Warren Buffett, uomo di previsioni e di azzardi, abituato a scaraventarsi sulle curve paraboliche della finanza e a presentire guadagni e perdite, disse una volta che si ha ragione «non quando gli altri concordano con te», ma «quando i fatti ti danno ragione». Aldous Leonard Huxley, certamente più vicino per sensibilità e interessamenti alla figura principale di questo articolo, amava dire che «i fatti non cessano di esistere solo perché noi li ignoriamo». La parola «fatto» piaceva molto a Gino Strada, perché era un verbo (participio passato di fare) e un sostantivo, cioè una parola e un’azione allo stesso tempo. La sua intera carriera, o sarebbe meglio dire la sua intera vita, è stata una trafila di parole-azioni, di cui troppo poco si è detto, sebbene il turibolo dei necrologisti postumi, a due mesi dalla morte, sia ancora ben fumigante.
Si è detto molto della sua Sesto San Giovanni, dove nacque nel 1948, della sua barba, dei suoi capelli grigi, della sua espressione serissima, di sua moglie, persino del suo segno zodiacale. Si è detto che ha respirato aria cattolica e poi comunista, che ha bacchettato uno ad uno i governi di destra e di sinistra, per le loro scelte a sostegno della guerra, per la partecipazione ai conflitti recenti, per l’aumento continuo delle spese militari, per le politiche sull’immigrazione e i respingimenti. Non si è detto o si è detto troppo poco di una caratteristica fondamentale del carattere di Gino Strada: la sua coerenza sostanziale.
Il dottor Strada era innanzitutto un «servo della sua parola», espressione felice, che prendiamo a prestito dalla poesia ebraica. Quando un uomo è così impostato nella sua struttura mentale, va da sé il senso di giustizia, la lucidità, la saldezza di propositi, il rigore. Di un altro aspetto del suo carattere si è detto troppo poco: Strada era un grande sognatore che sapeva divertirsi, inventare mille cose e riportare gli ideali platonici lontano dagli orti chiusi dell’università e della cura su misura, lì dove «chi è arrivato» non vuole più stare, vale a dire nel fango dei suburbi, nelle periferie dell’esistenza. Strada ha scelto, giovanissimo, la chirurgia d’emergenza come specializzazione: non è capitato sul campo, ha scelto la tenda sanitaria, l’ha voluta, e non soltanto come avviamento, come praticantato per «farsi le ossa» in vista d’una collocazione più prestigiosa. La sua formazione da medico chirurgo è passata da Stanford, Pittsburgh, Harefield, senza distrarlo dai suoi intendimenti iniziali. Grazie alla Croce Rossa Internazionale di Ginevra, il suo bisturi, nel 1988, è tornato lì dove voleva stare in gioventù: in Pakistan, Etiopia, Tailandia, Afghanistan, Perù, Gibuti, Somalia, Bosnia. Lì dove nessun “uomo arrivato” e ben introdotto vorrebbe più stare. Eppure, in Pappagalli verdi scriveva «fare il chirurgo di guerra è un grande onore»; toccare le ferite, ricucire la vita nei corpi strappati dalla violenza umana, non era per lui soltanto un dovere scolpito in un giuramento, era un «onore». Belle parole, qualcuno dirà: retorica da romanzo d’appendice. Se non fosse che Gino Strada era «servo delle sue parole»: quando nel 1994 decise di convogliare tutta l’esperienza accumulata con la Croce Rossa in una nuova associazione, indipendente, neutrale, capace di portare cure mediche di altissima qualità senza prospettive d’utili – parliamo naturalmente di Emergency – la prima destinazione fu il Ruanda dell’Interahamwe e delle milizie hutu. Il Ruanda del razzismo più violento, che costò la vita a più d’un milione di Tutsi. La seconda destinazione fu la Cambogia, dove fu costruito un centro chirurgico a Battambang, che ha salvato 140.000 vite ed è stato recentemente donato al ministero della sanità cambogiano. La terza fu l’Afghanistan, dove sorgono oggi tre ospedali di Emergency, un centro di maternità, una rete di 44 posti di primo soccorso, una rete di assistenza ai detenuti che si svolge mediante cinque centri sanitari. Le truppe di camici bianchi, guidate da Strada, arrivarono nel paese asiatico nel 1999; ad oggi, hanno curato 7.536.406 persone, più degli abitanti dell’intero Lazio.
Dal 2005, Strada si è buttato a capo fitto in un progetto temerario, di cui si è detto troppo poco sui giornali: il Centro Salam, in Sudan, e Soba Hilla e Khartoum, il primo centro di cardiochirurgia completamente gratuito del continente africano. Ha aperto i battenti in soli due anni, nel 2007. In un’area semi-abbandonata, abitata da 300 milioni di persone, Emergency ha operato ad oggi 9.119 interventi chirurgici, su pazienti affetti da patologie valvolari di origine reumatica, causate da un’infezione non curata da streptococco betaemolitico di tipo A (il 56 % dei pazienti ha meno di 26 anni). In Sudan, l’incidenza della malattia reumatica è 1 malato ogni 1.000 abitanti, in Occidente 1 su 100.000 ed è facilmente prevenibile e curabile.
Nel 2014, Gino Strada decise di scendere in campo contro l’ondata d’ebola più alta e feroce che si fosse mai vista. Si recò in Sierra Leone, dove Emergency era presente dal 2001, all’indomani della guerra civile che aveva messo in ginocchio il sistema sanitario del Paese: oggi in Sierra Leone sono presenti un centro chirurgico, un centro pediatrico (entrambi a Goderich), un centro di primo soccorso (Waterloo, Lokomasama), due Ebola Treatment Centre e due progetti di ricerca sul virus. Risultato: 845.578 vite tratte in salvo.
Se è vero ciò che è scritto nel Talmud babilonese, vale a dire che «chi salva un uomo salva il mondo intero», i potenziali, infiniti mondi salvati direttamente e indirettamente dalle iniziative di Gino Strada quanti sono? Conteggio tutt’altro che semplice, ma si parla di 11 milioni di persone. Non aggiungiamo altro, anche se potremmo.
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