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Il dibattito politico italiano, soprattutto a seguito di casi giudiziari che hanno scosso notevolmente l’opinione pubblica, si è incentrato negli ultimi anni sull’opportunità di disciplinare sul piano del diritto positivo ciò che comunemente viene definito “testamento biologico”.

Il dibattito politico italiano, soprattutto a seguito di casi giudiziari che hanno scosso notevolmente l’opinione pubblica, si è incentrato negli ultimi anni sull’opportunità di disciplinare sul piano del diritto positivo ciò che comunemente viene definito “testamento biologico” (1). A scanso di possibili equivoci terminologici, non si tratta di un vero e proprio “testamento”, ossia di quella manifestazione di volontà disciplinata dall’articolo 587 del Codice Civile e destinata a produrre effetti dopo la morte di colui che l’ha resa, bensì di una dichiarazione anticipata di volontà (una direttiva) in merito alle terapie che un soggetto, capace di intendere e di volere, ritenga o meno di accettare nell’eventualità in cui dovesse in futuro trovarsi nell’incapacità di esprimere il proprio consenso o rifiuto informato. Un atto unilaterale di volontà, quindi, destinato a produrre effetti quando il soggetto è ancora clinicamente in vita, ancorché in condizioni d’incapacità ad esprimere il proprio consenso in ordine al trattamento sanitario praticatogli.

Dell’ammissibilità della fattispecie nell’ordinamento italiano

Legum servi sumus, ut liberi esse possimus”, scriveva Cicerone: “siamo servi delle Leggi, per poter essere liberi”. Finora, in assenza di una valida normativa di legge, il necessario consenso a determinati trattamenti sanitari da parte di soggetti incapaci è stato sostituito dal consenso di “altri”: dalla volontà di un medico, di un giudice, di un familiare. E ciò a scapito della libertà di autodeterminazione dell’individuo in un terreno che pone certamente rilevanti problemi etici di demarcazione dei confini entro i quali tale libertà possa esprimersi. Un terreno di confronto tra impostazioni ideologiche differenti, tra istanze radicali che spingono verso un indiscriminato diritto alla libera determinazione della persona, giungendo al riconoscimento dell’ “eutanasia” tout court, e impostazioni, altrettanto radicali, che giungono ad una vera e propria “idolatria della vita” nella sua dimensione biologica, prescindendo da qualsiasi considerazione “qualitativa” della stessa.

L’unanime consenso circa la necessità di rispettare il fondamentale valore della dignità umana trova un ostacolo di rilievo etico nel momento in cui si discuta del rifiuto di trattamenti sanitari nei confronti di malati terminali, cioè di rifiuto di interventi che possano mantenere in vita un soggetto affetto da malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili.

Sennonché, il nostro ordinamento giuridico già offre validi strumenti per analizzare la fattispecie del c.d. testamento biologico (meglio “direttive anticipate di trattamento sanitario”) dal punto di vista della sua liceità, la quale, a sua volta, presuppone un giudizio di valore già effettuato dal nostro Legislatore in relazione ai beni ed ai principi da tutelare in via primaria.

La fattispecie in questione, infatti, è strettamente legata all’autonomia privata ed agli atti di disposizione del proprio corpo.

Se non si discute circa la possibilità di disporre del proprio corpo “post mortem” (2), riguardo agli atti di disposizione da vivi del proprio corpo l’articolo 5 del Codice Civile sancisce espressamente che “sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”.

Dunque, una direttiva in merito al rifiuto di cure “salva-vita” sarebbe apparentemente vietata se ci fermassimo a tale disposto, ma così non è. Tale norma a carattere generale subisce, infatti, delle deroghe in virtù di norme speciali (3), giustificate dall’alto valore solidaristico (come quelle relative ai trapianti di organi e tessuti), o da norme di rango superiore (come quelle costituzionali).

Da questo complesso di norme emerge che, fuori dai limiti dettati dalla norma codicistica, il diritto individuale sul proprio corpo risulta essere un diritto soggettivo assoluto, incoercibile, incedibile e limitatamente disponibile; ed anche qualora se ne disponga nel rispetto “dell’integrità fisica, dell’ordine pubblico e del buon costume”, la libertà individuale di sottoporsi o meno ad un determinato trattamento sanitario rimane, appunto, una libertà, per definizione incoercibile. Così come nessuno può essere costretto a donare il sangue o a sottoporsi ad un trapianto di organi, allo stesso modo nessuno può essere costretto a sottoporsi ad una cura sanitaria, a meno che il trattamento sanitario in questione non sia giustificato da ragioni di salute pubblica (evitare, ad esempio, il diffondersi di un’epidemia).

Ciò che è espressamente garantito da una norma di rango superiore, quale l’articolo 32, secondo comma, della Costituzione, che prevede il divieto di trattamenti sanitari coatti, salvi i casi previsti dalla legge.

Alla luce di tale norma, il citato articolo 5 c.c. va contestualizzato e riletto in chiave costituzionalmente orientata. Esso fa parte di un Codice del 1942 ispirato all’ideologia di quegli anni, in cui il bene “salute” era considerato non tanto quale diritto individuale soggettivo, ma espressione di un interesse superiore dello Stato; con l’avvento della Costituzione nel 1948, di ispirazione cattolico-liberale, vengono ribaltati i termini della proporzione, muta il rapporto Stato-cittadino nella direzione di una tutela superiore, di rango costituzionale, appunto, dei diritti inviolabili e delle libertà della persona.

La salute viene tutelata in via primaria, ma quale diritto inviolabile dell’uomo. E’ la persona il nucleo, il centro e l’oggetto di tutela giuridica, ma non tanto, e non solo, la persona quale essere vivente (il bene “vita” era già tutelato dalla normativa penalistica di allora), quanto la persona quale soggetto titolare di “uguaglianza intrinseca” (4) e di libertà fondamentali.

Ne discende che il principio d’indisponibilità della vita umana, desumibile, oltre che dagli articoli 5 del Codice Civile e 32, primo comma, della Costituzione, da tutte quelle disposizioni penalistiche che puniscono i reati di omicidio, di istigazione al suicidio e di omicidio del consenziente (5), subisce un bilanciamento con un principio di pari rango, quello della libertà di autodeterminazione dell’individuo, che non conduce certo al riconoscimento di un “diritto a morire”, ma che consente a chi versi in condizioni cliniche irreversibili o a chi non accetti di sottoporsi a determinate cure – in ossequio anche al divieto generalmente riconosciuto di “accanimento terapeutico” – , di poter dichiarare la propria volontà e di veder tutelato il suo legittimo rifiuto di cure coatte sulla base di un suo insindacabile e personale giudizio sul modo di concepire la propria esistenza e la propria malattia (6).

Il “diritto sul proprio corpo” e la dottrina del consenso informato

A chi appartiene il corpo? Può il corpo costituire oggetto di un diritto soggettivo, dal quale consegua la possibilità di disporne? Per quanto sopra detto, sicuramente si, entro certi limiti. Ma tale assunto non è così scontato, esso è il frutto di una lunga evoluzione nel pensiero filosofico e giuridico dall’Ottocento ad oggi, che meriterebbe sicuramente una trattazione più ampia. Secondo la tradizionale impostazione giusnaturalistica, infatti, il “corpo” si identificava con la “persona”: il modello del “soggetto morale” di Kant, secondo il quale l’uomo può essere signore di sé (sui juris), ma non proprietario di se stesso (sui dominus) (7), fu ripreso dai giuristi attraverso il filtro dell’individualismo proprietario, per il quale può aversi “dominio” solo su un oggetto (res).

E poiché l’uomo non è “oggetto”, ma “soggetto”, non si può parlare di un diritto soggettivo dell’uomo sul corpo, perché si avrebbe un diritto del soggetto sul soggetto medesimo. Oggetto di proprietà possono essere, per lo stesso motivo, solo le parti distaccate dal corpo, come il sangue, i capelli, il latte della balia, ecc.

Ma a ben vedere questa concezione, che identificava la persona e il corpo e nella quale prevaleva l’idea che il corpo appartenesse alla natura, si scontrava con un dato storico e sociale: il controllo degli altri e il possesso di sé sono sempre stati un fatto “positivo” e non naturale ed il controllo del corpo altrui, quale oggetto di coercizione, caratterizza ancora oggi in maniera più o meno intensa la nostra civiltà (8).

E così il corpo comincia ad essere considerato come qualcosa che “appartiene” alla persona. Non nel senso di un vero e proprio “diritto di proprietà”, ma quale oggetto distinto dal soggetto-persona.

Nel mondo giuridico moderno si assiste, inoltre, ad un’espansione della categoria del diritto soggettivo sempre più proiettata al sé: oggetto di diritto diventano le proiezioni esterne della persona stessa, quali la privacy, il diritto d’autore, il diritto al nome, i diritti della personalità in generale. Il soggetto diviene esso stesso oggetto di diritto nelle sue diverse manifestazioni, verso la tendenza ad una crescente astrattezza dei “beni” oggetto di tutela giuridica.

Il pensiero moderno ha, così, progressivamente abbandonato l’idea che il diritto alla salute sia un diritto indisponibile, in quanto il corpo non si identifica più con la “persona”, esso è “della persona”: ciò che ha portato al riconoscimento di un diritto soggettivo perfetto al rifiuto delle cure.

Tale diritto è oggi collocato tra i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.) in quanto espressione della libertà personale e di autodeterminazione dell’individuo (art. 13 Cost.) e va coordinato, naturalmente, con il diritto alla salute e all’integrità fisica.

Da tale contemperamento discende, come si accennava all’inizio, che nel mutato contesto ideologico il riconoscimento di un diritto al rifiuto delle cure non si identifica con il riconoscimento di un diritto al suicidio della persona, perché l’omicidio del consenziente resta comunque una condotta punibile come fattispecie di reato (art. 579 c.p.); ma consente ad un malato, che in virtù di accertamenti clinici inequivocabili sia destinato a morte prematura, di rifiutare legittimamente una cura laddove la stessa implichi una sofferenza fisica o psichica soggettivamente intollerabile.

In Italia, del resto, qualunque trattamento sanitario necessita del preventivo consenso del paziente (9).

L’articolo 5 della Convenzione di Oviedo sui Diritti dell’uomo e sulla biomedicina, ratificata dal nostro Paese, sancisce espressamente che “un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato […]. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”. Principi, questi, ripresi anche nei Codici di Deontologia medica.

E’ quindi il consenso del paziente che rende lecita l’attività sanitaria, in assenza del quale tale attività costituisce reato ed illecito risarcibile.

L’obbligo del consenso informato subisce eccezioni solo in casi ben determinati: le situazioni nelle quali la persona malata ha espresso esplicitamente la volontà di non essere informata; i casi in cui le condizioni del paziente siano talmente gravi da richiedere un immediato intervento di necessità ed urgenza ed il malato versi in condizioni di incapacità; nonché tutti gli altri casi in cui si possa parlare di consenso implicito, come per le cure di routine.

Ma è proprio da tale “consenso implicito” e dalla condizione d’incapacità del malato a prestare il proprio consenso, che emerge la necessità e l’urgenza di una disciplina specifica della “direttiva anticipata di trattamento sanitario”.

Come si può, infatti, consentire legittimamente di delegare ad altri o ad un rappresentante, ricorrendo alla finzione del c.d. “consenso presunto”, l’esercizio di un diritto o di una libertà fondamentale della persona?

L’istituto della “rappresentanza”, tra l’altro, è escluso per i c.d. “atti personalissimi” (come, ad esempio, il testamento), quindi desta qualche perplessità l’utilizzo di tale strumento nell’ambito del diritto alla salute e del diritto al rifiuto di trattamenti sanitari.

La sola rappresentanza legale è ammissibile per il malato minore di età o che versi in condizioni di incapacità di intendere e di volere, ma fuori da tali casi sarebbe da escludersi che la volontà di un medico o di un terzo possa legittimamente sostituirsi a quella del paziente, unico titolare del bene giuridico tutelato (10). O meglio, la funzione garantista del medico impone di intervenire ogni qual volta il paziente sia in pericolo di vita e nell’incapacità di esprimere il proprio consenso; ma se tale consenso fosse prestato in via preventiva, secondo i criteri stabiliti dalla legge ed in condizioni di piena capacità di intendere e di volere, il malato potrebbe aver voce anche nei casi in cui tale capacità dovesse venir meno (11).

Il progetto di Legge sulla dichiarazione anticipata di trattamento

I principi suesposti e la conseguente necessità di adottare una normativa compiuta in una materia così delicata hanno condotto a diverse proposte di legge, tra le quali l’ultima, licenziata dalla Commissione Igiene e Sanità e recante “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate al trattamento”, è stata approvata in Senato il 26 marzo 2009.

Tale Proposta di Legge, dopo aver espresso come finalità del provvedimento la tutela fondamentale della vita, della salute e della dignità umana, ribadisce il precetto già contenuto in altre fonti normative e nel Codice Deontologico della necessità del consenso informato; vieta, conformemente ai principi generali del nostro ordinamento, qualsiasi forma di eutanasia attiva e di suicidio assistito; sancisce il divieto di forme di accanimento terapeutico. Disciplina, inoltre, all’articolo 3 i contenuti ed i limiti della “Dichiarazione anticipata di trattamento” (12), che è vincolante nei limiti di cui all’art. 8 ed è fatta comunque salva la non applicabilità di tale dichiarazione “in condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato”, applicandosi tale disciplina ai soli pazienti in stato vegetativo.

Viene introdotta la figura del “fiduciario” (13), unico soggetto autorizzato ad intervenire per conto del paziente che deposita una Dichiarazione Anticipata di Trattamento; è previsto un termine di validità di cinque anni dalla redazione della Dichiarazione, salvo rinnovo, nonché un Registro Nazionale di tali Dichiarazioni presso il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali.

Al di là del mancato riferimento a qualsiasi libertà di determinazione del malato nella scelta di interrompere o attivare un dato trattamento, punto dolente del dibattito relativo a tale Progetto di Legge è la qualificazione dell’idratazione e nutrizione artificiale quali forme di “sostegno vitale”, contrariamente a quanto affermato nel Codice di Deontologia medica (art. 51), ove implicitamente vengono accostate ad una forma di trattamento terapeutico. L’articolo 5 del Progetto in esame, infatti, esclude che possano formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento.

E’ evidente che la difficoltà dell’iter parlamentare risieda nella problematica conciliazione di questioni eticamente sensibili ed ancora aperte sul fronte della medicina. L’augurio è che, in attesa della promulgazione della Legge, siano concretamente valorizzati, oltre agli indiscutibili beni della vita e della salute dell’individuo, anche la libertà di autodeterminazione del malato e il rispetto delle scelte e della sofferenza altrui, conformemente ai principi di diritto esaminati.


Note
1) Termine mutuato dal “living will” di esperienza anglo-americana.
2) Mediante disposizioni a carattere non patrimoniale contenute in un testamento (c.d. contenuto atipico del testamento) o in un vero e proprio mandato post mortem ad exequendum, quali quelle riguardanti la propria sepoltura, l’espianto degli organi o dei tessuti a scopo di trapianto.
Si fa notare come con la Legge 1 aprile 1999 ed il successivo decreto del Ministero della Sanità 8 aprile 2000, si sia passati da un sistema di tipo liberal-individualistico, in cui l’espianto degli organi e tessuti era ammesso solo con il consenso espresso del donante, ad un sistema presuntivo, che si basa sulla mancata opposizione espressa in vita dal donante presso la Asl di competenza.
3) Si pensi, ad esempio, alla Legge n. 548/1967 sull’espianto del rene ai fini di trapianto o alla Legge n. 483/1999 sul trapianto parziale di fegato.
4) Sulla definizione di “uguaglianza intrinseca” si veda Locke, Secondo Trattato sul Governo, 1689/90, cap.6, par 54.
5) Il riferimento è agli articoli 575, 576, 577 n. 3, 579 e 580 del Codice Penale.
6) Tale bilanciamento emerge chiaramente dalla lettura dell’articolo 32 della Costituzione, ove al primo comma è sancita la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e al secondo comma, nel sancire che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, è espressamente previsto che la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Ci si riferisce principalmente a questa norma per scongiurare il pericolo dell’”accanimento terapeutico” e per ritenere valida ed assolutamente auspicabile una compiuta disciplina del c.d. testamento biologico.
7) Per Kant, l’uomo attraverso l’uso di “ragione volontà” è signore di sé e responsabile verso gli altri, in quanto responsabile verso l’umanità nella sua propria “persona”; ma non è “proprietario” di sé, perché non è una cosa. Solo in un famoso e tardo scritto intitolato “Del Matrimonio”, il filosofo tedesco parlerà dell’unione carnale in termini di “proprietà reciproca” sul corpo , ove il soggetto e l’oggetto di “proprietà” si annullano a vicenda.
8) Carnelutti F. Teoria generale del diritto, Roma, 1951, p. 127, ammette esplicitamente un diritto sul proprio corpo, conformemente a quanto dispone il Cod. iur. Canonico, al c. 1081, ed afferma che nell’uomo vada riconosciuta, anche in senso giuridico, non solo una persona, ma anche un bene oggetto di diritti.
9) L’obbligo del preventivo consenso informato si fonda, oltre che sull’art. 32 Cost., sulla Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, Oviedo 4 aprile 1997, ratificata in Italia con la L. 28 marzo 2001, n. 145.
10) La Convenzione di Oviedo cit. prevede per il malato minore, interdetto, inabilitato o altrimenti impedito ad esprimersi, la necessità del consenso di un “rappresentante”.
11) Oltre ai casi di cronaca di Pier Giorgio Welby e di Eluana Englaro ed all’esperienza degli ordinamenti giuridici stranieri, per la trattazione dei quali si rinvia a “Eutanasia e legge, un rapporto tormentato”, di Ugo Viale, in questo dossier di Bioetica (http://www.sintesidialettica.it/bioetica/leggi_articolo.php?AUTH=171&ID=312), è interessante il caso più volte trattato dai giudici della Cassazione del rifiuto alla trasfusione sanguigna da parte dei Testimoni di Geova. La fattispecie è di particolare rilevanza proprio perché coinvolge diversi diritti e libertà fondamentali della persona, quali la tutela della salute e della vita, da un lato, e la libertà di credo religioso (che coinvolge il pluralismo ed il multiculturalismo dello Stato), la libertà di autodeterminazione dell’individuo ed il diritto al rifiuto di cure coatte, dall’altro. Tra le numerose sentenze sul tema, riteniamo di particolare interesse la sent. Cassazione Civile, sez. III, n. 4211/2007, la quale ha stabilito che se le trasfusioni sanguigne si rendono necessarie per scongiurare il pericolo di vita del paziente, il sanitario che le effettui, seppur a conoscenza del rifiuto del paziente stesso (nel caso di specie un testimone di Geova, per la cui fede è vietata la trasfusione di sangue in virtù del dictum “astenetevi dal sangue”, in Atti 15:29), pone in essere un comportamento lecito in quanto scriminato ex art. 54 c.p., che esclude la sussistenza di qualsiasi danno risarcibile. Ma ciò che rileva di questa sentenza è la motivazione: i Giudici, infatti, ritengono valido l’intervento medico in quanto eseguito in uno stato di necessità (altrimenti non evitabile), ma se il paziente (in pericolo di vita a seguito di incidente stradale) fosse stato nelle sue piene capacità ricognitive e di autodeterminazione, il trattamento terapeutico praticato nonostante il rifiuto dello stesso avrebbe costituito un illecito penale. In definitiva, per la Corte il problema “non è circa il valore assoluto e definitivo di un dissenso pronunciato in virtù di un determinato credo ideologico e religioso, ma la correttezza della motivazione con cui il Giudice d’Appello ha ritenuto che il dissenso originario, con una valutazione altamente probabilistica, non dovesse più considerarsi operante in un momento successivo, davanti ad un quadro clinico fortemente mutato e con imminente pericolo di vita e senza la possibilità di ulteriore appello del paziente”. Ecco, allora, che non si tratta di vagliare la legittimità di un “rifiuto alle cure” anche per motivazioni di credo religioso, ma la validità del dissenso medesimo in un momento successivo, allorché il paziente sia in pericolo imminente di vita.
12) Art. 5.
1- Nella dichiarazione anticipata di trattamento il dichiarante esprime il proprio orientamento in merito ai trattamenti sanitari in previsione di un’eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere. Nel caso in cui il paziente abbia sottoscritto una dichiarazione anticipata di trattamento, è esclusa la possibilità per qualsiasi persona terza, ad esclusione dell’eventuale fiduciario, di provvedere alle funzioni di cui all’articolo 6.
2 – Nella dichiarazione anticipata di trattamento il soggetto, in stato di piena capacità di intendere e di volere e in situazione di compiuta informazione medico-clinica, dichiara il proprio orientamento circa l’attivazione o non attivazione di trattamenti sanitari, purché in conformità a quanto prescritto dalla legge e dal codice di deontologia medica.
3 – Nella dichiarazione anticipata di trattamento può essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale.
4 – Nella dichiarazione anticipata di trattamento il soggetto non può inserire indicazioni che integrino le fattispecie di cui agli articoli 575, 579 e 580 del codice penale.
5 – Anche nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, l’alimentazione e l’idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento.
6 – La dichiarazione anticipata di trattamento assume rilievo nel momento in cui è accertato che il soggetto in stato vegetativo non è più in grado di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze e per questo motivo non può assumere decisioni che lo riguardano. La valutazione dello stato clinico è formulata da un collegio medico formato da un medico legale, un anestesista-rianimatore ed un neurologo, sentiti il medico curante e il medico specialista della patologia. Tali medici, ad eccezione del medico curante, sono designati dalla direzione sanitaria della struttura di ricovero o della azienda sanitaria locale di competenza.
13) Art. 6.
1 – Nella dichiarazione anticipata di trattamento il dichiarante può nominare un fiduciario maggiorenne, capace di intendere e di volere, il quale accetta la nomina sottoscrivendo la dichiarazione.
2 – Il fiduciario, se nominato, è l’unico soggetto legalmente autorizzato ad interagire con il medico e si impegna ad agire nell’esclusivo e migliore interesse del paziente, operando sempre e solo secondo le intenzioni legittimamente esplicitate dal soggetto nella dichiarazione anticipata.
3 – Il fiduciario, se nominato, si impegna a vigilare perché al paziente vengano somministrate le migliori terapie palliative disponibili, evitando che si creino situazioni sia di accanimento terapeutico, sia di abbandono terapeutico.
4 – Il fiduciario, se nominato, si impegna a verificare attentamente che non si determinino a carico del paziente situazioni che integrino fattispecie di cui agli articoli 575, 579 e 580 del codice penale.
5 – Il fiduciario può rinunciare per iscritto all’incarico, comunicandolo al dichiarante o, ove quest’ultimo sia incapace di intendere e di volere, al medico responsabile del trattamento sanitario.

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