove.
Come si concilia il principio pattizio [3] con la pretesa “neutralità” del diritto in uno Stato laico? In particolare, Professore, cosa si intende per “neutralità” dello Stato, ed in che senso uno Stato può e deve essere “neutro”?
Ne parlavamo poc’anzi. In via generale, la laicità si risolve in un’indicazione puramente negativa, che vieta all’ordinamento di farsi contaminare da valori religiosi. Evoca il «muro» fra Stato e chiese cui si riferiva Thomas Jefferson, e ripete in qualche modo il verso di Montale: «codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Ne deriva che il suo terreno di coltura risiede nell’eguaglianza formale, nella garanzia di non discriminare i cittadini in base all’appartenenza religiosa. Perciò il diritto laico è neutro, avalutativo rispetto alle questioni della fede: ai sensi dell’articolo 49 della Costituzione può ben esserci una «politica nazionale», ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione non esiste una religione nazionale. Perciò, in conclusione, le garanzie offerte dallo Stato laico sono garanzie formali; per meglio dire, la laicità è garanzia di un’unica forma, di un’unica procedura applicata senza tener conto della differenza religiosa. Tuttavia il principio pattizio innerva il diritto pubblico di elementi sostanziali, perché esso integra le chiese nello Stato, e a propria volta l’integrazione è veicolo di contaminazione dei valori religiosi nel tessuto formale del diritto.
Il fenomeno religioso ha una duplice collocazione nella nostra Costituzione: culturale ed istituzionale. Quale aspetto ritiene essere prevalente, anche sulla base dell’evoluzione storico-sociale del nostro Paese?
Intanto chiariamo la premessa. Se la fede è un tassello del concetto di cultura, essa ricade nello spettro normativo dell’articolo 9 della Costituzione: dunque lo Stato ha il dovere di promuoverla, oltre che di garantirne la libera espressione. Se viceversa la religione entra a comporre l’architettura istituzionale, essa giocoforza viene attratta nella sfera della politica, e deve sottostare alle sue regole. Non è una differenza da poco: in campo politico la decisione è governata dal principio di maggioranza, sicché lo spazio giuridico di ogni confessione religiosa dipenderebbe in questa ipotesi dal numero dei propri fedeli; ma in campo culturale il successo di pubblico non è mai garanzia di qualità (o di “verità”, potremmo dire nel caso di specie), ed anzi è spesso prova del contrario. Questo perché – diceva Adorno – non esiste una pura immediatezza della cultura, se non quando il prodotto culturale si presenti in realtà come bene di consumo; eppure nel nostro paese il seguito maggioritario del cattolicesimo è stato utilizzato in innumerevoli occasioni per giustificare i privilegi della Chiesa. Senza accorgersi che questo tipo di argomenti finisce per spogliare l’esperienza mistica dei suoi connotati culturali, e finisce in conclusione per trattare le confessioni religiose alla stessa stregua dei partiti. Ciò nonostante, e soprattutto a causa dell’attivismo politico delle gerarchie ecclesiastiche, il secondo aspetto risulta di gran lunga prevalente, nell’evoluzione socio-politica del nostro Paese. Ma nella Carta costituzionale no, è vero casomai il contrario.
Come si giunse alla formulazione dell’articolo 7 della Costituzione? E quali problemi pone il disposto del secondo comma di detto articolo [4] con il principio di laicità dello Stato e dell’uguaglianza religiosa?
Anche a questo abbiamo già accennato. Il fatto è che nel marzo 1947 l’Osservatore romano aveva ammonito a più riprese che il mancato richiamo dei Patti nella nuova Costituzione avrebbe minacciato la pace religiosa; e in un Paese traumatizzato dalla guerra, lacerato dal referendum tra monarchia e repubblica di qualche mese prima, incerto sul proprio orizzonte politico e sulle alleanze internazionali, l’articolo 7 venne concepito come una garanzia di stabilità, come un’assicurazione contro ulteriori fratture sociali. Sicché la questione vaticana fu rinviata a tempi migliori, come traspare dalla stessa formula costituzionale, quando essa allude alle future «modificazioni» dei Patti lateranensi; ma a prezzo di riprodurre la frattura all’interno della Carta.
Da cosa si evince il carattere eccezionale e, pertanto, derogatorio dell’articolo 7 della Costituzione? Nonché il suo carattere di norma provvisoria, che ha condotto alla tesi della “costituzionalizzazione provvisoria dei Patti”? Lei ha definito l’articolo 7 della Costituzione come “un frammento dello specchio, un’immagine parziale”. Si contrappone, dunque, al pluralismo religioso sul piano costituzionale?
Diciamo innanzitutto che il capoverso dell’articolo 7 esprime una norma particolare: il suo raggio d’escursione non investe tutte le confessioni religiose, ma soltanto quella cattolica. Il luogo della generalità, del pluralismo, è altrove, abita nell’articolo 8. E in quello stesso luogo abita pertanto la nostra identità. Perché l’identità è sintesi, non separazione. Questo vale per gli individui non meno che per i gruppi organizzati. Ciascuno di noi somma un’identità sessuale, politica, anagrafica, razziale. L’insieme di queste varie identità riflette la nostra immagine allo specchio. E l’immagine è una sola, a meno che lo specchio non sia infranto. In questo senso, l’articolo 7 è solo un frammento dello specchio, è un’immagine parziale, particolare per l’appunto. Si riferisce all’unica intesa già siglata nell’immediato dopoguerra, e le fa spazio tra i principi costituzionali. Come se i costituenti, dopo l’articolo 49 sui partiti politici, avessero scritto un articolo 50 sulla Democrazia cristiana. L’articolo 7 è dunque una specificazione dell’articolo 8, e questo connotato ne evidenzia la qualità di deroga, intesa come fattispecie contenuta all’interno di un’altra e più estesa fattispecie normativa: l’eccezione ha un oggetto particolare, la regola ha un oggetto generale, o almeno più generale rispetto all’eccezione.
Professore, può definire in termini giuridici i concetti di laicità e libertà religiosa?
Diciamo che rappresentano le due facce della stessa medaglia. La laicità implica la libertà di fede, e a propria volta la garanzia costituzionale che permette ad ogni individuo di coltivare una fede, o anche di non coltivarne alcuna, costituisce l’abito laico delle istituzioni pubbliche.
In base a tale concetto costituzionale di “laicità”, qual è, o quale dovrebbe essere, dunque, secondo lei, il ruolo dello Stato nei rapporti con le confessioni religiose?
Sostanzialmente si tratta d’un ruolo suppletivo rispetto alla diseguaglianza dell’offerta religiosa. Questo ruolo è illuminato dal principio d’eguaglianza sostanziale, e ha per orizzonte il pluralismo. Poiché infatti la Costituzione italiana accoglie una democrazia sostanziale, e non solo procedurale, la laicità impone una giustizia di risultato. In altre parole, impone di alimentare il pluralismo religioso prestando l’ausilio pubblico in soccorso delle confessioni minoritarie o marginali, per impedire che esse vengano schiacciate dalla religione dominante. Tuttavia ciò non significa auspicare l’istituzione di un dicastero per gli affari religiosi, competente a dettare una sorta di programma di governo verso i culti. Lo Stato laico deve rimanere muto rispetto ai valori coltivati dalle singole fedi. Ma può e deve intervenire per assicurare ad ogni confessione l’eguaglianza nei punti di partenza, affinché tutte le voci religiose siano udite. Che poi siano anche ascoltate, questo dipende dalla libera scelta dei fedeli.
1) Articolo 3, primo comma, della Costituzione: “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
2) Articolo 3, secondo comma, della Costituzione: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
3) E’ il principio in base al quale lo Stato e la Chiesa cattolica, nelle materie di comune interesse e nella regolamentazione dei loro reciproci rapporti, non procedono unilateralmente, bensì sulla base di accordi e intese bilaterali.
4) Articolo 7 della Costituzione: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”.
Biografia
Michele Ainis insegna Diritto pubblico all’Università “Roma Tre”. Oltre all’impegno accademico, svolge un’intensa attività di editorialista de La Stampa. Tra i suoi ultimi volumi, Se 50.000 leggi vi sembran poche (Mondadori, 1999), La legge oscura. Come e perché non funziona (Laterza 2002), La libertà perduta (Laterza, 2003), Le libertà negate. Come gli italiani stanno perdendo i loro diritti (Rizzoli 2004), Vita e Morte di una Costituzione (Laterza, 2006), Stato Matto. L’Italia che non funziona e qualche proposta per rimetterla in moto (Garzanti, 2007).
© Sintesi Dialettica – riproduzione riservata